Prova Finale (parte 2)~Occhi di bambola

Tutti hanno un ricordo che li tiene uniti, che ritorna alla mente quando meno ce lo aspettiamo. Quando siamo nelle nostre automobili borghesi, nei nostri piccoli uffici borghesi, nelle nostre patetiche vite borghesi, non ce ne rendiamo conto. Ma capita a tutti, una sera in cui si è soli, in cui il nostro coniuge dorme o è uscito, in cui i nostri figli sognano nelle loro coperte con i disegnini di razzi e principesse, che alcuni ricordi tornino a farsi spazio fra la spesa del giorno dopo e la litigata furiosa con la vicina di casa troppo rumorosa. E allora non puoi fare niente. Puoi solo immergerti nel silenzio e ricordare.
E io ho un'immensa paura dei ricordi. Quasi quanto il terrore che mia figlia Lara cada dal dondolo al parco giochi e che si rompa un braccio, le rare volte in cui la porto fuori.
Sono strana, lo dicono tutti. Ansiosa, piena di timori, quella che evita di uscire di casa il più possibile.
Mia figlia non possiede bambole.
Ma io ho i miei motivi. E ben fondati anche.
Ho trentacinque anni, e ho paura dei ricordi e di ciò che evocano. Di un ricordo in particolare.
Di una bambina.
Emily

-Buongiorno bambini!-
-Buongiorno, Mrs Johnston!-
-Bene...è una calda giornata oggi, non credete? Su, tirate fuori il libro di matematica a pagina 108!-
Aprii il libro, felice che l'intervallo fosse ancora ben lontano.
Ero una bambina silenziosa, solitaria. Durante gli intervalli, mentre gli altri bambini giocavano in gruppi, io restavo sola in un angolo del cortile, sedendomi contro il muro della scuola.
Da quando ci eravamo trasferiti nella nuova città, non ero riuscita a legare con nessuno, rimanendo sola durante quasi tutti gli intervalli. Era l'inizio di ottobre, le foglie secche scendevano pigramente dai rami, formando tappeti scricchiolanti per terra.
E quel giorno iniziò come molti altri, con le lezioni del mattino, il freddo fuori dalle finestre della scuola, l'alfabeto ripetuto come una litania sacra. Le ore passarono velocemente e, quando la campanella suonò, i miei compagni di classe si riversarono fuori in cortile, felici della pausa.
Anche io uscii, trascinando i piedi sul cemento del cortile. Per me era poco meno di una tortura; amavo studiare, e preferivo evitare la solitudine del cortile. In campagna avevo moltissimi amici, con cui amavo correre nei prati e nuotare nel fiume. Giocavamo a nascondino e a prenderci; qui in città, invece, giocavano ad altri giochi. Alle biglie, o a guardia e ladri. Giochi che non amavo o che non capivo. E nessuno si sforzava di inserirmi.
Quel giorno di ottobre mi sistemai contro il mio amato pezzo di muro, dove qualche pallido raggio di sole raggiungeva la mia pelle candida e lentigginosa. Avevo portato uno dei miei libri preferiti, L'isola del tesoro.
Lo avevo appena aperto, quando da lontano notai qualcosa, che mi fece richiudere immediatamente il libro. In lontananza, ad un angolo leggermente in ombra del cortile, stava una bambina.
Era in piedi, lontano dai gruppetti che correvano e urlavano per il cortile, e nessuno la guardava. Teneva le mani sprofondate nelle tasche di una giacca elegante, la gonna a scacchi che le sventolava sulle ginocchia bianche.
Non ricordo esattamente cosa pensai.
Probabilmente, sentivo una sorta di familiarità, perché anche lei non partecipava ai giochi degli altri. E poi era nuova a scuola, non l'avevo ancora vista.
Credo sia stato questo a farmi decidere di avvicinarla, nonostante la mia incommensurabile timidezza.
Mi staccai dal muro e, con il libro sottobraccio, attraversai il cortile per raggiungerla. La bambina mi guardava, mi fissava con i suoi strani occhi azzurri.
Avvicinandomi, la vidi con più chiarezza; aveva lunghi capelli biondi, tenuti al lato della fronte da un fermaglio nero. Gli occhi parevano vetro azzurro, sembrava che non assorbissero la luce come occhi normali, ma che la riflettessero, come un fondo di bottiglia portato dal mare. La sua pelle era straordinariamente bianca, le si vedevano i fili lividi di sangue all'interno delle vene.
