1. BERLINO
1984
Lasciai cadere le valigie appena oltre alla porta di quella che sarebbe diventata la mia nuova camera. I miei zii erano stati gentili, mi avevano lasciato la stanza migliore, quella con il letto più ampio e il mobile più spazioso. Le pareti di un rosa pallido erano illuminate dalla luce del sole. Mi avvicinai alla finestra e guardai fuori. Le vie di Berlino in quel caldo pomeriggio di maggio erano deserte, tanto che ebbi l'impressione di trovarmi in una città fantasma.
-Se hai bisogno di qualcosa, Jenny, chiedi pure- esclamò mia zia e potei sentire il suo accento tedesco. Guardandola non potevo non capire perché mio zio, soldato americano, si fosse innamorato di quella bella ragazza europea quando era stato mandato a Berlino Ovest per ordine dei suoi superiori. Inutile dire che non era più tornato a casa.
-Grazie per la cortesia, ma non penso di aver bisogno di nulla-
-Come credi- e mia zia uscì, slanciata e sicura sui suoi tacchi a spillo.
Il viaggio in Europa era stata una decisione presa all'improvviso, un modo per dimenticare quello che mi era successo. Non che questo potesse cancellare l'evento. Tornai indietro e posai la valigia su una sedia per riuscire a disfarla. Appena l'aprii mi finì tra le mani la foto che aveva scattato John pochi giorni prima che partissi. L'osservai. Prima la stanza misera, l'appartamentino da artista in cui un ricco rampollo si divertiva a passare il tempo, le pareti gialle illuminate dal sole del tramonto. Lo sguardo mi si posò su Kevin, seduto sul letto in ferro battuto, nudo, che dava la schiena all'osservatore, intento a fumare l'ennesima sigaretta. Il mio cuore sussultò fissando i riccioli castani scompigliati e i due nei che aveva sulla schiena, uno strano contrasto sulla sua pelle chiara. Infine mi costrinsi a fissare l'altra figura nella foto. Sdraiata sul letto io lo scrutavo con sguardo torvo. Era stato poco dopo l'irreparabile. Mi morsi le labbra mentre guardavo la fedina dorata che Kevin mi aveva regalato solo qualche giorno prima e l'orologio che si era fermato quando lui mi aveva sbattuta contro il muro. Avevo una maglia posata sul corpo, un gesto di cortesia da parte di John prima di scattare la foto, anche perché in quel momento io ero troppo depressa per riuscire a fare qualsiasi cosa.
-Mi dispiace, Jenny, ma le nostre strade si devono separare- mi aveva detto Kevin senza mezzi termini dopo aver preso il mio fiore più prezioso.
Capovolsi la foto e la infilai dentro un cassetto, decisa a non guardarla più, ben sapendo che stavo mentendo a me stessa. Sul retro c'era una frase scritta con la lunga calligrafia di John.
Sei bellissima e questa foto ne è la testimonianza.
Non ci credevo. Kevin mi aveva detto la stessa cosa per convincermi a posare nuda. Ora una foto di me sdraiata sul letto senza veli, una sigaretta tra le labbra, faceva bella mostra sulla sua scrivania. L'aria mi mancò. Inspirai a fondo. L'aria continuò a mancarmi. Decisi di uscire. Forse passeggiare tra le vie di Berlino mi avrebbe aiutata.
Dal punto in cui ero potevo vedere in lontananza il muro che divideva a metà la città. Non lo avevo mai immaginato così grande. Per evitare il senso di tristezza che mi trasmetteva decisi di evitarlo e m'incamminai dalla parte opposta. L'aria calda mi accarezzò il viso e mi portò indietro. Il ricordo delle passeggiate insieme a Kevin per le strade di Los Angel, aggrappata al suo braccio, lui ricco rampollo di una nobile famiglia che si dilettava a fare l'artista, io figlia di borghesi educata a non vedere il morto in salotto, mi colpì come un pugno. Una coppia che aveva fatto storcere il naso a tutti quelli che ci avevano conosciuti, ma a Kevin piaceva portare scompiglio e a volte pensavo che mi frequentasse solo per quel motivo.
Ci eravamo incontrati a una festa tra studenti universitari. Lui mi era stato presentato come un caro amico della mia compagna di stanza, ma non ci avevo messo molto a comprendere che i due non erano stati legati solo da un rapporto di casta fratellanza. Kevin non conosceva l'amicizia con le donne, per lui esisteva solo la carnalità.
La passione tra di noi era stata immediata e ci eravamo ritrovati a baciarci sul balcone dell'abitazione. Io mi ero scusata sostenendo che non ero così.
-Sono il primo, eh?- mi aveva chiesto, allontanando la sigaretta dalle sue labbra carnose.
Io, complice l'alcol, ero scoppiata a ridere. –E questo è un problema?-
-Al contrario, mi piace profanare il sacro-
Fin da bambina mi ero sempre considerata sbagliata, come se ci fosse stato qualcosa in me che non andava bene, che dovevo nascondere. Avevo fuggito tutta la vita ciò che era sbagliato, certa che se non fossi scappata ne sarei stata risucchiata. E poi era arrivato Kevin e avevo amato il mio errore, nonostante lui spesso mi facesse sentire frustrata, impura, macchiata. Non potevo fare a meno di lui, ne ero inebriata, dipendente, succube.
