Diciassettesimo

Steve era in coma, un coma che i medici chiamavano irreversibile. No, Bucky non poteva accettarlo. Era tutta colpa sua, ancora. Come sarebbe riuscito a sopportare un tale peso sulla coscienza? Di persone innocenti ne aveva uccise tante durante gli anni passati sotto il controllo dell'HYDRA, ma aver quasi ucciso Steve era una cosa che non si sarebbe mai perdonato.
Adesso stava in quella stanza ospedaliera, seduto su una sedia al capezzale di Steve, attaccato a flebo e tubi, quasi fosse pronto a morire, senza che alcuna speranza potesse in qualche modo salvarlo.
Bucky non gli toglieva lo sguardo di dosso, come se aspettasse che i suoi occhi azzurri si aprissero da un momento all'altro. Lo guardava; quell'enorme tubo alla gola che lo aiutava a respirare, i suoi meraviglioso occhi gonfi in maniera disgustosa e i suoi capelli profumati ormai rasati per permettere l'intervento. Era così che tutto sarebbe finito? Era morto così tante volte, ma alla fine Steve riusciva a cavarsela sempre. A lui bastava questo. Ed invece, era accaduto il contrario.
Bucky aveva timore di tenergli persino la mano, ma allo stesso tempo, non voleva altrettanto lasciarlo.
La mano di carne tremava, poggiata delicatamente su quella intrecciata di flebo stesa sul lettino.
«Oggi ti ho incrociato in un ricordo, sai?» annuì James con un sorriso forzato, sussurrando con voce rauca: «Ridevi come se niente fosse mai finito.»
Bucky aveva socchiuso gli occhi, ed in un instante, nella sua mente era sfrecciata l'immagine di un giovane Rogers che si sganasciava dal ridere su una collina di spighe di grano, in estate.
«Scusa se stavo per piangere, non è da bravo soldato lasciarsi andare alle emozioni. Ma eri felice, con me.
O almeno, così sembrava.»
Lo fissò in viso, quell'espressione morta, ed il fastidioso rumore delle macchine che gli ronzava nelle orecchie.
«Cosa ci è successo?»
«Signor Barnes l'orario di visita è terminato, per favore esca dalla stanza.» Una giovane tirocinante lo interruppe, avvicinandosi ai monitor per controllare e le condizioni di Cap.
«Cosa?» Chiese Bucky, confuso e indignato.
«Mi dispiace, ma non ci sono eccezioni, la prego esca.» Ribattè la ragazza.
James strinse la mano di Steve, portandola lungo le sue labbra e baciandola dolcemente, sussurrando in maniera incomprensibile, in maniera che solamente lui e Cap potessero sentire: «Non mi aspettare, svegliati.»
Si alzò, e lentamente, uscì dalla stanza. Perché non poteva stare con Steve? Tutta la notte da solo, e se fosse accaduto qualcosa? Mille incubi salirono alla mente del Soldato D'inverno, che si diresse verso il parcheggio dell'ospedale, dove Natasha aveva portato l'auto di Steve, dato che Bucky le aveva detto che sarebbe rimasto in ospedale fino all'ultimo momento. La Vedova Nera aveva affrontato il processo assieme a Barnes, che era stato scagionato a patto che venisse visitato giornalmente da medici specializzati e controllato da un chip di localizzazione sotto pelle.
Trattano come un animale selvaggio, ma in un certo senso, libero.
Bucky aprì lo sportello dell'auto ancora distrutta dall'ultimo incidente. Si sedette al lato del guidatore e strinse il volante. Cosa diavolo avrebbe potuto fare?
Cercava di trattenere i demoni che iniziarono a inghiottirlo in una voragine buia.
"Hai ucciso Steve Rogers, vero o falso?"
Si premette le mani contro le tempie e strizzò gli occhi, quelle parole gli rimbombarono nel cervello.
"Tu lo amavi, perché lo hai fatto?"
Ormai non ce la faceva più, delle lacrime iniziarono a scendere senza controllo lungo le sue guance, poi i singhiozzi lo inghiottirono, singhiozzi che non lo facevano respirare, lacrime che lo annegavano.
Non aveva mai pianto così in vita sua.
"Hai ucciso il tuo primo amore."
Continuando il pianto straziante, Bucky iniziò a parlare, come per sfogarsi con qualcuno, come per sfogarsi con Steve.
«Steve, ti prego. Ti prego. Non può essere vero. Io non vivo senza di te. Ti prego non mi lasciare. Resta con me. Ho bisogno di te.» Singhiozzò quasi rischiando di soffocare, con le lacrime che scendevano come una cascata.
Si guardò la mano metallica, che si stava bagnando con le sue stesse lacrime, sussurrando:
«Non puoi morire, finché ci sono io, tu non morirai. Ricordi Steve?»
Doveva tornare a casa adesso, con un po' di lucidità avrebbe trovato la strada, anche se in quel momento la lucidità era la cosa che gli mancava totalmente.
Abbottonò la felpa marrone, tirando la zip fino al collo, e coprendo la testa con il cappuccio.
Una passeggiata lo avrebbe distratto, tornare a casa nell'auto che aveva l'odore di Steve non lo avrebbe aiutato.
Camminava guardando in terra, le mani in tasca, continuando a piangere, stavolta silenziosamente.

