Capitolo III: Bad approaches

Assottigliai gli occhi ed inclinai la testa di lato.
   «Ciao, ehm... Mi hanno detto di venire qui per girare degli audio».
   «Sì, giusto. Hai il copione?».
La mia espressione si fece sempre più confusa: quella voce mi sembrava estranea ma allo stesso tempo era come averla già sentita in passato. Ad ogni modo sventolai il copione, così se avesse replicato senza aspettare una mia risposta avrei avuto la certezza che mi osservasse attraverso quel vetro.
   «Bene, vai a pagina quarantotto per piacere. In basso. Kathryn pensa alle parole del padre, che per la cronaca vanno registrate anch'esse, e dopodiché formula dei pensieri tutti suoi».
Annuii e mossi qualche passo verso un microfono. Infilai le cuffie, così che gli unici rumori udibili fossero quelli riprodotti dalle mia battute e le parole del tecnico dell'audio, poi andai a pagina quarantotto.
Mi schiarii la voce, attesi che la luce verde sulla parete a destra diventasse rossa, segno che stavamo registrando, e presi a recitare le battute.
   «"Faceva tutto parte di un piano. Il compleanno, i regali, le attenzioni... Aveva comprato il mio amore, la mia fiducia, mi aveva fatto credere che fossi la figlia perfetta, che mai nessuno avrebbe potuto dividerci né allontanarci, e poi a scagliare la prima lama contro le mie spalle era stato lui... Come aveva potuto fare questo? Come può qualcuno che dichiara di amarti tanto gettarti in pasto ai leoni quando i problemi bussano alla porta? Amore non è attraversare la tempesta insieme?"».
La luce alla mia destra tornò verde.
   «Non ci credi nemmeno un po'», disse la voce nelle mie cuffie.
Nel momento in cui quel suono esplose nelle mie orecchie, la familiarità che avevo udito poco prima divenne impressionante; il mio cuore mancò un battito e sobbalzai.
   «Non sono il regista, ma non mi hai convinta per niente. Potresti ricominciare?».
Deglutii.
Un pessimo presentimento mi squarciò le budella, costringendomi a sbarrare lo sguardo sul testo.
Lo ripetei più lentamente, cercando di metterci un'altra intenzione, ma non mi fece nemmeno terminare il pezzo che la luce verde tornò ad interrompermi.
   «Faceva pena. Non sei mai stata abbandonata in vita tua da qualcuno che amavi, vero?».
Sollevai la testa dal copione mentre alcune lacrime consapevoli minacciavano di riempirmi gli occhi. Le ricacciai indietro e cercai di calmare il mio respiro irregolare dicendomi che forse mi sbagliavo, forse non era come pensavo, forse la mia mente mi stava giocando un brutto tiro.
Sorseggiai il mio tea caldo prendendo tempo, facendo due passi lungo la stanza, mangiucchiandomi le dita.
Rilessi le righe dei pensieri di Kathryn e avvicinandomi al microfono provai a recitarle di getto, così come venivano fuori, affrettate e sanguinanti come solo le parole di una figlia ferita avrebbero saputo essere.
Ma quella stramaledettissima luce verde m'interruppe ancora.
   «Okay, hai evidentemente bisogno di una mano. Vediamo... Prova a metterti nei panni di una donna abbandonata, okay? Tradita dalla persona che ama per la quale ha combattuto tantissimo tempo, messa da parte perché i problemi si fanno avanti e perché la sua metà si ritiene infelice, insoddisfatta. Prova ad immaginare come debba sentirsi qualcuno che ha creduto ciecamente in qualcun altro, e gli ha perciò servito una mannaia su un piatto d'argento sicuro che, conscio del suo passato, non gliel'avrebbe piantata in mezzo alle scapole mai. Tu come ti sentiresti?».
Deglutii ancora e stavolta le lacrime ruppero gli argini mentre quella voce m'inondava il cranio come uno tsunami.
   «Non ti aiuta? Oh, cosa posso fare... Ci sono! Cerca di pensare a qualcuno a cui viene dichiarato amore tutti i giorni. A colazione, a pranzo, la sera, e la notte... Soprattutto la notte. Prova ad immaginare come debba sentirsi questo qualcuno se, tornando a casa, trovasse sul tavolo della cucina un misero bigliettino che metta fine a tutto, a mesi di amore, di promesse e di fiducia. Prova ad immaginare un dolore tanto grande e comparalo a quello di Kathryn, che è stata tradita addirittura da suo padre!».
