1."Vali molto meno, di quello che credi"
Tu promettimi che, quando
perderò la calma, sarai
vicino a me, coraggio come
un'arma.
(Marracash)
OGGI
«Mi raccomando, non fateci fare brutte figure» la voce di Natalie Bowers riecheggia nello spazio posteriore della limousine di famiglia, dove sia io che mia sorella siamo sedute insieme a lei e a nostro padre.
«Evelin, mi riferisco soprattutto a te» come ovvio che sia, naturalmente.
Porta le braccia al petto avvolto dall'abito da sera più costoso che possa indossare, contornato di diamanti che illuminano il tutto. Le sopracciglia sottili se ne stanno arcuate, formando piccole rughe forzate sulla fronte.
La guardo cercando di mostrarmi sicura e non goffa come mio solito, così ammicco un sorriso forzato nascosto dal mio rossetto preferito di Dior. Ha una tonalità simile al color pesca, che abbinato ai miei coloriti, risulta perfetto.
A differenza di mia madre e Charlotte, difatti, io ho preso da papà. Loro entrambe con la pelle di porcellana, gli occhi chiari e capelli biondi chiarissimi, mentre io sono bionda scuro tinta sul miele precisamente, e con semplici occhi castani.
La loro eleganza espressa attraverso una figura alta e longilinea poi, mi rendono completamente l'opposto.
Sono anni che nostra madre ci manda a danza, quella classica, con la speranza di far di noi una mini Natalie del passato, l'ex ballerina di Broadway. E per un po' ci è riuscita ad abbindolare anche me con le sue parole, almeno finché crescendo, ho preso più le sembianze di un Umpa Lumba, che di una ballerina.
«Dai Natalie, non preoccuparti. La nostra Evy, sa perfettamente come comportarsi» Nathan Bowers come sempre prende le mie difese, cingendomi le spalle in un abbraccio complice.
«Grazie papà» sussurro.
«Se non ricordo male, caro, dicesti così anche l'ultima volta» puntualizza mia madre, rivangando un episodio del passato.
«Andiamo mamma, è successo la bellezza di due anni fa» è sempre la stessa storia con lei. Non guarda mai le cose che faccio bene, come ad esempio l'essere riuscita ad entrare alla Columbia University insieme a Charlotte, nonostante pensassero tutti che non ce l'avrei fatta.
«Già sorellina, ma sai perché tenta di mantenere il ricordo vivido? Perché con te non si sa mai cosa può accadere» la voce tagliente di Charlotte affiancata a quella di mamma alle volte mi dà i brividi.
Circa due anni fa ad un'asta di beneficenza come quella che stiamo per raggiungere, per sbaglio ho urtato un cimelio super costoso della famiglia Snow, ovvero un vaso fatto interamente di diamanti posseduto dalla nonna della mia migliore amica: Katherine.
Un disastro è vero, ma Dio quanto sono esagerate!
«È sempre bello sentire le opinioni che hai su di me. Ti ringrazio "sorellona"» dico ironica ricevendo un'occhiata annoiata da parte sua.
Come ogni anno l'asta avviene nell'unico Museo della zona, ricordandoci di continuo quanto il nostro distretto sia minuscolo paragonato agli altri di New York. Long Island, infatti, è l'unico tra tutti a trovarsi su una piccola isola che si può raggiungere tranquillamente attraversando il ponte che ci lega alla grande mela, o con il traghetto.
Non ci sono molti turisti in città e non c'è molto da vedere nonostante sia divisa in due parti: la zona di Fort Hill, ovvero la parte ricca, circondata da ville, Club di lusso di cui mia madre ne è la fondatrice, campi da golf e da tennis, e poi c'è la parte di Oak Beach.
Benché sia definita "l'area dei poveri", ha la fortuna di espandersi interamente sulla costa ed è baciata dal mare e non nego di aver pensato più di una volta di sgattaiolare fin lì, però non l'ho mai fatto.
Sebbene lo spettacolo notturno sia famoso, alla gente come noi non è permesso andarci, quindi ne stiamo alla larga.
Attraversato il tappeto rosso che si estende fino in cima alla grande scalinata, finalmente siamo dentro. Guardie vestite di nero sono ad ogni angolo, assicurandosi che tutto vada come da programma e nessuno abbia intenzione di sabotare niente.
