3. CHARLOTTE

La relazione con Charlotte non s'interruppe quella notte. Il suo appartamento divenne presto il nostro nido d'amore. Mi piaceva quell'alloggio dalle stanze grandi e fresche. Un posto in cui ogni cosa era lecita. Passavamo le ore sdraiate sui morbidi tappeti. Oppure al grande pianoforte nero della sala principale. Charlotte suonava, seduta sulla panchetta, le gambe accavallate, una sigaretta tra le labbra. Io la osservavo, rannicchiata accanto a lei. Scoprii che aveva studiato musica e che un giorno sognava di suonare nelle più belle città d'Europa.

Mi interrogai spesso in quel periodo sul mio rapporto con lei. Si trattava di amore? Oppure era solo un modo per dimenticare Kevin? Tutt'oggi non saprei dirlo. Quello che mi legava a Charlotte era più di un'amicizia, ma non riuscivo proprio a considerarlo amore vero. Non sapevo neppure nulla riguardo a quello che provava lei per me. Forse ero solo un divertimento, probabilmente ne aveva avute altre prima. Magari aveva come oscuro desiderio quello di traviare una fanciulla. Oppure, come diceva lei, era l'unica cosa che le avesse lasciato la madre prima di venire rinchiusa in manicomio, colpevole di amare una donna. Il padre, uomo ricco e privo di scrupoli, si era risposato dopo poco. Non che padre e figlia non andassero d'accordo, aveva più volte precisato Charlotte, solo che per loro era meglio non parlarsi, tutto qua.


-Ci sono rapporti basati sulla parola e altri sul silenzio- diceva ogni volta.


La maggior parte del tempo però io e Charlotte non discutevamo, non avevamo molto da dirci a onor del vero. Avevamo poche cose in comune a parte la nostra relazione. Lei era una donna moderna e come tale ragionava, io non mi sarei mai nemmeno sognata di girare nuda per casa come faceva lei.


-Le donne dell'antichità vestivano così, con solo la loro pelle- si difendeva lei.


Charlotte fumava, beveva e imprecava, non aveva nessuna remora nemmeno nell'evocare gli spiriti.


-Mai usata una tavoletta Ouija?- mi chiese una volta, le labbra rosse piegate in un sorriso.


Io scossi la testa, non sapendo neppure di che cosa si trattasse.


-Ecco perché mi piaci- rise –sei così pura e ingenua-


Mi mostrò così come si usava la tavoletta.


-Funziona davvero?- domandai.


-Possiamo fare una prova-


Indugiai. La vecchia Jennifer, la studentessa modello, quella che esisteva prima di incontrare Kevin a quella sciagurata festa, avrebbe rifiutato. Non si scherza con certe cose. Ma quello era il passato.


-Proviamo- dissi.


Charlotte sorrise soddisfatta. Guidò le mie mani sul puntatore della tavoletta e parlò in una strana lingua. Quello che seguì non so se fu reale oppure frutto della mia fantasia. Una figura pallida si levò dalla tavola, come se prima stesse dormendo e poi si fosse risvegliata. Guardò entrambe con occhi assonnati. Sembrava il volto di una donna, con lunghi capelli in disordine e lineamenti sottili.


-Dimmi il tuo nome- ordinò la mia amica, le mani fresche e ferme posizionate sopra le mie sudate e tremanti.


La freccia della tavola si mosse fino a comporre un nome. Susan Grace, morta a Berlino durante la Seconda Guerra Mondiale. Indagando ancora venne fuori che era vissuta proprio in quella casa, era la figlia di un uomo molto ricco, d'origine francese. Quando però Charlotte le chiese come morì lei si limitò a scuotere la testa e allora potemmo vedere un profondo solco all'altezza della gola, prima nascosto dai lunghi capelli. Non servivano altre domande. La donna fu congedata subito, con un gesto.


-Mai insistere quando non vogliono parlare- Charlotte si alzò e mi venne incontro –se si arrabbiano possono fare ancora molto male-


-Sono pericolosi?-


-Alcuni di loro sì- si sedette sulle mie gambe –la maggior parte però non lo è, cercano solo qualcuno a cui confidare la loro storia, vogliono sentirsi vivi, proprio come noi- e si piegò per baciarmi, le mani che risalivano sotto la mia camicetta, il suo profumo che invadeva l'aria. Fragola. E io mi sentivo più viva che mai sotto il suo tocco.