Il respiro mi morì in gola: qualsiasi tipo di dubbio fu spazzato via.
   «Ricomincia».
Un singhiozzo mi scosse da capo a piedi.
   «Questo è lo spirito giusto, vedo che sei entrata nella parte! Non fartelo scappare, Nana, ricomincia subito!».
La sua voce era cattiva, metallica, sembrava la voce del nemico.
Ma io perché piangevo? Una ferita chiusa rimane chiusa a meno che non ti procuri lo stesso taglio nello stesso punto due volte.
Ed io avevo fatto in modo di eliminare qualsiasi tipo di arma contundente, così che non sarebbe potuto riaccadere mai più.
Afferrai il copione un'altra volta, ma le mani che tremavano e la vista appannata non mi aiutavano a vedere granché. Sollevai di nuovo lo sguardo come a voler cercare il suo, ma sapevo che stava dall'altra parte del vetro e che non l'avrei incrociato.
Quanti anni, quanti mesi, quanti giorni passati a ripetermi che sarei stata meglio, e finalmente dopo aver preso un grande respiro ce l'avevo fatta. Avevo una vita, una nuova relazione, ero affermata, stavo per raggiungere il mio sogno, avevo dei progetti da realizzare e finalmente ero felice, davvero felice.
Eppure in quel momento mi sentii come quando mia madre mi svegliava nel nel bel mezzo di un sogno bellissimo ed apriva le tende di camera mia, facendo filtrare il sole dalla finestra come a voler dire: svegliati e smettila di sognare, è l'ora di affrontare la realtà.
Non mi sconvolgeva tanto la sua presenza quanto il modo in cui si stava rivolgendo a me, ma in fondo cosa potevo aspettarmi da un'amore che avevo deciso di recidere con un foglietto dagli angoli appuntiti se non astio?
   «Non credo di farcela, oggi».
   «Mi serve quest'audio e mi servono altri rumori di scena. Devo consegnare del lavoro in tempo, quindi collabora».
   «Ho detto che non ce la faccio».
   «E io ti dico che il mondo non gira tutto intorno a ciò che riesci o non riesci a fare. Fare l'attrice era ciò che desideravi, no? Tira fuori le palle prima che parli al produttore di questo tuo rifiuto».
Arrotolai il copione tutto in una mano e mi tolsi le cuffie, posandole sulla postazione del microfono. Credeva di sortire qualche effetto in me con quelle minacce? Solo perché era stata l'amore della mia vita non significava che le mie azioni o le mie emozioni dipendessero ancora da lei; respirai profondamente e cercai di spazzare via la sorpresa e lo sgomento per la sua presenza lì, le domande sul come fosse possibile che con tutti i lavori del mondo e tutte le città del globo, in quel momento fossimo sotto lo stesso tetto dello stesso edificio, le emozioni forti che risentire la sua voce dopo tutti quegli anni mi aveva scatenato.
E dopo qualche attimo di silenzio il filtro nero che copriva il vetro di fronte a me venne meno, rivelando la sua presenza.
Stava appoggiata con una spalla al fianco destro dello specchio e si rigirava un anello tra le dita. La pelle era bianca come la ricordavo, chiazzata di macchie arancio, gli occhiali da vista erano spariti, i capelli chiari altrettanto, sostituiti da un colore scuro, nero.
Notai anche che ai lati del capo erano davvero cortissimi, mentre il suo solito ciuffo continuava a svettare verso il cielo, senza smentirsi mai.
Gli occhi erano cerchiati da trucco nero, che rendeva il blu delle iridi ancora più intenso; anche lei come gli altri era vestita total black, al posto della tuta portava i jeans, ma le cuffie e i walkie-talkie che contraddistinguevano gli altri facevano lo stesso lavoro anche su di lei.
Osservai le sue dita muoversi intorno all'anello e mi resi conto di come un tatuaggio che iniziava sulle nocche delle dita continuasse a protendersi lungo il polso e finisse chissà dove.
Deglutii un'altra volta: era davvero lì, non mi ero sbagliata, ma il suo sguardo mi era totalmente estraneo.
Era come essere al cospetto della gemella psicopatica di Mya.
   «Il mondo è davvero piccolo», mormorai.
   «Troppo, per condividerlo coi codardi», concordò.
   «Studierò il brano più tardi», l'ignorai. Non volevo che un capitolo passato della mia esistenza si immettesse tra quelli nuovi della mia vita attuale. Mya era il passato e come tale doveva restare al suo posto.