La sala del ricevimento si trova nell'atrio principale, intaso da persone in ghingheri nemmeno fosse un matrimonio, ma infondo queste sono le regole.
A differenza da molte famiglie, la mia si è fatta da sola. Mia madre è figlia di persone benestanti, invece mio padre no. Con gli anni ha aperto una catena immobiliare che con il tempo è diventata la più ricercata di tutta New York, accontentando gli standard di mia madre.
Calici di cristallo colmi di champagne traballano sui vassoi d'argento, stretti nelle mani dei camerieri che in silenzio portano da bere a tutti. Ovviamente non può mancare il caviale, messo su un lato della sala per saziare le pance schifosamente piene di soldi.
Varie persone vengono a salutarci, mentre mia sorella mi prende a gomitate più volte, ricordandomi di tenere un portamento fine.
«Tieni la schiena dritta per una volta».
«Come se fosse facile».
In realtà mi sento più un dinosauro che cerca di tenere l'equilibrio su un filo spinato.
Odio i tacchi!
«Sei arrivata stronzetta» Kat mi raggiunge a falcate buttandomi le braccia al collo.
«Katherine misericordia, modera i termini» la rimbecca mia sorella stizzita.
«Dio, che pesante» borbotto ricomponendomi.
«Si può sapere che le prende? Le si è spezzata un'unghia?».
Magari fosse questo il problema.
«È arrabbiata perché credeva non sarei mai entrata alla Columbia».
«Mandala al diavolo. L'importante è che staremo insieme e indovina? Ho persino corrotto la rettrice per far sì che stessimo nella stessa stanza» fa spallucce come se fosse una cosa normalissima.
«Che cosa? Non ci credo».
«Beh, credici».
«Ecco...ora ho bisogno di bere» dico infine afferrando un bicchiere di champagne da un vassoio in movimento.
«Più che un bicchiere di champagne, c'è bisogno di una bottiglia di Vodka. Che noia, cazzo».
La solita delicatezza di Kat che di aristocratico non ha un bel niente, mi fa ridere. E devo ammettere che per una volta sono d'accordo con lei.
«Evelin, buonasera» la signora Snow si avvicina a noi, accompagnata da mia madre. Senza che ce ne rendiamo conto, ci mettiamo sull'attenti nemmeno fossimo soldati.
«Salve signora Snow. Ha fatto un ottimo lavoro, l'asta come sempre è impeccabile» dico battendo le ciglia, controllata ad occhio da Natalie.
«Quante volte devo ripetertelo, chiamami Hannah. E ti ringrazio, ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza tua madre».
«Suvvia, Hannah» Natalie sorride lodandosi.
Io e Kat ci scambiamo un'occhiata finché lei mima "ma che cazzo" con le labbra, facendomi ridere.
«Se volete scusarci, ragazze».
Le due raggiungono un piccolo palco allestito su un lato della sala. Godendo dei sorrisi degli ospiti e degli applausi continui, si fermano al centro, dove c'è una mazza con dei piedini che regge un microfono.
«Buonasera a tutti. Come ben sapete, io sono Hannah Snow, e vorrei ringraziare tutti i presenti per onorarci della vostra presenza. Come ogni anno in questo periodo, la nostra comunità si prende la briga di organizzare quest'asta dì beneficienza, che si impegna a donare i ricavi, a sostegno della nostra città. Prima di iniziare, vorrei ringraziare la mia più cara amica, Natalie Bowers, per il suo grandissimo aiuto» applausi si alzano nell'ambiente, puntando i riflettori su mia madre che si mostra sorpresa.
«Soprattutto per aver donato l'oggetto principale della serata: la collana di perle della sua famiglia. Ricordo che questo bellissimo oggetto è attualmente riposto in una stanza del Museo, e ha una base d'asta di 500.000 dollari».
«È bellissima» qualcuno commenta.
«Benissimo, ora bando alla ciance e diamo inizio alle danze».
La serata prosegue tranquilla, se così si può dire, udendo persone che fanno offerte intente ad accaparrarsi l'oggetto esposto.
Kat sta vicino a me, sbuffando in continuazione.
«Che palle, voglio una sigaretta».
«Abbassa la voce, se tuo padre ti sente, ti uccide» la ammonisco, notando la vicinanza dei nostri genitori.
«Hai ragione, sarebbe meglio una canna».