Sembrava...malata.
Per un attimo, un solo attimo, mi pentii di essere arrivata fin lì.
-Io...ti ho vista qui da sola, e sono venuta a salutarti. E...ecco, sei nuova?- chiesi, tutto d'un fiato.
La bambina pareva non sentirmi; mi fissava imperterrita, continuando a muovere le dita dentro la tasca. Udivo distintamente un tintinnio attraversare la stoffa.
Stavo per voltarmi ed andarmene, quando la sentì rispondere.
-No, non sono nuova. Sono qui da molti anni.-
Mi voltai a guardarla e i nostri sguardi si incrociarono. Lei non smise di giocherellare con ciò che portava in tasca.
-Io invece sono nuova. Sono qui solo da tre mesi, ma non ti ho mai vista.- dissi, continuando a guardarla. Lei pareva trasognata, lo sguardo perso.
-Sono...sono stata malata per qualche tempo.- rispose, con la sua voce tenue.
-Capisco...ti piace leggere?- dissi io, cercando disperatamente qualche argomento di conversazione. Le porsi il mio libro; il titolo, a lettere dorate, brillava al sole. Lei lo guardò, e i suoi occhi si illuminarono.
-Mi piace molto questo libro.- disse, senza staccare gli occhi dalla copertina.
Io sorrisi, felice, ma la bambina non lo prese, come avevo immaginato. Invece continuò ad armeggiare con ciò che teneva in tasca.
-Io...ecco... mi chiamo Emma, e tu?-dissi, senza sapere più cos'altro fare. Lei alzò lo sguardo e mi fissò; quei suoi occhi erano davvero inquietanti. Su di loro la luce scorreva come su una superficie di vetro, liscia e scintillante.
-Io sono Emily. Emily Worthington. -rispose, con un delicato sorriso.
Poi, finalmente, Emily tirò fuori la mano dalla tasca e aprì il palmo verso di me. Era piena di piccole sfere di metallo, sembravano biglie. Ma poi, guardai meglio.
Non erano biglie, ma bulbi oculari.
Iridi dipinte di azzurro, marrone, verde.
Occhi.
Occhi di vetro.
Occhi di bambola.

Passarono i giorni, le settimane, i mesi. Finalmente a scuola non ero affatto sola. Incontravo Emily durante tutti gli intervalli e, se prima contavo i minuti che mancavano alla fine della ricreazione, ora invece contavo le ore che mi separavano dalla mia amica.
Emily era fantastica.
Con lei giocavo a tutti i giochi, leggevo qualche pagina del mio libro, chiacchieravamo.
Io non vedevo l'ora di poter invitare Emily a casa mia, e l'occasione che aspettavo da mesi era il giorno del mio compleanno.
Ero molto timida, e per via delle lentiggini e degli occhiali spessi che portavo a causa della miopia, spesso venivo presa in giro. Nella mia scuola elementare, le maestre preferivano credere ad una mia grande timidezza, e non indagarono mai oltre. Mia madre non sapeva nulla, credo. Immaginava la mia infanzia allegra e spensierata, nonostante alle mie feste di compleanno venissero unicamente le figlie della vicina e le mie cugine, sempre troppo occupate a giocare tra loro invece di farmi gli auguri o consegnarmi i loro regali. Per cui, quando le parlai di Emily, mia madre fu raggiante di gioia.
-Si chiama Emily Worthington e ha otto anni, proprio come me!- esclamavo, felice.
-E così, diciamo, questa Emily è molto brava a giocare a nascondino.-
-Oh si! E a correre, a disegnare, a fare i conti. Emily sa fare tutto, è la migliore amica migliore del mondo!- esclamavo io, con la mia innocenza di bimba, parlando di lei. Mia madre rise, e mi abbracciò stretta.
-Allora Emily sarà felice di venire alla tua festa, no?-
Spalancai gli occhi, entusiasta
-Posso invitarla al mio compleanno mamma? Sul serio, posso?-
-Ma certo tesoro. Sarò felice di conoscere questa tua amica così speciale.- rispose, dandomi un bacio sulla fronte e lisciandomi i capelli.
Ero così felice che mia madre avesse acconsentito ad invitare Emily, e non vedevo l'ora di dirglielo.
