Volta pagina
Rannicchiata sul sedile del treno, osservavo le montagne che si dileguavano lontane, come corressero con silenziosa foga in un passato in cui era impossibile ritornare. In quella fuga ansiosa, pareva mi rincorressero e subito dopo che mi sfuggissero in maniera esplicita e sfrontata. Tutto il paesaggio si delineava nei suoi contorni fuori dal finestrino ricoperto da ogni sporcizia, opaco e bruciato in alcune parti dalle numerose ore di esposizione al sole.
Stavo andando in un luogo che non mi piaceva, lontana dalla mia vita e dalla mia routine. Con me, solo un po' di speranza di sapermi adattare, un po' di curiosità per ciò che era inaspettato, e un libro: I Promessi Sposi. Era la mia salvezza, era come se in quelle pagine ci fosse un amico, un supporto, una guida capace di suggerirmi come agire.
Lo tenevo stretto al cuore, noncurante del galoppare delle ruote sulle rotaie, indifferente davanti a tutto il frastuono del vociare passeggero dei viaggiatori. Poche centinaia di pagine in grado di risucchiarmi completamente, ecco cos'erano, la splendida sensazione di conforto nell'essere compresa da una persona lontana, sconosciuta, con esperienze totalmente diverse. Un conforto senza pari, in un mondo dove piove sempre. Quella carta sapeva avvolgermi con quelle piccole ombre d'inchiostro come nessun altro abbraccio sapeva fare, con calore e sicurezza.
Il problema era uno però: la realtà non era rappresentata da quel profumo con cui quelle pagine mi inebriavano. La realtà stava nei miei occhi solcati dalla malinconia, nel sudore sulle tempie pulsanti, nei piedi avvolti dalle solite scarpe da ginnastica che poi sarebbero scese in mezzo al frastuono che subito si sarebbe dileguato nel silenzio, docili sotto la pressione dei miei passi, in una fermata a loro estranea ma, purtroppo, neanche troppo. Soltanto quelle parole avrebbero potuto portarmi altrove, fuori da quella brezza quasi fredda e montana, che odorava di pini mughi e legno bagnato.
Vedevo nel vetro riflessa un'immagine diversa da quella che avrei voluto osservare: solo io potevo capirmi in quel momento, solo io potevo scrutare nella mia spossatezza la profondità dei solchi che cerchiavano i miei occhi sfiancati dal dolore, solo io potevo mostrarmi felice e sicura davanti alla gente impassibile e incapace di comprendere la frase criptica che sempre alloggia dietro un amaro sorriso di sconforto.
Quando nessuno mi capiva, mi rintanavo in quel libro. Mi sentivo cullata e presa per mano, accompagnata in un sogno dai colori tenui e spumosi. La carta sudava sotto le mie dita ansiose, e quel sudore impregnava di vita ogni riga. C'è una voce dentro ogni libro: quella di chi te l'ha regalato, oppure quella di chi crede in te, oppure semplicemente la tua. Insomma, una voce capace di guidarti ovunque, nonostante le difficoltà. Una voce che è lì, presente, che ti sta accanto, che ti narra una vita che non è la tua ma è come se un po' lo fosse.
Con le mani sfioravo di tanto in tanto gli orecchini che ciondolavano nei fragore, un po' arrugginiti dal tempo ma ancora emananti qualche bagliore. Il sole cominciava ad abbagliarmi, così mi rintanai nei miei pensieri. Una parte del mio volto si guardava costantemente nel vetro: mi chiamo Alessandra, ho quindici anni, gli occhi confusi e irrefrenabili e capelli elettrici, un sorriso spento che spesso inganna chi mi vede.
Continuavo a presentarmi a me stessa durante la corsa del treno, chiedendomi se al ritorno mi sarei potuta ancora riconoscere. Ce la farò? Me lo chiedevo in ogni istante, inerme davanti al repentino futuro.
Sarei stata lontana dalla mia città sei giorni. Sei lunghissimi giorni in cui nessuno avrebbe minimamente ascoltato le mie domande.
Arrivai con qualche minuto di anticipo alla stazione di Pontebba, e mio zio non era ancora arrivato al binario per portarmi a casa. A casa? Sì, nella sua casa, non nella mia. Il vento iniziò ad alzarsi, io mi strinsi nella mia felpa viola, proteggendo le lacrime dietro le lenti degli occhiali da vista. Mi sentii stupida: sapevo che, anche non proteggendole, mio zio non le avrebbe comunque notate.
Ma dove sono? Perché? Perché a me?
Continuavo a chiedermi se fosse giusto, se fosse destino che una tale situazione capitasse a me: andare durante le vacanze a trovare lo zio, come obbligo imposto da mio padre, mi pareva tutto sommato qualcosa di folle. Avevo provato a spiegare quanto là io stessi male ma nulla: non venivo appoggiata.
Da lontano avevo iniziato a scorgere una figura che si stagliava silenziosa nella nebbia. Intanto riflettevo su quante volte, sul ponte di Pontebba, avevo giocato a varcare il vecchio confine austriaco, e mi venne da darmi un pugno in pancia per costringermi a smetterla.