D'un tratto una presenza si accosta a noi, dall'odore d'acqua di colonia non serve voltarci per sapere di chi si tratti.
«Ciao ragazze, siete splendide».
«Dacci un taglio, Tom. Sappiamo entrambi che con "splendide" ti riferisci ad Evy» dice la mia amica mettendomi in imbarazzo.
«Smettila» rispondo.
Lo sanno tutti in città che Thomas Everwood, il ragazzo più ambito, nonché figlio del socio più stretto di mio padre, ha una cotta millenaria per me non corrisposta.
È senza ombra di dubbio un bel ragazzo, e nonostante i tentativi di mia madre di invogliarmi a dargli una possibilità, non me la sono mai sentita. Sarò una scema fissata con il romanticismo vecchio stile, fatto sta, che sono arrivata a diciotto anni, senza aver mai trovato qualcuno capace di rapirmi il cuore.
«Chiudi la bocca, Kat» dice Thomas.
«Chiudila tu, la bocca» risponde quest'ultima.
«Ricomponetevi, per l'amor del cielo» mia sorella si avvicina mantenendo una postura rigida e impeccabile.
Lancia uno sguardo a Tom, che a sua volta fissa in cagnesco Kat. Non sono mai andati d'accordo fin da piccoli, a differenza di Charlotte che ha sempre considerato Tom come suo migliore amico.
«È lei che ha iniziato» si giustifica il ragazzo con un grado di maturità a dir poco avanzato. Butto gli occhi al cielo esasperata.
«Oh, ma davvero? Cavolo che gentleman» continua Kat.
«Ok, io vado in bagno» dico infine al muro.
Mi faccio largo tra la gente, riuscendo finalmente a tirarmi fuori dall'aria asfissiante che domina la sala. Mi sembra come di tornare a respirare, così con la pochette in tinta al vestito stretta tra le mani, cerco la toilette. Le scarpe strusciano doloranti sulla moquette rossa posta al centro di un corridoio situato al lato opposto del ricevimento e, ho paura di poggiare i piedi atterra. Mi sorreggo al passamano, sorpassando due guardie che controllano la zona.
«Tutto bene, signorina?» mi chiede uno dei due notando la mia faccia non sofferente, ma di più.
«Si, grazie» rispondo in una smorfia.
Appena giro l'angolo controllo intorno e quando mi accerto di essere da sola, senza pensarci due volte mi sfilo i sandali. Il contatto dei piedi nudi sul pavimento mi dà una sensazione di pace, così appagata, afferro le scarpe. Come un t-rex appena sceso dal piedistallo, apro la prima porta che mi trovo davanti e mi ci fiondo dentro.
Quando lo faccio, sono pietrificata dalla scena che mi si presenta. Resto immobile ad occhi sgranati, nel vedere due uomini in smoking aggirarsi intorno alla teca che contiene la collana della mia famiglia. Con un gesto il più basso tra i due rompe il vetro, ma a differenza di quello che credevo non scatta nessun allarme.
«Prendilo e andiamo».
Afferrano di fretta il gioiello, a quel punto come una matta e senza avere più il controllo delle mie azioni emetto un urlo a squarciagola.
Con grosse falcate uno dei due mi raggiunge, e ancora prima di poter tornare in me e scappare, mi afferra e mi blocca contro il muro.
Un altro grido esce dalle mie labbra, causato dall'impatto violento della mia schiena contro il cemento. Un dolore lancinante mi attraversa la colonna vertebrale momentaneamente paralizzata, obbligandomi a serrare gli occhi.
Appena riesco a respirare, un altro fiato rimane mozzato di colpo, quando mi scontro con due iridi profonde e vuote come una foresta invernale.
Mi guardano dall'alto, o meglio, mi fulminano sul posto. Gli occhi felini sono ricoperti da lunghe ciglia folte che gli donano uno sguardo tagliente, mentre il volto è coperto da un passamontagna che mi impedisce di poter identificare il suo aspetto.
Ho il cuore a mille, mentre tento di conficcarmi nelle mura dietro di me, tastandole nervosamente.
La sua fisicità atletica sorpassa di gran lunga la mia, che lo fissa dal basso nemmeno fosse una montagna. Restiamo così per una frazione di secondi, mentre cerco di tenere a bada la paura che si fa spazio nelle mie viscere, interrotta dalla visuale delle sue labbra pericolosamente vicine alla mia faccia.
