24. Cose da gemelle
Quando avevo esposto la mia teoria agli agenti c'era mancato poco che mi ridessero in faccia.
Non ce n'era stato bisogno. Mi era bastato leggergli sul viso quelle espressioni di commiserazione mista a stupore per capire che mi stavano prendendo per pazza. Non che mi importasse, io ero convinta di ciò che avevo riferito e mi bastava il sostegno della mia famiglia.
«E avresti capito tutto questo da un rossetto?» domandò il capo alla fine, le sopracciglia che quasi gli arrivavano all'attaccatura dei capelli e il tono sorpreso di chi si chiede perché stia dando corda a una scellerata.
Annuii, consapevole che nessuno di loro mi stava prendendo sul serio. I miei genitori, tuttavia, sembravano aver riacquistato un barlume seppur minimo di speranza. Loro conoscevano il rapporto tra me e Amelia ed erano stati più volte testimoni del nostro legame indissolubile, quello che spesso ci portava a pensare come un'unica mente.
Io sapevo che quel rossetto non poteva trovarsi lì per caso, lo sapevo perché conoscevo la mania dell'ordine della mia gemella e perché conoscevo lei, soprattutto perché conoscevo lei.
«Come faceva la ragazza a conoscere il movente dei rapitori?» domandò una collega, scettica.
Ingoiai un insulto tra i denti, ma non riuscii a trattenere la rispostaccia. «Beh questo non è il mio lavoro, è il vostro.»
«Può fare qualche controllo? Da qualche parte dovrete partire» li spronò papà, il più ferrato in materia, prima che potessi continuare e non rispondere più di me stessa.
Gli agenti non sembravano del tutto convinti, ma poiché brancolavano nel buio il capo ordinò loro di indagare sui collaboratori di Kolman, il quale si trovava in carcere in attesa di processo proprio per merito di mio padre e del padre di Austin.
Non appena si furono allontanati, Lucas si avvicinò per darmi un bacio sulla testa. «Siano benedette le vostre cose da gemelle» disse prima di circondarmi in un abbraccio. Continuavo ad avere il respiro spezzato e il cuore che pulsava a ritmi disumani, ma perlomeno tra le sue braccia mi sembrò di trovare quel po' di quiete di cui necessitavo per non collassare.
Avevo davvero capito tutta da un rossetto, ma non ci sarei mai arrivata se non avessi saputo della misteriosa sparizione di Austin; solo in quel momento, infatti, avevo avuto l'illuminazione.
Amelia non avrebbe mai lasciato il rossetto sulla scrivania, in primis perché era una maniaca dell'ordine e in secundis perché non avrebbe avuto senso dato che si truccava in bagno. Tuttavia aveva immaginato, a ragione, che entrando e non trovandola in camera io avrei notato immediatamente quell'oggetto fuori posto.
Solo a una seconda occhiata avevo ricordato che quel rossetto era un regalo di papà, il primo in assoluto che avessimo ricevuto, per cui nonostante fosse terminato ormai da tempo lo conservavamo per ricordo. Dunque, Amelia, in qualche modo non del tutto chiaro, doveva aver capito che i suoi rapitori volevano farla pagare a papà.
La sparizione di Austin mi aveva convinto fosse coinvolto l'ex capo di papà e di Klaus perché, mentre gli agenti dell'FBI lo portavano via in manette, aveva lanciato una lunga occhiata a me e Austin, abbracciati vicino alla porta. Evidentemente i rapitori dovevano aver preso Amelia scambiandola per me.
Il timore di essere responsabile di qualsiasi cosa stesse accadendo a mia sorella mi investì come un treno in corsa. Le ginocchia cedettero ancora e caddi a terra. L'ultimo ricordo lucido che ho di quel momento è l'impatto con il pavimento freddo, poi solo urla confuse e visi sfocati.
Ripresi conoscenza dopo pochi istanti e i paramedici ordinarono a mio fratello di farmi stendere sul letto e portarmi un bicchiere d'acqua e zucchero. Sapevo che era un palliativo - era stata proprio Amelia a spiegarmi che in realtà lo zucchero è inutile in queste situazioni, servirebbe del sale per rialzare la pressione - ma bevvi senza lamentarmi perché la sensazione di stordimento era tornata a investirmi non appena avevo pensato a lei.
Mi sentivo in colpa, tremendamente in colpa. Se non avessimo litigato, Austin mi avrebbe riaccompagnata a casa e avrebbero preso me, anziché lei. Oppure saremmo tornate entrambe insieme a Lucas e i rapitori non sarebbero riusciti ad avere la meglio.
Il terrore folle che mi sfrigolava sottopelle non riguardava solo Amy - e in quel caso scorreva insieme al senso di colpa - ma anche il ragazzo di cui ero cotta. Il pensiero che potessero fare del male a entrambi, che potessi perderli entrambi, si annidava nei meandri del mio cervello e si ripeteva come una nenia tormentata.
È tutta colpa tua. È tutta colpa tua. È tutta colpa tua.
Se non avessi stretto amicizia con Austin, non ci avrebbero mai visti insieme a quella festa e non avrebbero potuto usarci come capro espiatorio per vendicarsi dei nostri padri.
Se non avessi litigato con Amelia, non sarebbe rincasata presto dalla festa e non avrebbero preso lei scambiandola per me.
Era tutta colpa mia.