   «Voglio le registrazioni entro stasera, io non arrivo mai in ritardo a lavoro».
Mm?
Era per caso un mal celato riferimento?
   «Okay, passerò più tardi allora. Mya, questa è la mia vita desso. Non voglio drammi, non voglio problemi. Sono felice che tu abbia conquistato questo lavoro, ma ti prego di stare al tuo posto e di rispettare le nostre reciproche posizioni».
Ero una donna ormai, sapevo cosa volevo dalla vita, avevo chiuso troppe porte per poterle riaprire, e l'ultima cosa di cui avevo bisogno era un lesbo-dramma con la mia ex ormai dimenticata.
Speravo che lei avesse lasciato alle spalle me tanto quanto io avevo fatto con lei.
La sua risata, fredda e cattiva, risuonò nell'aria.
   «Continui a far girare il mondo intorno a te, Nana! E' impressionante... Spero sia una peculiarità di tutte le attrici, perché se si tratta di una caratteristica strettamente personale non so come riuscirai a cavartela con la tua prossima vittima!»
L'osservai confusa.
   «Vittima?».
Roteò gli occhi e mosse le mani con un gesto eloquente.
   «Insomma... La prossima persona che dirai di amare e che abbandonerai non appena ti stancherai della tua attuale vita e vorrai cominciare a rincorrerne un'altra con meno problemi! Sai cosa intendo, l'hai già fatto in passato, non fare quella sorpresa!».
Rise ancora. Non pensavo potesse serbare così tanta rabbia e rancore nei miei confronti...
   «Sei ferita...», constatai. «Pensavo ti fosse passata, dopo tutti questi anni».
Abbassai lo sguardo. Lei, dall'altra parte dello specchio, si mise entrambe le mani dietro la testa – una mossa che mi riportò in mente non pochi ricordi – ed esclamò maligna:
   «Ti sbagli. Sei stata facile da dimenticare. Se ti avessi amata solo un po' di più, probabilmente oggi sarei ancora ferita, sì. Ma ciò che provo per te, Nana, va al di là dell'amore, dell'odio o dell'affetto». Si avvicinò allo specchio tanto quanto bastava per farmi notare un altro tatuaggio che faceva capolino lungo il profilo del collo.
Che diavolo aveva combinato? In quegli anni doveva aver fatto del suo corpo una tela.
   «Fortunatamente, per te provo una fredda indifferenza».
Sorrisi amara.
   «Fortunatamente, io conosco abbastanza il tuo modo di fare e i tuoi occhi per dire che è una stronzata».
Scosse la testa, divertita.
   «Non sono più quella donna, Ally. Non provo più niente per te, neanche un briciolo di sorpresa nel vederti, nessun battito accelerato, niente sudore alle mani, non rievochi alcun ricordo e nemmeno una sensazione piacevole in me. Ma credo che tu questo non possa capirlo... D'altronde, io non ho cominciato a frignare non appena ho sentito la tua voce».
Staccò il filo dell'altoparlante che la collegava a me con un gesto secco, poi inclinò la testa, mimò con la bocca "ci vediamo stasera", mosse una mano verso di me in segno di saluto e il filtro nero che la separava da me calò su di noi, facendola uscire di scena.
Rimasi pietrificata come se qualcuno mi avesse piantato i piedi al pavimento, gli occhi continuavano a fissare sbarrati il punto in cui era sparita.
Finché un uomo della sicurezza non mi trascinò fuori dall'aula e mi riportò agli studios.


~∞~



Arrivare in ritardo a lavoro per me divenne assolutamente off limits. Non solo perché Kamal mi avrebbe definitivamente tagliato la testa – e con la mia, anche quella di Kathryn e del suo personaggio – , ma anche perché se fossi arrivata in anticipo avrei avuto una percentuale di possibilità maggiore di non incontrare Mya all'ingresso, nella sala relax o nei vari tendoni, il che mi metteva nelle condizioni giuste per iniziare la giornata col piede corretto. Evitavo la sua presenza all'entrata, non pranzavo con gli altri in sala relax ma nella mia roulotte privata e cercavo di non coinvolgere nessuno in questo mio esilio volontario per non rischiare di incappare in domande inopportune. Se i microfonisti non riuscivano a riprendere qualche suono ero disposta a girare la scena più volte così da non dover finire dritta in sala registrazione, ma c'erano volte in cui ottenere determinati rumori si faceva impossibile e allora io e i miei colleghi dovevamo dirigerci per forza lì. Grazie ad un pizzico di fortuna, il resto delle volte non fui costretta ad andarci da sola e l'aria nella stanza imbottita di peluche viola riuscì a rimanere professionale.