«Tu» dice quasi ad un sussurro.
«Che succede?» il ragazzo più basso si avvicina a noi, e nonostante la stoffa nera messa a coprirgli il viso, posso percepire la sua agitazione.
«Che-che state facendo?» dico balbettando, mandando giù il conato di vomito.
«E tu, da dove cazzo sbuchi fuori, eh?» la voce piatta e gelida come l'Antartide mi si conficca nelle orecchie ed insieme ad essa, la presenza terrificante di qualcosa di freddo sulla mia tempia.
Piego leggermente le gambe portandomi il più indietro possibile. Solo in quel momento però, noto l'arma che è impugnata tra le mani del ragazzo che mi sta addosso.
Sento il cuore in gola, e brividi di paura iniziano ad invadere ogni millimetro del mio corpo sovrastato dal suo.
Di scatto mi afferra le spalle, ma inizio a divincolarmi con tutta la forza che ho.
«Lasciami, lasciami ho detto» prendo aria un secondo «GUARDIE! GUARDIE!».
Con una velocità' innata mi posa bruscamente la mano sulla bocca. Si abbassa alla mia altezza, con le labbra piene ridotte ad una linea dritta.
«Chiudi questa fottuta bocca, prima che te la chiuda io per sempre».
Mando il groppo che ho in gola, soffermandomi sui diversi tatuaggi e anelli che ricoprono le dita. Il suo profumo di pino misto a tabacco, si insinua impertinente nelle mie narici, fino a sentirlo addosso in ogni forma.
Non ho la possibilità di vederlo, ma quegli occhi sebbene inespressivi e privi di ogni forma di emozione, mi stregano pari a quelli di un serpente incantatore. Inizio a maledirmi mentalmente, per gli strani pensieri che riesce a creare la mia mente appannata e offuscata da quella situazione, ma cavolo: sono gli occhi più belli che abbia mai visto.
«Che cazzo hai da fissarmi così? Mh?».
«Cosa? Non ti sto fissando brutto vandalo, semmai sto studiando qualche dettaglio per poter fare un identikit e prendermi il merito di averti fatto sbattere in galera».
Sta zitta Evelin!
«Ah, mi staresti "studiando" quindi...Che cazzo di problemi hai? Vuoi morire?».
«Ma che stai facendo? Lasciala stare. Andiamo» gli ordina l'amico afferrandolo dal braccio.
«Hai sentito? Lasciami subito» ripeto come un eco, trovando il coraggio che di solito fa parte di me. Invece di allontanarsi però, porta il naso contro il mio.
«Da quanto in qua, sono le vittime che danno gli ordini?!».
«Vittima?» dico con un filo di voce.
«Già, stai zitta o lo diventerai».
Resto immobile facendo mente locale, poi il ragazzo più basso infila la collana in uno zaino nero.
«Non puoi prenderlo, è un cimelio della mia famiglia» cerco di dire autoritaria.
Il ragazzo di fronte a me arcua un sopracciglio, guardandomi con strafottenza.
«Ma davvero, bambina? Prova a fermarmi».
Bambina a chi?
«Si, criminale...Ne hai idea di quanto costi? Lascialo subito».
«Costa tanto, eh?» un sorriso derisorio gli attraversa il viso coperto «Hai sentito? Ha detto che è costoso» chiede al suo amico che a differenza sua è tutt'altro che tranquillo «Pensi che di solito andiamo in giro a rubare bigiotteria? Per chi mi hai preso, mocciosa del cazzo»,
«Ehi, dobbiamo andare».
«Va bene, andiamo» quando tiro un sospiro di sollievo, mi afferra dal polso e mi trascina avanti a lui «Ma tu, vieni con me».
«Cosa?» dico cercando di liberarmi «Dove vuoi portarmi?!».
«Ti sembra il momento di giocare? Dobbiamo andare. Ora.» il suo amico sembra l'unico tra i due ad avere un minimo di giudizio.
«Non sto giocando. Ci serve se vogliamo uscire di qui» gli spiega, come se fossi un giocattolo o il loro capo espiratorio.
Inizio davvero ad innervosirmi profondamente, così mentre iniziamo a percorrere di nuovo il corridoio, cerco qualche scusa per salvarmi.
«Vuoi rapirmi? Se è questa la tua intenzione, sappi che mia madre non pagherà nemmeno un centesimo» e chissà forse una parte è vera.