Ci salutammo come non ci vedessimo da cinque giorni, con la freddezza simile a quella di quello stesso dicembre così solidale nei confronti del mio timore e del mio soffrire.
E via. Via a piedi nel silenzio verso la casa, solo qualche frase imbarazzata riusciva a interrompere il suono dei nostri piedi sulla ghiaia. Non era mai allegro fare tutto quel tragitto a piedi.
Non era allegro per nulla, accidenti. Mi veniva da urlare, mi veniva da far domande ai passanti, non avendo un valido interlocutore. Ma come si può andare a trovare una persona con la quale non si condividono argomenti di discussione?
Finalmente, ma anche sfortunatamente, arrivammo a casa. Casa? Potevo chiamarla casa? Insomma, arrivammo in quel luogo che ha un tetto e qualche stanza. L'odore insopportabile del vino che straripava dalle bocche dei vecchi che ci vivevano iniziava a predominare nella freddissima brezza montana. Uno spiacevole calore, insomma, di cui quel posto non poteva fare a meno. Li vedevo ridere, ridere senza un senso, là dietro i vetri della finestra, dietro i quali pensavano di essere al sicuro dalla realtà.
Non era così: io li vedevo, non capii mai però perché si vergognassero tanto della loro tristezza infinita. Siate fieri di essere tristi, se lo siete, siate vogliosi di dimostrarvi voi stessi!
Loro no, non ce la facevano.
Corsi nella stanza trascinandomi dietro con fatica la valigia neppure troppo pesante: ogni gradino della scala era un tuffo al cuore che volentieri mi avrebbe voluta riportare indietro, nella mia città.
Come al solito non disfai i bagagli: speravo che qualcosa sarebbe successo, che qualcuno mi avrebbe portata via, lontano da quella dimensione assurda e ipocritamente dolciastra.
Mi sedetti sul letto e un'onda di briciole si rovesciò sulla mia gamba. Sospirai e la scostai con delicatezza, quasi temendo di esser vista, e poi presi il mio libro e lo aprii a caso.
'Gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante.'
Mi mancò il respiro: mi aveva descritta perfettamente, come mai nessun altro. Quest'uomo, nato il 7 marzo del 1785, senza avermi mai conosciuta né vista, attraverso le sue parole mi aveva compresa. Possibile? Possibile che neanche chi mi aveva generata sapesse scrutare così bene dentro il mio cuore?
Mi spaventai. Mi spaventai tanto che strinsi a me il volume mentre mi si inumidivano gli occhi.
"Ale! Ti sei sistemata? Andiamo a bere al solito posto! Vieni, dai!".
Le lacrime pulsarono più forte, fino a farmi scoppiare. Le asciugai in fretta, anche se comunque non le avrebbero viste, ne ero certa. A stento continuai a leggere da un'altra pagina.
'E s'inoltrava in quell'età così critica, nella quale par che entri nell'animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l'inclinazioni, tutte l'idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto.'
Com'era vero! Dovevo trovare una soluzione e anche in fretta. Qualcosa che avrebbe cambiato la mia vita. Ero stanca di stare male per una vita simile.
"ALE, sei pronta??".
"Arrivo subito." gridai, strozzando un gemito. E, come in catalessi, continuai a leggere un altro passo.
'Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati, ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile.'
Decisamente sì, silenziai ogni mia enorme sofferenza e mi adattai. Scesi e andai, ripetendomi queste ultime parole nella mente come una litania, come una richiesta di ascolto.
Vedete, c'è tanta gente che odia quel libro perché noioso, inattuale e altre cose che non sto a ripetere. Ma quel libro fu il mio unico amico in quel periodo e soprattutto in quei giorni. Non lo studiavo perché dovevo, anche se in quel periodo effettivamente dovevo, ma lo vivevo, e così come lui capiva perfettamente me io riuscivo a capire perfettamente lui.
C'era ancora il sole, e le montagne ancora non avevano voglia di nasconderlo. Un sole alto, forte e glaciale. Nel tragitto per arrivare al bar ascoltammo alcuni brani di Irene Grandi ma per la prima volta non prestai attenzione al testo.
Di nascosto aprii nuovamente il libro. Temetti una di quelle frasi dure, spietate e reali. Mi preparai a questo guardando fuori dal finestrino dell'auto: ogni luogo pareva nuovo, ogni angolo minaccioso, ogni persona pericolosa e subdola.
'Il coraggio uno non se lo può dare.'
Ecco, appunto. Non sapevo dove girarmi, non sapevo chi mi avrebbe incoraggiata. Mi finirono i capelli in bocca a causa di una maledetta folata d'aria gelida inaspettata. Io avevo sperato con tutta me stessa, illudendomi come sempre, che per una volta potesse andar bene, che per ora fosse una normale vacanza. Ma vacanza da cosa? Ricacciai a forza gli occhi tra i caratteri dattiloscritti.
'Ora sapete come è l'aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva quello che si volesse.'
Mi scostai i capelli dal viso e mi promisi di resistere per tutto quel tempo, di piegarmi a quell'immenso e inguaribile disprezzo verso quel mondo che troppo spesso avevo voluto soltanto ignorare.