Nelle settimane seguenti pagai la nuova mensilità d'affitto alla padrona di casa, le serate coi miei coinquilini si fecero più frequenti e cercai di stringere un rapporto maggiore con loro in modo tale da non ritrovarmi sempre insieme ai membri del cast – che, anche involontariamente, avrebbero potuto riportarmi a lei.
Oltretutto, nonostante la mia carriera fosse in salita e benché avessi avuto davvero poco tempo, essere riuscita a rifarmi una vita dopo Mya che includesse un'altra persona al mio fianco ed averne delimitato gli spazi in modo tale da non perderla, in quegli anni, era stato per me miracoloso.
Poteva apparire strano che proprio io fossi riuscita a far entrare qualcun altro nella mia vita, vista la mia scarsa inclinazione alle relazioni sociali, ma dopo la storia di Mya la decisione di chiudere col mondo dell'amore per far spazio a quello della carriera non aveva proprio sortito l'effetto desiderato. L'Accademia di Recitazione non era frequentata solo da me e dai libri di teoria, dopotutto, infatti a cominciare dai professori ero costantemente circondata da altri esseri umani, e tra i miei compagni di corso uno in particolare aveva attirato la mia attenzione per modi di fare e bellezza.
Jason Perez era un ragazzo di origini argentine da parte di padre e statunitensi da parte di madre, eccelleva nell'arte della recitazione come poche persone, veniva chiamato e ingaggiato praticamente ogni settimana e questo l'aveva portato ad assumere un manager affinché lo aiutasse nella scelta degli spettacoli, delle sit-com e dei film più prestigiosi presso cui lavorare.
La seconda arte in cui eccelleva era sicuramente l'arte di non arrendersi. Era caparbio, testardo, non accettava i rifiuti; a parte crearsi un futuro nell'Accademia che condividevamo, il suo obiettivo, fin dal primo momento, era stato conquistarmi. Mi aveva fatto una corte spietata, milioni di inviti a pranzo e a cena, biglietti per il teatro e serate al cinema da passare insieme per commentare la recitazione dell'uno o dell'altro attore, e nonostante spesso mi fossi ritrovata a rifiutare lui non aveva demorso e alla fine mi aveva ottenuta, in un modo o nell'altro. Avvicinarmi tanto ad un altro essere umano da rimanerne sentimentalmente coinvolta era l'ultima cosa che volevo, eppure capitò e Jason divenne presto una figura di rilievo per me.
Non fu affatto facile: non gli raccontai nulla del mio passato, dovetti combattere contro la mia inesperienza e fingere di aver avuto chissà quale altro fidanzato poco importante alle spalle, incapace di fare perfino sesso. Oltretutto, stando con lui, mi ritrovai a tradire qualsiasi tipo di consapevolezza avessi acquisito grazie a Mya su me stessa e a costringermi ad essere solo quella Ally, la Ally etero che si sarebbe fatta una famiglia, la Ally etero che recitava parti etero e non parlava di omosessualità se non in speciali e rari casi.
Fu come reinventarsi, fingere di non essere mai esistite, rinascere con un'altra testa nello stesso corpo: ipocrita e vigliacca, ma fu così che decisi di continuare a camminare lungo il filo della mia vita, un piede davanti all'altro. Avevo tagliato molti ponti, e per non uscire fuori di testa e convincermi che quel metodo di sopravvivenza fosse il più consono avevo persino smesso di chiamare le mie amiche di Boston, cambiato SIM, città e cuore.
Perché lasciare Mya fu come strapparsi quel muscolo dal petto e sostituirlo con un altro bianco e intatto, senza ammaccature né sangue che pompa.
Avevo tradito me stessa e tutte le battaglie che avevo combattuto in passato, avevo tradito i miei ideali, le mie convinzioni, tutti quei mesi di lotta per restare al fianco della donna che amavo.
Mi ero infilata un coltello nel cuore e dalla sua ferita era venuta fuori un'altra me, come un serpente che abbandona la sua pelle per rifarsene una nuova: avevo un uomo, un mestiere, un lavoro e una carriera che potevo ritenermi fortunata ad aver intrapreso a dispetto di moltissime altre attrici che invece stavano ancora sugli spalti.
D'altronde, non avevo desiderato da sempre essere normale? Come tutti gli altri? Confondermi tra la gente e non essere notata?