«Rapirti ed essere costretto a condividere lo stesso tanfo di lusso che emani tu? No, bambina. Non sono un pazzo» quelle parole sebbene ferme, sono taglienti e colme di disprezzo.
«Ma come ti permetti? Tu non mi conosci, non lo sai chi sono io» dico sulla difensiva, mentre accelero il passo per non rischiare di cadere per terra. Vorrei piangere però mi trattengo, non ho voglia di dargli questa soddisfazione.
«Se nessuno pagherebbe per te, probabilmente vali molto meno di quello che credi. E ora, fa silenzio» il polso mi fa male da morire, ma le parole di questo sconosciuto, lo fanno di più.
«Ti denuncerò, dirò tutto alla polizia, così vediamo se è come dici tu» sono una vera scema per parlare così, ma invece di innervosirsi, l'estraneo sorride divertito.
«Ah sì? E cosa racconterai? Che due brutti ceffi con il passamontagna hanno tentato di rapirti?» nonostante sembri una cosa seria, detta in quel modo mi fa sentire ridicola.
«Esatto, e che avete rubato la collana della mia famiglia».
Con un gesto mi fa sbattere contro il suo petto talmente duro, che sembra un macigno. Mi schiarisco la voce provando a ricompormi.
«Lo sai, non è molto intelligente minacciare qualcuno che ha intenzione di farti del male. I troppi soldi ti hanno bruciato il cervello, per caso?» avvicina nuovamente le labbra alle mie, e senza volerlo trasalisco. Lui lo nota, difatti sorride compiaciuto.
L'altro ragazzo improvvisamente porta un braccio teso avanti a noi, schiacciandoci contro la parete.
«State zitti, arriva qualcuno».
Non faccio in tempo a lanciare un grido, che nuovamente mi ritrovo il palmo del rapitore sulla bocca.
«Non provare a fiatare» ordina, mentre biascico frasi incomprensibili.
Quello più basso si affaccia attentamente verso l'entrata, finché si ritrae velocemente.
«Come cazzo facciamo a uscire di qui. Ci sono guardie dappertutto».
«Non hai pensato ad un piano di fuga?».
«Non erano previsti ostaggi...amico».
La tensione riecheggia nell'aria diventata tagliente come un filo di rasoio. I due iniziano a muoversi nervosamente, mostrandosi per la prima volta vacillanti.
«Ascolta, se conosci un modo per uscire di qui diccelo subito».
«Lo conosco, ma non vi aiuterò».
Quel momento di gloria viene spazzato via immediatamente. Con più forza di prima, stringe la presa su di me, portando di nuovo le mani sull'arma.
«Si che lo farai, se non vorrai farti saltare in aria il cervello. E credimi, sarei felice di prendermene l'onore».
Notando la mia apparente indifferenza che nasconde una paura tremenda, il ragazzo più basso si avvicina a me.
«Ehi, ascoltami per favore, non vogliamo farti del male. Aiutaci solo ad uscire».
«Pensate che giocando al ladro buono e a quello cattivo, mi intimorite?» altro che intimorire, sto letteralmente morendo dentro. Inizio persino a pensare al testamento che avrei potuto scrivere tempo fa, nonostante la mia giovane età.
«Vuoi vedere quando sono cattivo, viziata del cazzo?» la pistola emette un clic, avvisandomi di essere pronta a sparare.
«Per favore...» la voce gentile e supplichevole dell'altro ragazzo quasi riesce a convincermi, ma non appena mi decido di dirgli che li avrei aiutati, un dolore atroce colpisce la mia testa facendomi cadere atterra.
«Apollo, che hai fatto?» quella frase mi giunge come ovattata nelle orecchie, mentre rannicchiata su me stessa guardo un punto davanti a me, trovandomi guancia a guancia con la moquette.
L'ultima cosa che vedo, sono delle scarpe scure che si allontanano dal mio corpo inerme, finché chiudo gli occhi e perdo i sensi.
Apollo, penso. Poi il buio.
Ciao a tutti, volevo sapere cosa ne pensate dell'inizio di questa storia.
Ancora siamo all'inizio, e si, come primo incontro tra i due, non si può dire di certo, che sia romantico. Apollo, ovviamente è completamente l'opposto.
Non odiatelo per favore. Grazie a tutti ❤️
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