Diciottesimo
«Steve. Svegliati. Coraggio. Ti prego.» Sussurrava Bucky con la voce straziata dal dolore, mentre fissava il viso addormentato di Cap, che era in quel sonno beato chiamato coma da più di un mese. Le giornate di James si svolgevano per lo più in ospedale, accanto a Steve; a turno un membro della squadra dei vendicatori gli portava da mangiare e si assicurava che prendesse le sue pillole. La sera il ragazzo tornava a casa e si sdraiava sul divano, chiudendo occhio solamente per poche ore, quando i suoi incubi erano meno insistenti.
Piangere ormai era inutile, piangere ormai era impossibile. Incredibile, ma aveva finito le lacrime. Era soltanto vuoto nell'anima, nella mente, nel corpo. Rivolgeva qualche parola sussurrata solamente a Steve, con la speranza viva che lo ascoltasse, in qualche modo.
Non pensava a nulla, non ci riusciva proprio, e, mentre fissava con sguardo spento Cap, le macchine iniziarono a emettere dei rumori insistenti e fastidiosi.
Bucky, terrorizzato, si alzò dalla sedia ed, intimorito, sfiorò tutti quei tubi e fili, credendo di aver accidentalmente spostato qualcosa mente gli teneva la mano, ma il rumore non accennava di cessare, rimbombava nelle sue orecchie, un urlo di morte che gli assicurava di averlo perso per sempre, finché non arrivarono dei medici.
Bucky fu spinto indietro, cercando nel vano tentativo di scorgere Steve, ma la squadra di dottori impediva la visuale.
Terrorizzato, quasi in lacrime, ansimò, pregando qualcosa di superiore che Steve stesse bene.
«Sta andando in arresto!» Riuscì a capire dalle parole di un medico in mezzo a tutto quel caos e rumore.
In quel momento ebbe la certezza di averlo perso. Il dolore era così immenso, pronto a riversarsi fuori squarciandogli la pelle. Alla sua morte, tutte le cose veloci e belle e luminose sarebbero state sepolte assieme a lui. E Bucky non era pronto ad affrontare una cosa del genere.
Senza fare domande, rimanendo in un silenzio misto allo shock, delle infermiere si affrettarono a farlo uscire dalla stanza, isolandolo completamente da tutta quella situazione.
Disperazione, l'unico sentimento che provava Bucky. Un sentimento che dilania le interiora, che scombussola lo stomaco, che chiude la gola.
Bisognoso d'aria corse per i lucidi corridoi dell'edificio, uscendo, continuando a correre per strada, fino a fermarsi sotto ad un albero, sedendosi su un piccolo marciapiede. Doveva riprendere ossigeno, sentiva mancare l'aria, quasi credeva di morire. Respirava irregolarmente, sudando e tremando. E poi il suo cuore iniziò a fargli perdere la regione, trastullato ed indebolito dal suo battito talmente veloce da fagli male.
Carico fino all'orlo, Bucky strinse le mani in testa, così forte da strapparsi alcuni capelli scuri, e urlando.
Un urlo animalesco, pieno di dolore e paura. Poi iniziò a piangere, stremato, facendosi mancare di nuovo l'aria.
Un filo di vento fresco gli sfiorò il viso, dandogli, dopo tanto tempo, una minima sensazione di sollievo.
Si alzò in piedi, iniziando a camminare, con l'unica certezza di aver perso per sempre Steve. Doveva scomparire, da bravo parassita sarebbe ritornato strisciando da dove era venuto, lui era la causa di tutto.
Con le mani in tasca, cecando in tutti i modi di nascondere l'arto d'acciaio, avanzò a passo veloce per chilometri, senza rendersi conto di quale sarebbe stata la sua meta.
Stanco, si ritrovò in un posto abbastanza familiare, che aveva visto non molto tempo prima.
Era la chiesa dove aveva incontrato Steve, dove c'era stato un funerale, e difronte all'edificio sacro, un cimitero.
Il prato era verde, il sole splendeva come se non ci fosse traccia di morte in quella terra; alcune persone sostavano davanti a delle lapidi, alcuni con dei fiori fra le mani, altri solamente con le lacrime agli occhi ed il cuore in frantumi nel petto.
Ebbe un brivido al solo pensiero che Steve avrebbe presto o tardi trovato posto fra quelle lastre di marmo, magari con una dedica patriottica sopra:
Steven Gratn Rogers-Captain America, eroe della nazione.
Qualcuno avrebbe aggiunto la causa della sua morte? Avrebbe scolpito il nome del mostro che gli aveva tolto la vita?
Si mosse distrattamente fra quelle tombe, scorgendone una che attirò la sua attenzione:
Margaret "Peggy" Carter
Si immobilizzò, vedendo la foto dell'anziana donna dai lineamenti familiari.