Con Jason c'ero riuscita. I suoi occhi verdi avevano indugiato a lungo sul mio corpo, finché la sua pelle color caramello non era riuscita ad ottenere i primi contatti: "com'è bello quest'anello, chi te l'ha regalato?", "indossa la mia giacca, fuori fa freddo", carezze e attenzioni che nonostante mi fossi ripromessa di evitare, alla fine mi fecero cadere nel tranello come il topo col formaggio.
Come pretendere da una ragazza di venticinque anni di fingere, nel fiore della sua età, che l'amore non esista? Avevo preteso troppo da me stessa...
Eppure quella nuova vita che ero riuscita a crearmi, nonostante fosse imbottita di bugie ed omissioni, aveva rigato dritto abbastanza bene fino a quel momento.
Rivedere Mya, però, aveva rimesso tutto in discussione.
Nei giorni successivi al nostro incontro un sogno mi aveva inseguita con insistenza, e dopo essersi ripetuto per il quarto giorno di seguito la mia decisione di evitarla a tutti i costi all'interno e all'esterno degli studios si era concretizzata.
Nel sogno rimanevo bloccata all'interno di una scatola enorme fatta di vetro, la quale restava sospesa a mezz'aria grazie ad una fune di ferro che terminava in un punto sconosciuto in alto; battevo le mani contro le sue pareti ma nessuno veniva a liberarmi, mi disperavo ed urlavo affinché qualcuno mi sentisse, ma nemmeno un'anima si arrischiava a venire in mio soccorso, finché all'improvviso una delle quattro pareti della scatola andava in frantumi e dall'altra parte la figura di Mya furiosa di rabbia veniva verso di me a grosse falcate.
Io indietreggiavo cercando riparo, ma lei era più veloce di me ed ogni volta mi acciuffava per i capelli e mi faceva voltare verso la direzione opposta della scatola, dove milioni di piccoli pezzi di vetro rifletteva no la mia immagine distorta. A quel punto del sogno Mya si avvicinava al mio orecchio e tutto ciò che pronunciava, ridendo con crudeltà, era: "ecco cosa ti sei fatta!".
Ma nonostante mi fossi sforzata, non ero riuscita a capire come pezzi asimmetrici di una parete di specchio potessero riflettere qualcosa che mi ero volontariamente inferta.
Non avevo potuto raccontare a nessuno di quel sogno però, quindi mi ero rifugiata nelle serate a tema "giochi da tavolo" tra coinquilini e nel letto di Jason, cercando nel calore del suo corpo una cura chiamata amnesia.
Ciò che mi dava la forza di affrontare la giornata senza darmi malata, in quel momento, era proprio l'aspettativa di cenare a casa sua alle nove di quella sera.
Dovevo arrendermi all'idea di condividere il mio posto di lavoro con una persona che aveva fatto parte del mio passato e che mi ero quasi convinta non fosse mai esistita negli ultimi due anni: la prospettiva era quindi trovare un modo per evitare di impazzire, un metodo per non far sì che la Ally del passato incontrasse quella del presente e le rinfacciasse la sua non-esistenza, dandole il benservito.
Benché avessi la testa piena di problemi e confusione non dovevo dimenticarmi cosa c'era in ballo, poiché mi ero sudata quel posto e dovevo assolutamente continuare a tenermelo stretto.
Quando le luci all'interno della zona riservata alle riprese si accesero io mi trovavo già dentro, felice di aver evitato nuovamente Mya per il dodicesimo giorno di fila.
Kamal venne verso di me con il copione in mano, sul suo viso era dipinto un sorriso compiaciuto e mi guardava come se fossi un gioiello inestimabile.
   «Tu sei davvero pazzesca!», esclamò lasciandosi andare sulla sua sedia.
Dietro di lui scenografi, costumisti, sceneggiatori e attori si diramarono prendendo ognuno la propria posizione.
Lo guardai senza capire.
    «Di questo passo avremo il trailer pronto per la fine di giugno!».
Sembrava davvero tranquillo, e se Kamal era felice allora ero felice anch'io. Batté le mani un paio di volte, quindi mi preparai in sala trucco con Stacy e dai vestiti che le costumiste mi fecero indossare capii subito che tipo di scena avrei girato quel giorno.
Tornando in sala mi resi conto della presenza del green screen al centro della scenografia; ai piedi di esso, su un apparecchio elettronico costosissimo, era disposta una pedana di guaina resistente che mi avrebbe permesso di correre sul posto mentre lo schermo alle mie spalle, verde all'apparenza, dopo una gran lavorazione al computer avrebbe raffigurato scorrevolmente il tema della mia fuga.