L'insegna al neon di un bar attirò la mia attenzione, dando fine al flusso dei miei pensieri. Avevo proprio voglia di bere qualcosa. Entrai. Il locale era piccolo, ma non nel senso di confortevole, con due tavolini e un bancone dietro al quale stava una signora dai riccioli grigi e dal grembiule giallo. Una ragazza dai capelli neri sorseggiava tranquillamente un liquido bronzeo a uno dei tavolini. Alzò subito lo sguardo su di me. Aveva occhi così azzurri che mi parvero degli zaffiri. Mi sorrise mostrando denti candidi circondati da labbra rossissime. Una stretta si avvolse il cuore. Rovi di spine. Ripensai a quando Kevin si era accorto di quello che chiamava "il mio piccolo vizio". Il fatto che, fin da ragazzina, sentissi una strana attrazione per alcune donne. Era sempre stato imbarazzante.
-Questo non fa che renderti ancora più interessante- mi aveva sussurrato Kevin. E io ci avevo creduto. Avevo baciato una sua amica davanti a lui per compiacerlo. Scacciai il pensiero. Lui non aveva mai capito che non erano le donne in sé a interessarmi e neppure gli uomini. Era qualcosa che si trovava in una determinata persona piuttosto che in un'altra ad attirarmi. Non sapevo come definirlo. Possibile che fossi sbagliata?
-Un caffè - dissi alla barista e andai al tavolino libero.
-Puoi sederti qui- la ragazza parlò con un forte accento francese e indicò la sedia vuota al suo fianco.
Sorpresa, e non sapendo come declinare l'offerta, mi accomodai accanto a lei. Fui subito avvolta dal suo profumo. Fragola. Era buonissimo.
-Sei americana?-
-Si capisce così tanto?- mi passai una mano tra i capelli -Sono ospite dei miei zii-
-Di dove?- sorseggiò la sua bevanda. Indossava un abito rosso con disegni neri.
- Los Angeles -
La ragazza annuì. –Deve essere un bel posto- si tirò indietro i capelli e potei vedere che aveva un tatuaggio sul polso, dettaglio che le dava qualcosa di esotico, piratesco, come se fosse appena giunta da un qualche luogo lontano.
-Sopravvalutato- mormorai.
-Nemmeno io sono di qua, l'avrai capito dall'accento-
-Francese?- chiesi io.
-Esatto, della Provenza, sono qui a causa del lavoro di mio padre- sbuffò, come se quel discorso l'annoiasse –Vai all'università?-
Annuii. –Storia- evitai di pensare a quello che Kevin diceva degli studenti di storia.
-Una storica- la ragazza rise. Una risata leggera come la pioggia estiva.
Proprio in quel momento arrivò la signora con il caffè. Zoppicava leggermente. Feci per pagarle il conto ma la ragazza mi precedette.
-Offro io, metti tutto sul mio conto-
La signora senza dire nulla si voltò e tornò alla cassa.
-Non posso permetterti di pagare- dissi io, sorpresa.
-Non sarai una di quelle borghesi chiuse nelle loro idee conservatrici?-
Mi sentii avvampare. –Io ... -
-Comunque se mi vuoi fare un favore puoi accompagnarmi a una festa domani sera-
-Io... non so se posso-
-Oh, è solo una festa- estrasse il rossetto dalla sua borsetta e scrisse un indirizzo su un tovagliolo – non dista molto da qua, ti aspetto domani sera alle dieci- si alzò, la sedia che strisciava contro il pavimento nero –non farmi aspettare- fece per andare verso l'uscita poi si voltò ancora una volta verso di me, buttando indietro la chioma corvina –comunque io sono Charlotte – e sparì nelle strade berlinesi. Io rimasi ferma, Incredula, con in mano il tovagliolo e nell'aria il suo profumo.
Non potevo negare che l'invito alla festa mi incuriosisse, ma pensare di accettare era impossibile. Prima di tutto non conoscevo nulla di questa Charlotte, per quanto ne sapevo poteva benissimo essere un'assassina. E poi non avevo proprio voglia di festeggiare. A cena mangiai poco e mi ritirai presto nella mia stanza, accusando un finto mal di testa. Ero stufa di sentire i discorsi di mio zio sulle storie che circolavano sulla Berlino oltre il muro. Mi sdraiai sul letto in camicia da notte e cercai di concentrarmi sulla lettura di un libro. Fu inutile. Presa da un desiderio masochistico aprii il cassetto del comodino ed estrassi l'ultima foto di me e di Kevin. Accarezzai con lo sguardo il corpo di lui, stringendo i denti per la nostalgia, osservai la stanza spoglia, cercando di non posare lo sguardo su di me, pallida e patetica. Sulla parete si vedeva appesa una fotografia: Kevin con una sigaretta in bocca, la sua posa preferita. Chissà dov'era, chissà cosa stava facendo, chissà la foto di quale ragazza aveva preso il posto della mia sulla sua scrivania. Decisi in quel momento che sarei andata alla festa.
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