3

1 gennaio 2005, Parco Casteltrezza (Catania)

Strinsi il braccio di mio marito, mentre continuavo a guardarmi intorno. Zack aggrottò le sopracciglia: «Che succede?», chiese.

Col fiato mozzato dall'ansia, riuscii a biascicare: «Asia... non vedo Asia!»

In quel momento, Ursula urlò. «Oh mio Dio, oh mio Dio! Unn'è a picciridda?*»

La mia vita si fermò lì, in quel maledetto secondo. Tutti i miei amici iniziarono a cercare Asia. Mio marito urlava il suo nome e si faceva strada tra la folla per vedere se si fosse nascosta in mezzo alla gente. E io rimasi immobile a guardare. Katia istintivamente prese tutti i bambini e si mise con loro dove ancora c'erano i nostri tavolini.

Ursula, invece, iniziò a muoversi convulsamente. «Le sue manine sulla mia gamba sentivo, con me era, ne sono sicura.»

Balbettava.

Io osservavo il tutto ferma al centro di quell'immenso parco. Con la fronte inarcata, le labbra socchiuse, il respiro ancora pesante e le braccia penzolanti.I miei occhi seguivano gli uomini che cercavano e urlavano, poi si fermavano ancora su Ursula e sul suo volto disperato, a tratti intravedevo i bambini che abbracciavano Katia, ogni tanto il mio sguardo si fermava su quella folla che ancora ballava. E, come se lo stessi immaginando, vedevo me stessa ferma, immobile di fronte a tutto quel caos.

Fu una delle frasi di Ursula a destarmi da quello strano stato comatoso. «È tutta colpa mia. La responsabilità ce l'avevo io.»

Quelle parole mi sconvolsero al punto di farmi sgranare gli occhi, come se fossero bastate per rendermi conto che mia figlia si era persa. Come se qualcosa di immaginario fosse diventato improvvisamente realtà. Riuscii lentamente a dirigere lo sguardo sull'orologio che avevo al polso. Erano già passati quarantacinque minuti.Vidi Giovanni, tremante, sconvolto, camminare verso di me. Teneva qualcosa in mano. Lentamente abbassai lo sguardo: era il coccodrillo di Asia. «Era sul ciglio del burrone», disse col fiato mozzato. Offuscata dalle lacrime agli occhi, iniziai a piangere con una pesantezza inaudita. Ancora immobile, lì ferma in quel punto, caddi su me stessa, in ginocchio, persi ogni forma di forza.

E riuscii finalmente a urlare. «Asia!»

Non so chi ebbe la lucidità di chiamare i carabinieri, ma si presentarono pochissimi minuti dopo. Interrogarono nell'immediato Ursula, che tentò in tutti i modi di dare ogni informazione necessaria per aiutarli nella ricerca. In un istante decisero di chiedere aiuto a tutte le forze dell'ordine in zona. Nei venti minuti successivi chiusero l'area e cominciarono le ricerche. Molti dei presenti però avevano già lasciato il parco.

Due carabinieri si avvicinarono a Ursula. Riuscii a udire le loro parole: «Avreste dovuto chiamarci subito e non dopo un'ora dalla scomparsa: un errore che può essere fatale.»

Ero sempre più sconcertata. Adibirono un tendone a stanza degli interrogatori. Alcuni carabinieri fecero domande a tutti i presenti rimasti, molti dei quali non avevano nemmeno visto la bambina. Sentii un urlo, mio marito che, in lacrime, non smetteva di gridare il nome di nostra figlia.

Ursula annuì, si avvicinò a me e strinse la mia mano. «Perdonami» sussurrò.

Non ero certa di che cosa provassi in quel momento, il dolore offuscava ogni mio sentimento, ma di una cosa ero certa: non avrei potuto mai odiare quella donna, né pensare che avesse la colpa di tutto ciò che stava accadendo. A un certo punto sentii abbaiare in lontananza. Avevano portato i cani molecolari nella speranza che potessero ricavare qualche pista dal coccodrillo di Asia. Due uomini in divisa mi passarono accanto, ignari del fatto che io fossi la madre di Asia.

La voce di uno dei due arrivò nitida alle mie orecchie. «Quarantotto ore. Ecco qual è il tempo che si dà per intercettare la bambina. Superata quella soglia, diventa sempre più difficile ritrovarla viva.»

So solo che alzai gli occhi verso il cielo. Era l'alba, e ciò stava a significare una sola cosa: che delle quarantotto ore ne restavano quarantatré.

«Signora, per favore, una foto di sua figlia, ce l'ha con sé?», chiese con voce delicata un uomo.

Lo osservai in viso, dopo aver notato la divisa da carabiniere. Aveva uno sguardo tenero e, sotto ai baffi bianchi, un leggero sorriso di cortesia. Chinai la testa, tesi la mano verso la mia borsetta, Ursula la prese e la porse. Frugai dentro il portafogli, ricordavo di avere una foto che le aveva scattato mio padre pochi mesi prima. La trovai. Prima di darla a lui la osservai. Fu lì che il mio corpo cedette.

Svenni.

*Dov'è la bambina?

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top