Kathryn scappava dai suoi aguzzini, aveva trovato il modo di fuggire e si era data alla corsa sperando di raggiungere una centrale di polizia o un semplice abitante disposto ad aiutarla.
In quella scena avrebbe conosciuto Madelyn, la traditrice.
   «Cominciamo a girare mentre stai già correndo. Mi raccomando, Ally, Kathryn è spaventata a morte. I suoi aguzzini la stanno inseguendo e non tarderanno a riacciuffarla. Savannah entrerà in scena durante la violenza, come da copione punterà una pistola alla tempia dell'uomo che sta per violentarti e si presenterà ai tuoi occhi come una salvatrice».
Savannah, che non vedeva l'ora di vestire i panni di Madelyn, fremette dall'altra parte del green screen dentro la sua divisa da finta poliziotta.
Io mi limitai ad annuire.
Una volta attivata la pedana, non potei fare a meno di correre a perdifiato finché non fui completamente dentro la parte e feci cenno a Kamal di girare.
Diede il ciak ed io cominciai ad ansimare, mentre immaginavo di essere nel fitto di una campagna abbandonata e di dover saltare e scavalcare tronchi e radici per non rischiare di rimanere intrappolata al terreno. Mi guardavo alle spalle più e più volte, abbassandomi per evitare rami bassi e scostando con violenza foglie immaginarie dal mio cammino; davanti a me si stagliava la campagna, oltre quegli alberi poteva esserci la mia unica salvezza.
Immersa nei panni di Kathryn, cominciai a sentire il panico di una giovane donna che sta per perdere l'umanità farsi spazio nel mio sterno fino a scoppiare in un pianto di terrore; rapidamente diedi un'altra occhiata alle mie spalle e fu in quel momento che, a sorpresa, uno degli uomini di Jamal, nonché uno degli aguzzini che mi aveva tenuta in cattività nelle scene precedenti, mi venne addosso con violenza, ghermendomi per la vita e sollevandomi dal terreno.
   «No! Lasciami, ti prego, lasciami!», urlai e scalciai nel tentativo di colpirlo, ma io ero troppo piccola e lui troppo forte.
Le lacrime scorrevano prepotenti sul mio viso, rigando lo sporco della polvere.
   «Non me ne frega proprio un cazzo che sei vergine... Non me ne frega un cazzo nemmeno di Jamal! Una in meno non fa la differenza», sghignazzò con crudeltà e mi spinse sulla pedana che si era finalmente arrestata.
Me lo ritrovai addosso, grande e grosso, e il mio primo istinto fu quello di pararmi, ma prima che potessimo continuare a girare la scena qualcuno chiamò lo stop della ripresa.
Battei le palpebre frastornata.
Uscire dal personaggio così era come essere risucchiate fuori da un passaggio troppo stretto.
   «Che succede?», chiese l'attore sopra di me che nel frattempo aveva cominciato a sudare.
Senza sciogliere la presa salda con cui mi teneva cercammo entrambi lo sguardo di Kamal.
Che però, a sua volta, stava cercando quello di qualcun altro.

Mya.
   «Kamal, non posso credere che tu abbia approvato una sceneggiatura simile. Che razza di violentatore è uno che afferra la sua vittima per i fianchi?».
Kamal si arrotolò il copione tra le mani, a labbra tese. La guardai scioccata: chi l'aveva fatta entrare? Lei non era una microfonista, si occupava solo della sala registrazioni, perché si trovava lì?
L'uomo che mi sovrastava mi rivolse un'occhiata apprensiva quando si rese conto che stavo ancora ansimando – sebbene non più per la corsa – ed interpretò quel gesto come una richiesta d'ossigeno.
   «Prego? Sei qui solo per sostituire Cromwell, Atson. Non ti ho affidato il compito di stoppare le riprese».
Lei fece spallucce.
   «Ma quando una cosa fa schifo, fa schifo!», sollevò le mani in segno di resa.
   «Quando avrai una fottuta sedia col tuo nome sopra e dirigerai un cast di attori a Broadway, allora forse ti verrà concessa la possibilità di sentenziare una cosa simile. Fino a quel momento ti consiglio di tenere a bada la lingua».
Mya non rispose ed afferrò nuovamente il microfono.
Respirai a fondo e provai ad isolarmi così da non farmi influenzare dalla sua presenza.

Mya non è qui.