La data del mio compleanno si avvicinava spaventosamente, ed io ero sempre più felice. Ogni intervallo giocavo con Emily, ma ogni volta che pensavo di dirle della festa, lei iniziava un nuovo gioco, oppure cominciava un discorso.
E io non potevo interromperla o contraddirla. Emily era tutto ciò che avevo a scuola, nessuno era come lei.
La adoravo.
Letteralmente.
Due settimane prima del mio compleanno, mia madre ricevette una telefonata. Eravamo a casa e mia madre stirava guardando la televisione. Mio padre era ancora fuori, e io ero intenta a fare i miei compiti, incasellando numeri e sillabando parole. Mia madre corse a rispondere e appresi con chi parlasse.
-Ah è lei! Buonasera, Mrs Johnston! Sì...si, Emma sta bene. Sa, sta facendo i compiti.
Cosa? Va bene, d'accordo. Allora a domani.-
Mia madre lasciò cadere la cornetta del telefono e tornò in cucina, pensierosa.
-Chi era mamma?- chiesi. Lei, con le sopracciglia aggrottate, non rispose subito.
-Era la tua maestra. Vuole che vada a parlare dopo la scuola. Ma tu non preoccuparti, tesoro. Ha detto che sei molto brava, ma che ha una questione di cui mettermi al corrente.-
Non diedi ulteriore peso alla cosa, e tornai a studiare.
L'indomani, al suono dell'ultima campanella, i bambini si riversarono fuori dalle classi, felici per la fine delle lezioni. Io attesi con Mrs Johnston che arrivasse mia madre. La mia maestra rimase in silenzio, gli occhi fissi alla porta, impaziente. Aveva gli occhi verdi cerchiati di scuro, come se non dormisse da diverse notti e i capelli, sempre accuratamente acconciati in un elegante crocchia in cima alla testa, ora erano disordinati e striati di grigio. Le rughe accanto agli angoli della bocca erano terribilmente accentuate.
Mia madre, uscita direttamente dalla fabbrica, arrivò circa mezz'ora dopo. La gonna marrone stinta e le gambe fasciate dai collant neri. Le scarpe col tacco che spesso mi ero divertita ad indossare.
I lisci capelli castani trattenuti dal cerchietto e il sorriso aperto, libero. Il viso giovane e disteso. Il ricordo che più amo di mia madre.

-Mrs Johnston, perdoni il ritardo. Il tram non è passato, purtroppo, e sono dovuta venire a piedi.- disse, con aria trafelata.
-Oh, non si preoccupi signora. L'importante è che sia venuta. La prego, ora potrebbe seguirmi nel mio ufficio?- rispose la maestra, con aria urgente. Mia madre non ci badó e si inginocchió davanti a me, sistemandomi i capelli nelle forcine e aggiustandomi il colletto. Il suo profumo di acqua di rose, dolce e delicato, aleggiava nell'aria.
-Come è andata a scuola oggi?- mi chiese.
-Bene, mamma.-
-Hai fame?-
-Signora, mi perdoni, ma la questione è di massima urgenza- si intromise Mrs Johnston, con l'aria di chi vivesse un vero incubo. Guardava mia madre con occhi letteralmente imploranti, talmente tanto che lei non poté non accorgersene.
Mi diede un bacio sulla fronte.
-Adesso io e la maestra dobbiamo parlare. Puoi andare un attimo fuori, Emma? Farò in un attimo, promesso.- disse. Io annuì e mi allontanai, aprendo la porta. Lo sguardo tagliente di Mrs Johnston fu abbastanza per convincermi ad uscire.
Nel corridoio, mi sedetti su una panca, facendo pendolare i piedi sopra il pavimento. La donna delle pulizie, fischiettando una vecchia canzone, riordinava le classi vuote e rimetteva in fila i banchi di legno. Io rimasi ferma per un pó, osservando i disegni che avevamo fatto appesi al muro. Spesso, vagando per la scuola durante le pause, mi ero chiesta quale fosse la classe di Emily, ma non avevo mai trovato una risposta. Sulla porta di ogni sezione, era appeso l'elenco degli alunni. Mi alzai dalla panca e iniziai a leggere ogni nome scritto sugli elenchi, di ogni classe. Erano dodici classi. Dodici elenchi.
Ma in nessuno, in nessuno, c'era scritto Worthington Emily.
