Tempesta di silenzi
Silenzio. Quel silenzio li rendeva diversi. Era il silenzio di chi non ha più la voce, di persone a cui è stato tolto ogni residuo, ogni sprazzo di voce, espressione e speranza. Perché la guerra è così: sa toglierti anche quel poco che ti rende vivo, rende a brandelli quel grido vitale che chiede di poter esser ascoltato. Quei giovani neppure sussurravano. L'abbazia di Saint Denis era completamente immersa nel ricordo delle loro voci ma loro no, non cantavano più.
Jacques era pallido in viso, gli occhi ben spalancati: lui non sapeva cosa fosse la guerra, lui aveva solo sentito i racconti di chi aveva visto qualcosa e lo affascinavano le storie degli eroi di un tempo coperti dalle armi e dalla polvere della storia. Sapeva che erano arrivati anche i tedeschi a Parigi ed ora aveva visto di cosa fossero capaci. Loro volevano la guerra: questo appariva ai suoi occhi francesi pronti alla sconfitta.
Clarisse muoveva appena le sue pupille verdi: sapeva anche lei cosa fosse successo. Avevano portato via Geràrd e solo Geràrd avrebbe potuto rendere vive le loro voci. Avrebbe voluto far scivolare qualche lacrima sul pavimento di marmo gelido ma le sue lacrime si erano arrese definitivamente.
Jean stringeva le labbra: cantare non era permesso e loro sarebbero rimasti lì fino all'arrivo dei tedeschi. Pure l'intenso odore antico dell'incenso li lasciava imperturbabili. Ma cosa era successo? I giornali erano poco chiari riguardo quei fatti.
Sapevano che il 3 settembre 1939 la Francia aveva dichiarato guerra alla Germania, che il 12 settembre erano cessate le offensive da parte della Francia, che l'11 ottobre il ministro Daladier aveva respinto i propositi di pace di Hitler... Qualche notizia così, sentita dai genitori. Alcune date che per loro, quindicenni ignari, non avevano molto significato. Certo, ne acquisivano sempre più man mano che crescevano ma subito non capivano.
Avrebbero voluto non sentire tutto quel freddo: sarebbe bastato poter cantare. Invece loro rimanevano lì, rintanati dov'erano sempre, nell'abside di marmo dell'abbazia gotica di Saint Denis.
Che ne potevano sapere loro, della guerra?
Ormai era il 1940. La Germania aveva sfondata la linea Maginot... Ce l'avevano fatta, erano entrati a Parigi. Quella selva che i francesi reputavano del tutto impenetrabile evidentemente non era tale.
Sapevano dell'armistizio, che è stato firmato intorno al 23 giugno. Non sapevano, non ricordavano la data precisa. Sapevano solo che oramai la Francia era spacciata, in mano ai tedeschi.
Ormai avevano in mano il mondo, loro così feroci, con quegli occhi azzurri capaci di colpire come pallottole di vetro: trasparenti ma micidiali, dritti dritti verso quei giovani... Già loro si immaginavano di finire così, loro che pur con la guerra non c'entravano affatto! E la loro lingua! Come era terribile a udirsi... Il francese non poteva che sottomettersi.
Quei ragazzi erano un coro ma un coro senza voce è un ginnasta senza gambe o, meglio, un cuore senza battito.
Quel silenzio li faceva crescere, faceva capire loro che non era più tempo per la musica. Geràrd non era più lì, chissà dove l'avevano portato.
Il pianoforte era chiuso a chiave, dai vetri filtrava un timidissimo frastaglio di luce rosata: si sentivano a casa. Quella solennità faceva parte del loro animo.
Ma quel silenzio, che era durato un'immensità, venne frantumato all'istante. "Stoppen!" urlò una voce rauca e stanca.
Erano arrivati.
Il colmo era quello di gridare di fermarsi proprio quando i coristi erano immobili dalle tre e tredici del pomeriggio.
Erano le cinque e trentacinque: tra poco il sole sarebbe tramontato e l'atmosfera sarebbe stata ancora più gotica, più mistica. I genitori li aspettavano a casa ma sapevano essere pronti all'imprevedibilità dei fatti che la guerra comportava. Forse ormai non si aspettavano più nulla.
In ogni caso erano lì, quegli ufficiali, con aria grave e vestiti completamente di nero. Era così strano! Già, perché anche i coristi erano vestiti rigorosamente di quel nero di cui si dipinge la notte d'agosto.
"Stoppen!" ripeté una delle figure, cercando di darsi un'aria perlomeno un po' risoluta.
In realtà non sapeva cosa dire. Non vedevano ancora nessuno, i volti non si erano ancora incontrati.
L'abside era nascosta, un po' sopra la cripta che i coristi esploravano ogni domenica dopo aver cantato durante la santa Messa.
I passi risuonavano agghiaccianti, i tacchetti nazisti tintinnavano in una nuova, sconosciuta canzone.
I ragazzi non riuscivano a respirare. Charles era biondo ma con gli occhi marroni, curiosi della vita: non avrebbe voluto esser biondo come loro ma non poteva decidere il proprio aspetto, almeno non in tempo di guerra. Si ritenne stupido, a pensare una cosa del genere.
Se li trovarono in poco davanti ma non volevano temere: loro erano lì per ribellarsi in nome di Geràrd, che per quattro anni e quindici giorni li aveva diretti.