Esiste solo Kathryn e la tua carriera. Concentrati.

Nonostante rientrare nel personaggio si fece quasi impossibile dopo quella messinscena, ricominciai comunque a correre sulla pedana che nel frattempo aveva ripreso a muoversi freneticamente sotto di me, finché lo stesso attore di poc'anzi non mi bloccò e mi caricò sulle spalle, tenendomi per le cosce mentre io lo colpivo a suon di pugni.
Mi spinse contro lo screen green ed immaginai che dietro le mie spalle avrebbero creato virtualmente un albero, poi pronunciò la sua battuta ma non ebbe il tempo di fare nient'altro perché dall'altra parte Mya parlò ancora.
   «Oh, ti prego! Sono un'addetta al missaggio, è vero, ma in questo momento sono anche una spettatrice e non pagherei nemmeno un dollaro per vedere una scena di violenza fisica così finta!».
Kamal parve furioso e scioccato, lasciò cadere a terra il copione – e per scaramanzia questa cosa non va fatta mai! - e la guardò dal basso.
   «Cosa ne sai tu di cos'è finto e di cosa può sembrare realtà? Se la tua posizione sociale si limita a darti la gioia di tenere sospeso un microfono mentre questi attori interpretano milioni di visi, di storie e di vite un motivo ci sarà!», sbraitò e nonostante stesse cercando di tenere a freno la sua rabbia e di comportarsi educatamente, potevo vedere dai tratti del suo viso come stesse facendo davvero fatica a non buttarla fuori dal tendone.
Kamal non andava mai contrastato.
   «Sto solo suggerendo qualcosa di più violento!».
Il regista allargò le braccia esasperato, si alzò in piedi e le ordinò di scendere dalla scala su cui stava eretta. Non appena fu alla sua altezza le si avvicinò pericolosamente e le puntò un dito al petto.
   «Ho tantissimo lavoro da fare, due ore di sonno a notte e un film da portare a termine. Se pensi di poter fare meglio di me, accomodati. Ma se non mi piace quello che vedo sei fuori dal cast», la minacciò.
Dopo un momento di sconcerto generale Mya sorrise sfrontata come se non fosse appena stata minacciata di licenziamento, venne verso di me e non mi degnò nemmeno di uno sguardo.
Disse qualcosa all'attore che recitava con me, questo si fece da parte e Mya prese il suo posto.
La guardai con gli occhi fuori dalle orbite, scuotendo impercettibilmente la testa come in uno stato di trance, poi l'urlo di Kamal mi ridestò.
   «Ciak, azione!».
Non ebbi il tempo di realizzare nulla che mi ritrovai a correre nuovamente a perdifiato, schivando alberi e foglie che adesso prendevano i contorni delle cose familiari che per anni mi avevano circondata, saltando su radici che avevo estirpato, su buche che avevo chiuso al meglio delle mie forze.
Focalizzai Kathryn, focalizzai me, focalizzai suo padre, il mio, Kamal, Mya, Jason...
Corsi ancora, gettandomi sguardi alle spalle ma improvvisamente andare avanti non mi sembrava più la via di salvezza ideale, finché tutti i miei pensieri discordanti furono spazzati via dal suo attacco.
Mi arrivò alle spalle e mi costrinse a rovinare sulla pedana, che come prima si arrestò non appena toccai il pavimento.
Con una mano mi tenne il capo ancorato al pavimento di guaina, imprimendo anche una certa forza.
Cercai di scalciare ma mi bloccò le gambe con le sue, provai a colpirla in qualche modo ma mi afferrò anche i polsi e li costrinse sopra la mia testa con la mano libera.
In quel momento la paura che provavo da finta divenne reale.
Si abbassò sul mio orecchio e sussurrò con cattiveria ed impudenza: «Non me ne frega proprio un cazzo che sei vergine, non me ne frega un cazzo nemmeno di Jamal! Una in meno non fa la differenza, non vedrà nemmeno che sei scomparsa!».
Mi afferrò la camicia già bucata all'altezza della schiena e la strappò, lasciandomi la testa; sbarrai gli occhi e cacciai un grido sincero, ma lei non si fermò anzi parve godere della mia paura.
Posò il naso tra i miei capelli e rise, poi ghermì un pezzo della stoffa dei miei pantaloni sfatti e li abbassò rivelando le natiche.
Ci affondò le dita di una mano, respirandomi accanto all'orecchio. Urlai ancora e alcune lacrime mi punsero gli occhi, il cuore mi batteva così forte che rischiava di prendermi un infarto.