Nel momento in cui stavo leggendo l'ultimo elenco, un grido mi fece voltare; mia madre aveva spalancato di colpo la porta della classe, irrompendo in corridoio. Voltò convulsamente la testa a destra e a sinistra, finché non mi vide.
-Emma! Emma!- gridò, correndo verso di me. Mi strinse forte fra la braccia, ma non potei non accorgermi delle lacrime che le rigavano le guance.
-Mamma, cosa succede?- chiesi, preoccupata. Lei non mi rispose, si rialzó e mi prese per un braccio. Uscimmo dalla scuola, mia madre a passi decisi, io trascinata dalla sua forza.
Non potei dire nulla finché non entrammo in un tram, poco affollato per via dell'orario. Mia madre non mi guardava affatto. Aveva gli occhi persi nel vuoto, pieni di lacrime, e capelli in disordine. Solo la sua mano stringeva forte il mio polso, e credetti di sentire le ossa fragili scricchiolare sotto la sua presa.
-Mamma che succede? Dove stiamo andando?- chiesi, spaventata. Non l'avevo mai vista così. Lei non rispose, non disse assolutamente nulla.
Quando il tram si fermò, mia madre si alzò dal sedile di ferro, trascinandomi con sé. Scendemmo e ci ritrovammo in un altro quartiere della città, dove non ero mai stata.
Ville imponenti e solitarie, poche auto e assolutamente nessun passante. Era ormai pomeriggio, e cominciavo ad avere fame, ma mia madre sembrava non accorgersi della mia presenza.
Iniziò a camminare sul marciapiede, tirandomi dietro di sé come un cagnolino. Con la mano libera estrasse un foglietto ripiegato, scritto con una calligrafia elegante e semplice. La stessa delle correzioni sui miei compiti.
Mia madre continuava a guardare i numeri civici delle varie villette, quasi tutte chiuse e con le tapparelle abbassate, e guardando il suo foglio.
-Mamma, ho fame.- piagnucolai, sperando che almeno questo potesse far breccia nel suo cuore, troppo occupato in cose che non capivo. Fu inutile; lei si fermò solamente di fronte ad una grande, imponente casa.
Quattro piani, con una facciata in marmo elegantemente decorata, due colonne a incorniciare l'entrata.
Il cancello che la separava dalla strada era in ferro battuto nero, con il numero civico scritto in un cartello. Al di sotto, un'altro cartello con il nome della famiglia che vi abitava.
Worthington.
Era la casa di Emily.

Mia madre premette il pulsante del citofono, lo sguardo infiammato e il corpo tremante. Aveva lasciato la presa sul mio polso, lasciando strisce rosse sulla pelle.
Dal citofono non rispose nessuno.
La villa pareva disabitata. I vetri erano oscurati da tendaggi neri, i gradini dell'ingresso polverosi e pieni di foglie secche. Le erbacce infestavano il giardino, il bellissimo giardino in fiore che mi aveva descritto Emily era un ammasso di artemisie, rovi e cardi.
Lei non poteva abitare in un posto così triste.
Mia madre aveva lo sguardo spento, evidentemente deluso. Non si aspettava quella vista. Io non sapevo cosa dirle.
Rimanemmo davanti a quel relitto di casa per molto tempo, sedute sul marciapiede. Io avevo sempre più fame, ero stanca e volevo andare a casa. Mia madre era assolutamente disorientata, e si teneva il volto fra le mani. Notai che la calza destra si era bucata, lasciando uno strappo fino al ginocchio.
-Avete bisogno di aiuto?-
Una donna, con le chiavi di casa e la busta della spesa in mano, ci guardava sorpresa. Evidentemente abitava in una delle case accanto, una di quelle pulite e ordinate. Mia madre alzò lo sguardo.
-Cercavo...cercavo i Worthington.- disse, con un filo di voce. La donna sembrò ancora più sorpresa.
-I Worthington? Ma signora, i Worthington se ne sono andati da anni!- rispose. Mia madre si limitò a guardarla, senza sapere cosa dire.
La donna si avvicinò e le sfiorò un braccio.
-Signora, si sente bene?-
Lei scoppiò in lacrime.
La donna la fece alzare e la sorrresse, aiutandola a camminare.
-Andiamo a casa mia, piccola. Proverò ad aiutare tua madre.-
La donna ci condusse tre case più in là, in una deliziosa villetta di due piani color crema. Aprì il cancello e fece passare mia madre, facendo poi segno a me di entrare.