Si avvicinò ancora di più, inginocchiandosi e sfiorando la piccola immaginetta sulla pietra.
«Io ti conosco.» sussurrò aggrottando le sopracciglia.
«Tu sei Peggy, la signorina che ci provava con il mio Steve...» quelle parole uscirono spontanee, e fecero davvero male quando dalle sue labbra scappò il nome del biondo.
«Tu ci hai scoperti... Ma hai mantenuto il segreto.» ricordò quel particolare; Carter rientrata da una missione che aveva visto amoreggiare i due soldati nell'accampamento. Avrebbe potuto vendicarsi per la delusione avuta con Rogers, dato che provava qualcosa per lui, ma non lo fece. Restò in silenzio e non raccontò nulla a nessuno.
«Garzie.»
Bucky premette la mano calda contro le sue labbra umide dal pianto, in procinto di scoppiare ancora in un ennesimo singhiozzo.
«T-ti prego, ti supplico dillo a Steve, che lo amo, e che mi dispiace. Prenditi cura di lui adesso, per favore.» tirò su di naso tremando; «Continuo a ricordare poco di lui, e forse non saprò mai più nulla sul suo conto, ma doveva saperlo: porca puttana, doveva saperlo che lo amo ancora. Non doveva morire senza riavermi, io ci ho provato a ritornare quello di prima, ma non ci riuscirò mai.»
Asciugò le lacrime con la manica della felpa, scattando in piedi, e andando via da quel luogo, continuando a camminare.
Ricordò che dove abitava lui c'era un ponte. Non si trattava della Russia, o di uno quartiere malfamato in cui abitava durante la sua fuga; era una città caotica attraversata da un ponte.
Brooklyn.
La parola ponte continuava a rimbombargli in testa. Ponte significava acqua. Acqua significava via d'uscita.
Davanti ai suoi occhi, lungo la strada afosa e rumorosa, una sagoma maschile gli si materializzò.
Era Steve, con un dolce sorriso in volto, sereno e felice.
«Buck, dove vai? Torniamo a casa, torniamo a Brooklyn.»
Bucky sorrise istericamente, abbassando il capo e scrollando la testa. Strinse i pugni e puntò nuovamente lo sguardo su quella figura:
«Mi dispiace Steve, ma non sei reale.»
Una donna attraversò la strada, passando difronte a Steve, e facendo sparire il biondo nel nulla, dissolto nell'immaginazione di Barens, che riprese a camminare, verso il ponte.
I medici erano riusciti a rianimare Steve. Gli avevano levato il grosso tubo dalla gola che gli permetteva di respirare, facendogli riprendere le sue funzioni vitali autonome, dopo un improvviso miglioramento. Era solo nella sua stanza, nessuno era accanto al suo letto, nessuno gli teneva la mano.
Cap mosse su e giù il busto, respirando a pieni polmoni, quasi come un neonato.
Aprì la bocca, ispirando fino in fondo il gas che la mascherina datagli come aiuto gli forniva, emettendo un suono strozzato. Strinse con le sue minime forze la bianca coperta, provando quasi dolore ad ogni respiro.
Mosse lentamente il capo a detersa e a sinistra sul cuscino. Aprì a fatica i gonfi occhi, facendo delle brevi pause, cercando di abituarsi alla fastidiosa luce.
Alla fine li aprì, guardandosi intorno confuso e ansimante.
«Bucky?» Domandò con un filo di voce storpia, anche se in stanza era solo.
Era debole, una sensazione talmente sgradevole e invalidante, ma voleva sapere dove fosse Bucky, più di ogni altra cosa. Si sedette dritto, aiutandosi con le muscolose braccia che tremavano, penzolando le gambe dal letto, e, levando la mascherina, si mise barcollando in piedi. Nemmeno lui sapeva come ci riusciva.
Si teneva su letto, rimanendo fermo per pochi minuti, gestendo le vertigini e i capogiri. Poggiò le mani al muro, e si trascinò assieme a tutti quei macchinari attaccati al suo corpo che gli facevano da zavorra, fuori dalla stanza.
«Sto cercando Bucky.» Disse con tono più alto, reggendosi con uno sforzo per lui sovrumano alla porta, cercando di chiedere informazioni alla gente che passava per il corridoio, che lo ignorava.
Arrabbiato, continuò a trascinarsi lungo la parete, e finalmente delle infermiere lo notarono.
«Signor Rogers?» Lo chiamarono stupite e preoccupate da dietro, facendo girare Cap, che chiese arrabbiato: «Dov'è Bucky? Bucky Barnes. Dov'è?»
Ma nessuno si degnò a dargli una risposta. Di prepotenza fu preso e messo in una sedia a rotelle, riportato in quella prigione da dove era riuscito ad uscire, costretto a stare a letto, spaventato e confuso, continuando a ripetere: «Dov'è Bucky?»
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