Poi, prima che potesse afferrarmi anche le mutandine e continuare con la violenza del suo personaggio, Savannah entrò in scena interpretando Madelyn e le puntò una pistola alla testa.
    «Alzati, brutto bastardo, o ti sparo seduta stante!».
Mya lasciò andare immediatamente qualsiasi presa sul mio corpo e sollevò le mani in segno di resa, tremante.
A quel punto la scena era finita, ma nessuno parlava. Tutti ce ne stavamo nelle nostre posizioni, io prona e sconvolta, Madelyn brandiva la sua arma e Mya teneva le mani verso il cielo.
Non ronzava nemmeno una mosca, nessuno osava fiatare.
Finché Kamal afferrò il suo megafono ed urlò un po' tramortito: «Pausa per tutti!», poi fece cenno all'attore che recitava con me di raggiungerlo e insieme evidenziarono qualcosa nel copione. Lanciò delle occhiate a Mya che nel frattempo si era rimessa in piedi, spazzandosi via la polvere dai jeans, e le fece l'occhiolino.
Avevano sicuramente modificato la scena.
Kamal era un uomo orgoglioso, non gli veniva affatto facile ammettere quando qualcuno aveva un'idea migliore della sua – nel novanta percento dei casi nonostante si sbagliasse continuava comunque dritto per le sue idee – ma con mia sorpresa non urlò a Mya niente di spiacevole e non la licenziò, liquidò la questione e prese una pausa anche lui.
Non voleva farle la paternale davanti a tutti, ma ero più che sicura che l'avrebbe chiamata per una chiacchierata in privato in modo da intimarla a rispettare i ruoli nonostante avesse dato un ottimo suggerimento.
Il resto del cast si allontanò lentamente, alcuni lanciandomi delle occhiate perplesse: me ne stavo ancora sdraiata sul pavimento.
   «Stai aspettando che sia io a rivestirti?».
Mi ricomposi – con scarsi risultati – e imbarazzata mi tirai su i pantaloni che lei aveva abbassato, mettendomi a sedere.
Non le risposi, non mi aiutò a rimettermi in piedi.
   «Complimenti, vedo che sei anche un'ottima attrice», esordii con nervosismo.
Sminuì le mie parole con un gesto della mano.
    «Lascio questa merda a te, ma grazie lo stesso», sentenziò acida.
   «Potevi proporre a Kamal questo notevole incremento di violenza a tavolino, in maniera teorica, eppure ti sei voluta cimentare nella pratica rischiando perfino che non gli piacesse. Interesse personale o in realtà questa merda ti piace?».
Ero cresciuta, non ero più la stessa ragazzina che si teneva dentro le rispostacce per non ferire gli altri e si ammalava il fegato di collere.
Lei sollevò un sopracciglio, sorpresa.
   «Interesse personale, dici? E dovevo servirmi di una scenetta per scoprirti il culo? Non hai niente che non conosca già, Nana. Ci si vede in giro... Oh, no. Già!», schioccò le dita e se le picchiettò sulla fronte, ridendo. «Mi stai evitando, quindi... Ti vedo quando ti vedo».
Mi voltò le spalle e se ne andò, facendo ruotare le chiavi della sua roulotte lungo l'indice e fischiettando "Dominique" di Soeur Sourire.


Angolo autrice:
Da dove cominciare?
Comincio da qui: nascondersi dietro una maschera è mooooolto facile. Più che mostrarsi per ciò che si è, soprattutto quando si hanno ferite grandi e ancora sanguinanti da nascondere. Ally e Mya sono davvero cambiate, così come ognuno di noi crescendo si costruisce i suoi muri e smussa il proprio carattere, però una cosa che ho notato a mie spese è che dentro non si finisce MAI di essere genuini così come si è sempre stati: il trucco sta nello smascherare anche i più forti.
E nonostante questo possa esservi sembrato un discorso inutile, spero che qualcuno abbia saputo cogliere il mio suggerimento. ;)
So già che molto probabilmente questo nuovo "lato" di Mya non piacerà a tanti, ma fa tutto parte del piano e spero che sebbene non siate stati abituati a certe scene non cominciate a credere che Mya sia diventata una sociopatica pazza pronta a violentare sul serio le persone o a trattarle come se fossero merda da calpestare: NON E' ASSOLUTAMENTE COSI'.
E per quanto riguarda Ally e Jason... Lascio a voi le conclusioni.
Stay tuuuuuned! <3

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top