Ci condusse in un piccolo soggiorno pieno di luce, facendo stendere mia madre su un divano a fiori. Le porse un bicchiere d'acqua e lei lo bevve avidamente, riprendendo un pó di colore. A me la donna versò del succo di pesca in un'altro bicchiere.
-Si sente meglio signora?- chiese la donna. Aveva un caschetto di capelli biondi e gli occhi azzurri. Sembrava giovane e simpatica, con le fossette sulle guance e le sopracciglia sottili. Mia madre annuì con un sorriso riconoscente; sembrava di nuovo lei, senza l'angoscia frenetica che l'aveva posseduta fino a poco tempo prima.
-La ringrazio infinitamente.-
-Mi chiami pure Janie.- rispose, sorridendo.
-Io sono Christina, e lei è mia figlia Emma.-
Janie mi guardò e mi diede un buffetto delicato su una guancia, strizzandomi un'occhio.
-Hai fame Emma? Tieni, stamattina ho preparato dei biscotti.- disse, porgendomi un piatto di porcellana decorato, pieno di biscotti al cioccolato.
Avevo molta fame, cosí mi riempí la bocca, masticando rumorosamente.
-Perdoni l'indiscrezione, ma per quale motivo cercavate i Worthington?- chiese, rivolgendosi a mia madre. Lei abbassò lo sguardo per un attimo.
-In realtà cercavamo una bambina. Emily.-
Janie spalancò la bocca, sorpresa. Impallidí terribilmente, e per un attimo temetti che anche lei potesse svenire.
-È...è una storia molto vecchia. Mi fu raccontata molto tempo fa, ed era appena successo quando mi trasferii in questa via con i miei genitori.- rispose Janie, guardando mia madre.
Lei intuì al volo, e annuì quasi impercettibilmente.
-Emma, ti va di giocare con i peluche di mio figlio Thomas? Guarda, sono tutti laggiù, nel cesto dell'angolo.- disse Janie, sorridendo di nuovo. Mia madre annuì, cercando di sembrare tranquilla.
-Vai pure, tesoro. La mamma e la signora Janie devono parlare.-
Io mi alzai dalla sedia e mi sedetti sul tappeto, dall'altro lato della stanza.
Nonostante tutto, ero pur sempre una bambina. E le bambine non si occupano di fantasmi.

Mia madre e la signora Janie parlarono a lungo, ed erano quasi le cinque quando ebbero finito. Io avevo giocato tutto il tempo, e non avevo udito assolutamente niente dei loro discorsi. Perfino Emily era scomparsa dalla mia mente, e l'infruttuosa ricerca che avevamo condotto era meno di un un lontano ricordo.
Finalmente, mia madre si alzò dalla sedia. I suoi occhi erano molto più decisi.
-Emma è ora di andare. Vieni qui, e ringrazia la signora Janie per la sua gentilezza.- disse. Mi alzai dal tappeto e corsi da loro.
-La ringrazio molto, signora Janie. È stata davvero gentile.- dissi, abbassando lo sguardo. La donna mi abbracciò stretta, come se mi conoscesse da una vita.
-Buona fortuna, piccola Emma.- mi sussurrò, scompigliandomi leggermente i capelli.
Io feci un piccolo sorriso, e mia madre strinse la mano alla signora Janie. La donna, con un sorriso, ci accompagnò alla porta, osservandoci andare via.
Prendemmo il tram dal lato opposto a quello in cui eravamo arrivate e, quando ripercorremmo a bordo del veicolo la strada a ritroso, mia madre mi tenne il viso sul suo grembo. Non guardai mai più la casa dei Worthington.
Quando arrivammo a casa, mio padre era appena arrivato.
Mi prese in braccio come al solito, baciandomi le guance.
-Come è andata la giornata, principessa?- chiese, pizzicandomi una guancia. Io scoppiai a ridere, dandogli una piccola gomitata sul fianco. Lui fece finta di morire dal dolore, come facevamo sempre. Ridemmo insieme, e mia madre sorrise guardandoci.
-Tesoro, che ne dici di salire in camera per un pó? Prepara il tuo pigiama, che tra poco salgo e ti aiuto a fare il bagno...- disse la mamma, mettendo una mano sulla spalla del papà.
-E poi leggeremo la nostra favola!- aggiunse mio padre, con un sorriso di intesa.