I loro occhi urlavano più di quanto le loro voci avrebbero potuto fare, erano pallidi e immobili: soprani, contralti, tenori e bassi, ognuno con una voce in petto incapace di esprimersi proprio in quel momento.
Stavano lì e li guardavano senza dire una parola. Rimanevano schierati nel loro ordine di sempre e, se li avessero per sempre portati via, sarebbe stato giusto, così come doveva essere.
Gli agenti erano tre, dietro di loro poi arrivò il quarto, arrancando goffamente un po' per la stanchezza.
La guerra stava distruggendo anche loro e loro ne erano totalmente ignari.
Erano quattro allora, quattro come le sezioni corali. Avrebbero potuto strattonarli, portarli via, in quattro ce l'avrebbero fatta ma non lo fecero. Non lo fecero perché nei loro occhi leggevano che non si sarebbero minimamente opposti, non avrebbero resistito affatto. E allora, se lo scopo dei tedeschi era quello di farli soffrire e se loro non avessero mostrato sofferenza, portarli via non sarebbe stato d'alcuna efficacia. Li guardarono a lungo, li osservavano. Non erano sospetti. Erano giovani: cosa avrebbero potuto sospettare di loro?
L'abside stava calando in un'inquieta oscurità.
Allora uno degli ufficiali ebbe un'idea che gli parve grandiosa: ordinò loro di cantare.
I coristi non se l'aspettavano. Non se l'aspettavano proprio. Rimasero immobili. Jacques scoppiò quasi a piangere ma dovette trattenersi a causa della circostanza. Per lui era un oltraggio.
Non avevano direttore, neppure un pianoforte da cui prendere la nota giusta. Erano soli, davanti ai tedeschi.
Sapevano canzoni in francese, in onore della patria e dei sogni di vittoria... Illusori, poi, più di sempre in quel momento.
L'ufficiale ordinò di nuovo di cantare ma non con voce cattiva o arrabbiata: la sua voce era stanca e malinconica.
Forse anche lui, in cuor suo, sognava la pace.
Clarisse, la prima della fila dei soprani, intonò un SOL.
La sua voce non tremava ma non esprimeva nulla: piatta e senza passione, fredda ed indistinta. Così gli altri capirono il suo intento.
Jean intonò un DO, basso e scuro come la notte ma sicuro di sè.
Jacques prese un MI e lo sostenne senza respirare, come era scorretto fare.
Alexis scelse un FA e lo modellò a suo piacimento.
Allora uno dopo l'altro si seguirono a vicenda: ognuno prese una nota diversa, respiravano a turno.
Ne venne fuori qualcosa di inaccettabile per chi sa un minimo di musica ma il bello fu che gli ufficiali non ne sapevano nulla. Pensavano fosse una canzone mentre loro non avevano cantato davvero nulla: note prese a caso, senza direzione e non avrebbero smesso.
Come l'acustica voleva che fosse, il suono ben s'espandeva ovunque. Gli ufficiali rimasero senza parole: quella strana canzone sembrava non aver fine.
Se ne andarono mentre loro continuavano a seguire la loro assurda miriade di note. Li lasciarono lì. Probabilmente fu proprio Clarisse a salvarli, intonando per prima quella nota.
Non lo seppero mai. Cantarono per mezz'ora quelle note, per assicurarsi che gli ufficiali fossero lontani, poi diminuirono fino a smettere.
Rimasero lì in piedi zitti fino alle nove di sera e poi uscirono piano. La luna illuminò improvvisamente qualcosa di indistinto a pochi passi dall'ingresso dell'abbazia.
Era Geràrd, steso a terra.
Non piansero: non potevano permetterselo.
Piuttosto si presero le mani e gli si schierarono davanti. Volevano proteggere la loro guida, il loro modello, il loro punto di forza, colui che aveva permesso loro per la prima volta di cantare insieme, di essere un coro vero e proprio. Chinarono gli sguardi verso il suolo.
Il volto di Geràrd non era bagnato da nessuna lacrima: pallido, coraggioso, freddo come solo la guerra sa essere.
Allora iniziarono a cantare. Una canzone in francese, in francese davvero, senza paura.
La cantarono piano ma con orgoglio, sussurrando con rispetto, come non volessero svegliarlo per l'ultima volta.
Poi si tolsero i cappotti, senza guardarsi in volto, i loro cappotti di panno neri che li distinguevano da sempre e con quelli coprirono Geràrd. Poi ritornarono nell'abbazia per un attimo: presero in tre in braccio il suo corpo e lo adagiarono lì, dove era solito porsi per dirigere il coro.
E poi se ne andarono, per sempre, questa volta davvero.
Prima che tornassero gli ufficiali, prima che li scorgesse qualcuno da lontano, si dileguarono in silenzio nella notte. Iniziava a piovigginare e per una volta ne furono sollevati: potevano piangere senza destare sospetti, potevano essere chi erano davvero senza far caso all'orrore della guerra.
Non sarebbero più stati un coro. Forse si sarebbero rivisti per strada ma in silenzio avevano deciso così: non potevano cantare ancora.
Magari un giorno ci avrebbero ripensato.
Magari un giorno sarebbe stata proprio la musica a riunirli ancora. Ma chissà dove, chissà quando. In quel silenzio, non potevano decidere proprio nulla.
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