L'appartamento di Cap, lì dove c'era tutto di lui, i suoi vestiti, i suoi oggetti, la sua presenza. Bucky chiuse la porta dietro di se, abbassando il cappuccio, e con aria sconvolta, si sedette sul divano.
Quel divano dove non molto tempo prima aveva consumato il suo amore con Steve. Il pensiero del calore del suo corpo lo fece star peggio di prima. Bucky, ormai disperato, si sdraiò su di un fianco. Riusciva a sentire il meraviglioso profumo di Steve. Piangendo per ore, mentre fuori la notte si fece sempre più fitta, e il buio aveva inghiottito tutto, pianse fino a che il respiro non venne a mancare, e ormai anche le forze per far uscire le poche lacrime che gli erano rimaste lo abbandonarono. Esausto si addormentò alle prime luci dell'alba.
Fu svegliato poche ore dopo dalla luce che entrava dalle finestre.
Non mangiò, non prese i suoi farmaci, andò solo a sciacquarsi il viso, ormai un misto fra sudore e lacrime.
Non poteva presentarsi in ospedale puzzolente come un procione, Steve non lo avrebbe mai fatto uscire di casa così.
Bucky riempì la vasca, si spogliò e si accovacciò all'interno, in posizione fetale, lasciando che l'acqua calda lo cullasse e lo depurasse. Fissava un punto indistinto della parete difronte a lui. Si lasciò scivolare sott'acqua, trattenendo il respiro.
Non avrebbe voluto trattenerlo ancora per molto.
Poteva raggiungere Steve, poteva rimanere finalmente con lui, per sempre.
Ma poi riemerse boccheggiando. Cap non avrebbe mai accettato una cosa del genere, non avrebbe mai accettato nulla di tutto ciò.
«L-lo faccio per te, ma tu devi farlo per me.» Sussurrò con voce stridula, asciugandosi e dirigendosi in camera da letto.
Gli unici vestiti puliti erano quelli di Steve, come se tutto non fosse già abbastanza straziante.
Bucky mise un paio di vecchi jeans, una t-shirt e una felpa rossa. Quella felpa che aveva l'essenza di Steve nel suo morbido tessuto.
Il soldato si stava dirigendo a piedi in ospedale, continuando a guardare il suolo con sguardo sconvolto, quando un'auto gli si affiancò. Un'auto molto costosa, dalla quale Tony lo chiamò.
«Ehi, immagino tu stia andando in ospedale. Se vuoi posso darti un passaggio.»
Bucky lo guardò freddamente, esitando per un instante, per poi salire sull'auto. Dopo tutto quello che era successo, vedere Stark così disponibile nei suoi confronti non solo lo insospettiva, ma lo metteva in un enorme imbarazzo.
In ospedale Bucky si sedette nuovamente vicino al letto, tenendo stretta la fredda mano di Steve.
«Com'è possibile?» Chiese Tony ad un'infermiera che era venuta a controllare Rogers.
«Insomma, è Captain America, Dio, un proiettile lo manda in coma?!»
«Signor Stark, un proiettile al cervello, di quel calibro poi, ridurrebbe in quelle condizioni chiunque, è fortunato ad essere ancora vivo.» Rispose spavalda l'infermiera.
«Non si permetta.» Disse freddamente e pieno di rabbia Bucky. La donna e Tony si girarono lentamente intimoriti nella sua direzione.
«Lui deve essere vivo.» Concluse continuando a tenere la mano a quello che ormai era un vegetale, fissandolo.
L'infermiera, spaventata, uscì dalla stanza, e Stark ne approfittò per avvicinarsi a Bucky.
«Sono ancora incazzato a morte con te, se solo rifletto meglio a quello che hai fatto sarei capace di spezzarti l'osso del collo.» sospirò scrollando la testa, con gli occhi di James addosso, confuso e rammaricato.
«Ma abbiamo giurato al tuo ragazzo che ci saremo presi cura di te. E gli Avengers mantengono sempre le promesse. Soprattutto, io lo faccio per Steve.»
Il moro aggrottò la fronte: «Mi dispiace, per tutto. Per quello che ho fatto ai tuoi genitori, per quello che ho fatto a Steve, per quello che ho fatto in tutti questi anni... mi dispiace di essere ancora vivo.»
Il miliardario guardò ovunque all'infuori degli occhi di Barnes, troppo carichi di dolore, che solo a guardarli si sentiva morie.
«Forse hai bisogno di riposo. Vuoi per caso qualcosa da mangiare?» Chiese Tony imbarazzato, sentendo il bisogno di dover andare oltre. Cap avrebbe voluto quello.
«No.» rispose freddamente Bucky.
«Hai messo qualcosa sotto i denti stamattina?»
«No.»
Tony sospirò seccato;
«Devi prendere delle pillole, o sbaglio?» Continuò.
«Si.»
«Le hai prese?»
«No.»
«Ti si è per caso inceppato il disco? Ti porto qualcosa da mangiare, se non sbaglio quelle pasticche devi prenderle a stomaco pieno.» Concluse Tony, uscendo dalla camera, ritornando poco dopo assieme a Wanda con una scatola di ciambelle.
«Su, mangia.» Disse mettendogli in mano una ciambella al cioccolato.
«Devo imboccarti o cosa?!» Continuò spazientito Tony. Bucky non aveva fame, era come se il suo stomaco e la sua gola fossero chiusi, il dolore li aveva sigillati.
Ma pensò a Steve.
Ricordò delle parole sgrammaticate scritte di fretta su un foglio per il biondo da parte sua:
"Penso al tuo sorriso ed ho speranza."
Diede un timido morso alla ciambella, mangiandola con gusto, in fin dei conti era a digiuno da alte o un giorno, dolore o meno, i morsi della fame si fecero spazio tra l'angoscia.
«Adesso prendi le pillole.» Disse nuovamente Tony, passandogli il barattolo arancione con le pasticche, lo stesso che Steve aveva gettato dopo il suo problema di dipendenza.
Bucky le mandò giù, il dosaggio esatto per evitare ricadute, senza sgarrare, e tornò a fissare Steve, sperando che si svegliasse.

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