-Cenerentola, Cenerentola!- esclamai, con un salto.
-Tutto quello che vorrai, tesoro. Ora vai.-
Salii in camera e aprii l'armadio, cercando il mio pigiama preferito, quello con le stelline disegnate e le lune.
Poi, mi sedetti sul letto, aspettando la mamma.
Qualche minuto dopo, udii i passi dei miei genitori salire le scale, e li vidi entrare. Mio padre aveva gli occhi stravolti, e si era tolto gli occhiali. La cravatta allentata e le maniche della camicia rigirate, proprio come prima di giocare. Ma il suo volto era bianco, stanco. Mia madre aveva le mani tremanti, ma gli occhi freddi e decisi. Si sedettero sul letto accanto a me, e mi presero le mani.
-Emma, dobbiamo parlarti di una cosa.- esordì mio padre, guardandomi negli occhi.
-Ecco...riguarda la tua amichetta Emily.- proseguì, stringendo più forte le mie dita. Io sentivo già una rabbia sconsiderata occuparmi il cuore e, istintivamente, mi ritrassi
-Non voglio saperne niente.- risposi, stringendo le sopracciglia.
-Tesoro, tesoro ascoltami.- disse mia madre, prendendomi il viso fra le mani.
-Questa tua amica non esiste, e non puoi giocarci.- disse semplicemente, il respiro affannato e gli occhi spalancati. Io feci l'offesa.
-Emily esiste. Esiste ed è mia amica. Perché non posso giocare con lei?-
Mia madre chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprí erano pieni di lacrime.
-Io...amore, io ti voglio tanto bene. Tuo padre ti vuole tanto bene. Ti adoriamo, e vogliamo solo il meglio per te. Puoi...ecco, puoi prometterci che non parlerai più con Emily?-
Quando vidi le lacrime scendere dagli occhi di mia madre, capii quanto fossi stata ingiusta. Io le volevo bene, e odiavo vederla piangere per causa mia.
Forse...forse avrei potuto rinunciare a parlarle. Ingoiai qualche lacrima e annuii quasi impercettibilmente. In un secondo, i miei genitori mi abbracciarono stretti, come se avessero temuto di avermi persa. E io li ricambiai, felice nonostante tutto.

L'indomani mattina, mia madre mi portò a scuola. Non prendemmo il tram, come al solito, ma ci accompagnò mio padre in auto. Disse che aveva preso un giorno di ferie, e voleva assicurarsi che io arrivassi per tempo alle lezioni. I miei genitori mi accompagnarono insieme in classe, mentre i bambini facevano loro spazio, timorosi. La maestra, in piedi davanti alla porta della classe, mi aspettava. Mia madre lasciò la mia mano e mi sorrise, cercando di mostrarsi allegra.
-Buona scuola, tesoro. Io e papà torneremo a prenderti alla fine delle lezioni.- disse, chinandosi per darmi un bacio. Mio padre mi abbracciò stretta, scompigliandomi le trecce.
-Ci vediamo dopo. Ti voglio bene principessa.-
-Anche io papà.- risposi, stringendolo a mia volta.
I miei scambiarono una serie di sguardi ansiosi con Mrs Johnston prima di uscire, agitando la mano in segno di saluto.
La maestra mi condusse in classe, la mano sulla mia spalla, e chiuse la porta alle sue spalle.
Mentre mi sedevo al banco, un lampo dorato attirò la mia attenzione. Fuori dalla finestra, in piedi accanto ad un albero, una bambina bionda con un vestito nero. Le mani in tasca, gli occhi vitrei.
Distolsi immediatamente lo sguardo e mi concentrai sulla lezione.

La campanella dell'intervallo suonò, e il rumore rimbombó nella stanza. Mrs Johnston, il libro nella mano sinistra e il pezzo di gesso nella destra, guardò i miei compagni con occhi rassegnati.
-Su, andate pure. E state attenti a non farvi male, arrivo subito.-
I bambini scattarono in piedi, ridacchiando e lanciando gridolini di gioia.
Anche io li seguii e, con il mio libro sottobraccio, uscii in cortile.
Mi appoggiai al vecchio angolo di muro, ben decisa a non guardare i due alberi, sotto i quali chiacchieravo con Emily.
Ma poi, la curiosità ebbe la meglio, e sbirciai da sotto il libro. Emily era lì, in piedi sotto le fronde degli alberi, le mani in tasca e gli occhi fissi su di me.