Evocammo altri spiriti, anzi, la cosa divenne un appuntamento giornaliero per noi, un ulteriore gioco proibito, proprio come la nostra relazione. A Charlotte piaceva scandalizzare i benpensanti, proprio come a Kevin. E io ero una pedina nelle sue mani, proprio come la ero stata tra quelle del primo. Mi sentivo frustrata e fuori posto a volte. Una sensazione d'inadeguatezza. Io mi sentivo... poco pulita, ecco, come se avessi perso la purezza che mio padre aveva sempre elogiato in me, come se fossi sbagliata, nonostante questo non riuscivo proprio a rinunciare a Charlotte, esattamente come non ero riuscita a rinunciare a Kevin, nonostante anche lui mi avesse fatta sentire nello stesso modo. Avevo letto qualcosa su un comportamento del genere, in un libro, all'università. Impotenza appresa[1], ecco come si chiamava, l'impossibilità di uscire da una situazione di malessere perché in situazioni precedenti non si aveva avuto la possibilità di farlo. Forse questo derivava dal fatto che da bambina ero sempre stata presa in giro dalle mie compagne di corso e non ero mai riuscita a ribellarmi a loro.

I Baccanali si susseguivano. Uno ogni paio di giorni. Sfrecciavamo sull'auto di Charlotte, i capelli al vento, le risate sulle labbra, il pensiero della libertà che ci rendeva euforiche. Il mondo tremava, temeva la sua fine. Noi vivevamo.

Entrai a far parte delle Baccanti come adepta, il viso coperto da un velo. Percorsi un sentiero a occhi chiusi, il cuore schizzato in gola. Non ero mai stata così presa da qualcosa. Fu Charlotte a incoronarmi con dell'uva.

-Ora sei una Baccante- mi baciò sul mento. -Nulla potrà cambiarlo nulla-

Fu lei che mi mostrò la grotta dove si svolgevano parte dei riti. -Non tutte possono entrare qui dentro- la sua mano stringeva la mia, il pollice che mi accarezzava il dorso. Era una sensazione dolce. Strana. Kevin non era mai stato così tenero. -È un posto speciale- mi abbracciò da dietro, la sua bocca che affondava nel mio collo.

-Sono felice che tu voglia condividerlo con me- ed ero sincera. Mi piaceva stare con lei. La sensazione del suo corpo contro il mio mi provocava un brivido.

-Non desidero altro che la tua gioia-

Prendemmo l'abitudine di camminare nella grotta per stare sole. Charlotte ne approfittava per raccontare qualcosa. Che fossero informazioni personali o di cultura generale non aveva importanza. La sua voce rimbombava tra quelle pareti e io l'ascoltavo. Non potevo farne a meno. Come non potevo non pensare a Kevin. A quanto lui e Charlotte si somigliassero. A quanto la desiderassi. A quanto questo sarebbe stato giudicato sbagliato.

I miei zii notarono il mio cambiamento. Ero distratta, stavo spesso fuori, parlavo di Charlotte ogni volta che ne avevo l'occasione. Un'amica, ecco come la presentavo. Non so se loro mi credevano. Non m'importava. Non avrei rinunciato a lei.

Mia zia conosceva suo padre. -Un uomo molto distinto- dichiarò -in giro dicono che non vada d'accordo con la figlia-

-Sì?- finsi che non fosse importante. Che Charlotte fosse un'amica qualsiasi, non la più importante. Non più di un'amica. Non un pezzo del mio cuore.

-Sì, ma chi lo sa, la gente parla sempre- sospirò. -Mi fa piacere che tu abbia un'amica-

Io le sorrisi. Se solo avesse saputo...

Avrebbe accettato? O mi avrebbe allontanata? Avrei voluto confidarmi con lei. Non lo feci. Non volevo parlare di Charlotte. Lei era me. Non potevo parlarne. Temevo che mi avrebbero allontanata da lei. Non ne sarei sopravvissuta.


NOTE:

[1] Il primo a parlare dell'impotenza appresa è Seligman negli anni 70. Lo studioso nota che i cani posti in gabbie dalle quali non potevano uscire quando ricevevano una scossa elettrica tendevano a restare immobili anche quando la gabbia veniva loro aperta e c'era la possibilità di evitare la scossa. Questo spiega perché alcune persone mostrano comportamenti passivi anche in situazioni in cui si trovano a disagio.


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