Sempre più concretamente il freddo mi ricopriva le braccia, l'automobile non mi assicurava nessun calore e così si rivelarono i dieci minuti più lunghi e noiosi della mia esistenza che, per quanto breve, fu parecchio densa di avvenimenti e di emozioni.
"Che cosa ci racconti, Ale?" disse all'improvviso sua zia, per rompere l'atmosfera intrisa di imbarazzo.
Un gelo mi prese al cuore improvvisamente e il sole scomparve un attimo dietro le nuvole. Una tenue foschia opacizzò le cime dei monti e i pini parvero incurvarsi e incupirsi sotto il peso di una tale lugubre brezza.
"Nulla di che. Sempre uguale." dissi quasi senza forze, cercando di apparire normale, tentando di sembrare forte. Chissà perché mi sforzavo tanto, dopotutto non avrebbero inteso un bel nulla.
Lei non continuò. Stette zitta, e questo mi fece male. Parlò con mio zio durante il viaggio di un ponte che stavano costruendo a Pramollo, senza curarsi della mia esistenza. Tant'è.
Mi chinai a sfiorare la superficie della copertina del libro, dove in basso una timida scritta rosa recitava Alessandra Milesi, classe 5^A.
Qualche strana gocciolina di pioggia incominciava ad accarezzare il vetro del finestrino, quasi come le mie dita che cercavano continuamente e angosciosamente la certezza della concretezza del libro.
"Ale, vuoi muoverti a scendere? Siamo arrivati. E molla quello stupido libro, per piacere. Sei venuta qui a trovare noi, ti ricordo." disse sua zia, rivolgendole vigliaccamente un sorriso d'ammonimento falsamente protettivo.
Quello stupido libro? Cosa? Uscii e il freddo tornò a strangolare le mie corde vocali. Ti prego, salvami. Salvatemi, ascoltatemi, non voglio stare qui ancora. Lo so, è passata un'ora da quando sono arrivata ma voglio tornare a casa, a casa mia. Vi prego.
Intanto il freddo continuava sempre più a stringermi nel collo e nel petto.
Avvicinandoci al bar, vidi già la calca dei quarantenni e cinquantenni ubriachi addossarsi ai cubi dove ballavano la sera quelle donne che tanto volevano farsi vedere dai montanari lussuriosi e stanchi del nulla che li circondava. Cercavano, con quel nulla, di spezzare la monotonia delle loro vite. Poverini, così si illudevano di poter ridere insieme davanti a vino e birra.
Presto l'alcool scaldò le loro guance deformate dall'ipocrisia di quelle risate insulse e io mi allontanai dalla calca. Iniziai a calciare piano i sassi della ghiaia, poi sempre con maggior ira, poi senza pietà. Fino a piangere, insaziabile. Piansi come una bambina, finché sotto di me non si sciolse la neve. La schiacciai, con i miei piedi. Da lontano vidi avvicinarsi una figura amichevole che mi salutò con la mano.
Si mostrava sorridente, il volto pareva loquace senza bisogno di proferir parola. Mi accorsi che era un'amica di mia zia, di nome Daniela.
Iniziarono a tremarmi le mani solo al pensiero che, in quel mondo di ciechi, avesse potuto scorgere anche solo da un angolino remoto di quel mondo offuscato quel mio momento di tragica follia.
"Alessandra, dammi quel libro." disse soltanto, senza esitazione, con uno spaventoso sguardo vitreo.
Strinsi al petto la mia unica salvezza. Si ripeté nella mente una delle frasi di cui aveva più memoria, contenute proprio all'interno.
'Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.'
"No." sussurrai freddamente, e prima che potesse dirmi altro mi voltai e iniziai a correre. Corsi lontana, inciampando nei rami secchi, facendo scricchiolare le foglie sotto i miei passi, stringendo quel volume al mio cuore sempre più forte. La sentii chiamare il mio nome ripetutamente ma non mi importava più nulla. Le voci e i rumori si stavano pian piano ovattando, il mio respiro arrancava nell'impotenza, il vuoto in me stessa si faceva via via sempre più immenso.
Questa è l'adolescenza: quando il mondo va al contrario rispetto a te, eppure chi ti sta intorno ti accusa dell'opposto.
'All'uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio!' diceva il libro, quasi sorridendomi dalle sue pagine.
Ebbene, lascio a voi credere se io mi sia voltata o no, se io mi sia piegata alla sofferenza oppure se io abbia scelto la via della felicità.
Improvvisamente tutto però mi apparve chiaro.
'Che ho da dire altro? La verità è una sola.'
Lessi quella frase con un sorriso: avevo capito cosa davvero stessi cercando nella mia vita. Comprensione, e solo da essa sarebbe derivata la mia felicità.
Impossibile cercare la comprensione in chi non sa assicurarla. Vana è la ricerca dell'affetto in chi non ne ha neppure per se stesso.
Presi in mano la mia vita, e mi sentii felice. Il mio omonimo Manzoni mi rivolse un cartaceo sorriso: in qualche modo c'entrava anche lui, in quella nuova e così spontanea felicità.
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