Mi aspettava.
Mia madre non si sarebbe arrabbiata se fossi andata a salutarla un'ultima volta, no?
Osservai Mrs Johnston, seduta in una panchina e intenta a gridare ai miei compagni di calciare con meno vigore il pallone. Non badava a me.
Richiusi il mio libro, mi alzai e mi diressi verso gli alberi.
Gli occhi vetrosi di Emily si illuminarono quando mi vide arrivare; mi attese ferma, immobile appoggiata alla corteccia dell'albero.
-Emma! Aspettavo che tu venissi, ho così tante cose da raccontarti!- esclamò, con un grande sorriso.
-Tu non esisti.- dissi all'improvviso, con la voce tremante. Emily mi guardò con i suoi occhi di bambola, in silenzio. Le sue labbra bianche, poi, si aprirono di nuovo.
-Cosa dici Emma? Certo che esisto. Esisisto, e sono tua amica.- rispose, con voce lacrimosa.
Io scossi la testa, decisa.
-Non vuoi venire a casa mia oggi pomeriggio? Con me?- continuò, il viso sempre più sconvolto.
Io continuai a scuotere la testa.
-Giocheremo, leggeremo, raccoglieremo fiori. Faremo tutto ciò che vorrai, lo giuro!- disse, le labbra tremanti e gli occhi ancora più lucidi.
-Non ci abita nessuno in casa tua! Sei una bugiarda!- esclamai io, arrabbiata.
Emily parve terribilmente ferita; il suo sguardo faceva stringere il cuore. Ma io non volevo vederla.
-Ti prego, Emma. Sei tutto ciò che ho.-
-No.-
-Sono terribilmente sola Emma. Completamente, assolutamente sola. Ti prego.- continuò, ormai in lacrime.
Le gocce salate le scorrevano lungo le guance, ma niente poteva scuotermi dalla mia decisione.
-Nessuno mi vuole più bene! Nessuno, nessuno!- gridò lei, ormai in preda alle lacrime più amare.
Allungò un braccio per prendermi, ma io mi ritrassi, uscendo dalla zona di ombra creata dagli alberi.
Per un breve, minuscolo istante, le dita di Emily sfuggirono dal buio.
Non proiettarono ombra.
Un tremito mi percorse la schiena, e un'improvvisa paura mi riempí il cuore.
-Addio Emily.- pronunciai, senza guardarla affatto negli occhi.
Lei smise di protestare, e mi fissò, il gelo più assoluto nei suoi occhi di vetro.
Mi voltai, e feci per andarmene, quando udii di nuovo la sua voce, sottile e fredda.
-Le lacrime sono gli acquazzoni estivi sull'anima. Lo sai Emma?-
Scrollai le spalle e tornai dentro.
La campanella aveva suonato di nuovo.

Mi risveglio come da un sogno. Il sole è accecante come una sfera infuocata, ma riesco comunque a distinguere il posto in cui mi trovo. Seduta sulla panchina del parco, con la mia bambina che gioca.
La mia bambina.
Lara!
Mi sporgo dalla panchina e vedo il dondolo a forma di delfino dove stava giocando, ma ora dondola senza nessuno sopra.
Scatto in piedi come una molla e corro per il parco, ormai vuoto. Le altre mamme sono andate via.
Il panico mi cresce nel cuore e continuo a guardarmi intorno.
Ad un tratto, lontano, la vedo.
È di spalle, guarda il tronco ruvido di un pino, come se guardasse una persona.
Bisbiglia qualcosa che non comprendo.
Corro verso di lei e la prendo per le spalle, facendola voltare.
I suoi occhi azzurri, sempre ridenti, ora sono come vetro negli occhi di una bambola. Privi di qualunque espressione.
-Lara! Amore, dove eri finita?- esclamo, stringendola in un abbraccio.
Il suo bisbiglío nelle mie orecchie è quasi assordante.
La scuoto.
-Lara...che succede?-
Sussurra una sola frase, sempre uguale.
-Le lacrime sono gli acquazzoni estivi sull'anima. Lo sai mamma?-
Mi sento mancare.
-Chi...chi te lo ha detto?- dico, tremando.
Lara sbatte le ciglia, quegli occhi di vetro che mi guardano.
-La mia amica... si chiama Emily, e ha detto che mi porterà con lei. Presto verrà a prendermi-

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top