Un brusio concitato mi distrasse dall'autoflagellazione che avevo intenzione di infliggermi di lì a poco - avrei solo dovuto decidere se colpirmi con la lampada o tentare di soffocarmi con il cuscino. I miei genitori scattarono in piedi e drizzarono le orecchie per captare la voce metallica che si irradiava dalla radiolina di un agente.
Avevano una pista.
Durante le indagini era venuto fuori che Kolman avesse una società insieme a un tale, il quale risultava proprietario di un appartamento sfitto da anni. Quale luogo migliore per portare due ragazzini rapiti?
«Siamo all'indirizzo, entriamo a fare un rilievo e vi aggiorniamo» disse una voce femminile prima di restituire il silenzio radio.
Ogni suono in quel momento svanì. Non si sentivano più le chiacchiere degli agenti, i sospiri pesanti dei miei genitori, il calpestio delle scarpe sui pavimenti. Nemmeno una folata di vento arrivava dall'esterno per scuoterci.
Tutti eravamo immobili, tramutati in statuine in attesa di sapere cosa stesse succedendo dall'altra parte della città. Avevo l'impressione che persino i cuori dei miei genitori si fossero fermati, intrappolando i battiti al centro del petto.
I miei, di battiti, sembravano completamente impazziti. Non c'era più ritmo nel pulsare del mio cuore, erano solo contrazioni che si susseguivano scomposte e indefinite. Lo sentivo rombare direttamente nel cervello, tra le tempie, in gola, un suono opprimente che mi precludeva la capacità di distinguere cosa stesse accadendo intorno a me.
Internamente urlavo, sbraitavo, agitavo le braccia e scuotevo la testa, scalciavo. Ma all'esterno... all'esterno sembravo un cadavere con un rigor mortis piuttosto avanzato: bianca come uno straccio, immobile e rigida, le pupille abbassate e il respiro mozzato.
Lo scatto della radiolina dell'agente che tornava ad accendersi fu il defibrillatore che diede una scossa al mio cuore. I battiti ripresero accelerati e cadenzati e in un lampo fui giù dal letto, in piedi sulle mie gambe deboli e con gli occhi sgranati per non perdere nemmeno un dettaglio dei loro movimenti.
Quando l'agente in casa prese l'apparecchio per rispondere potei avvertire i respiri di tutti venire strappati via, come risucchiati dal movimento del braccio che avvicinò la radio alla sua bocca.
«Agente Moore, ti ricevo, attendo aggiornamenti.»
«Negativo, i ragazzi non sono lì.»
Il fragore esplose in un lampo. Tutti i rumori ci piombarono addosso come cocci rotti di porcellana che continua a spezzarsi in infiniti pezzi. C'erano urla strozzate, singhiozzi conditi di lacrime, ordini perentori, scarpe che calpestavano il pavimento come macigni.
Ma io non ero in grado di distinguere alcun suono. Mi sentivo all'interno di una bolla, una custodia protettiva che in realtà non proteggeva me, bensì gli altri. Perché all'interno di quella bolla stava per consumarsi una tragedia di proporzioni epiche.
La battaglia di Maratona, a confronto, sarebbe apparsa come lo scontro tra qualche soldatino.
Sentivo il mio corpo contorcersi, le ossa spezzarsi e lacerare i muscoli, gli organi scoppiare fino a squarciare le membrane. Urlavo con tuto il fiato che avevo in gola ma non producevo suoni, piangevo ma avevo terminato le lacrime, strappavo ciocche di capelli e non le ritrovavo tra le dita.
Mi sentivo irrequieta e immobile, assordante e silenziosa, in pace e in agonia.
Ero instabile, completamente.
Sospesa su un burrone senza protezione alcuna, correvo sul filo del rasoio e arrancavo per raggiungere l'altra cima, che si allontanava a ogni passo macinato, a ogni respiro spezzato, a ogni urlo squarciato.
E io scalpitavo, gridavo, combattevo.
Ma ero immobile, muta, indifesa.
Non avevo idea di cosa stesse succedendo al di fuori della mia bolla. Non riuscivo a capire gli sguardi illuminati delle persone che mi circondavano, il piede di Lucas che batteva cadenzato a terra, gli strepitii eccitati dei miei genitori, i loro occhi lucidi.
Nessuno si accorgeva di me, del mio sguardo vacuo, del viso spento, delle braccia molli lungo il corpo, delle gambe tremolanti che mi reggevano per miracolo. Avevo un vortice nella pancia che bilanciava il mio equilibrio e mi teneva in piedi, risucchiandomi dall'interno.
Ero al limite delle mie possibilità, sentivo ogni parte del mio corpo scricchiolare in modo sinistro, sul punto di rompersi in mille pezzi e scagliarsi contro ogni parete, su ogni persona presente in quella stanza, a intossicare ogni agente che si avvicinava con sorrisi di circostanza rifilandoci frasi fatte da filosofi zen.
In quel momento, più che una filosa zen, mi sentivo una bombarola in procinto di far brillare l'ordigno, devastando tutto ciò che c'era intorno a me per inglobarlo nella mia bolla, dove il dolore mi annientava e la disperazione mi consumava, ma riuscivo ancora ad aggrapparmi a piccoli brandelli di speranza per non perdere gli ultimi pezzi di me.
E infine la bolla si ruppe.
«Li abbiamo trovati, stanno bene.»
Con un giorno di ritardo ma mi perdonerete per questo finale... Lo so, sono stata brava 😇
Allora, come avrà fatto? Ipotesi? Idee?
Lo scoprirete martedì ⚽
Luna Freya Nives
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