#28

BODIES

James si infilò le Jordan ai piedi. Preferì non prendere la macchina: se gli si fosse insinuato il capriccio di bere, non sarebbe riuscito a contenersi tanto agevolmente. Si diresse verso l'appartamento degli skater, nonostante il tempo meteorologico impedisse una camminata piacevole e tranquilla. Folate di vento strapazzavano gli alberi a bordo strada e torrentelli grigiastri scivolavano lungo i marciapiedi. Un acquazzone in piena regola stava investendo con veemenza la città. Schivò delle cartacce sospinte dal vento, rannicchiato sotto al suo ombrello verde militare, che imbottendosi d'acqua si appesantiva. Non era del giusto umore per andare a una festa. Il tarlo fisso dell'immagine di sua madre che invocava disperata il suicidio gli rosicchiava dolorosamente le meningi. Sarebbe rimasto volentieri a letto ad affondare la faccia sfibrata nel cuscino, ma aveva già dato agli amici la conferma di esserci e gli pareva male disdire all'ultimo momento.

James si districò tra un arcipelago di pozzanghere. Aveva un nodo alla gola e sequenze indistinte gli annebbiavano la vista. Non era in grado di pensare lucidamente. Non aveva idea di come si sarebbe comportato alla festa, e men che meno gli interessava stabilirlo. Solo una cosa si impose: niente droghe. L'uso di cocaina stava diventando un'irrefrenabile dipendenza. Bisognava iniziare prima o poi a lasciarsela alle spalle, e ci avrebbe provato già quella sera.

Suonò al campanello del condominio. Dal citofono gli rispose Henry. «Sei venuto alla fine, eh? Grande James!», e dopo un rutto, aggiunse: «La festa è già cominciata e ci stiamo spaccando, vieni su!» James varcò il cancelletto. Non prometteva bene, per niente. L'atmosfera lassù sembrava alle stelle, si intuiva dal tono scanzonato di Henry. Chiuse l'ombrello, si riparò sotto la tettoria per dei secondi e poi spinse la porta d'ingresso della palazzina. Quando si accinse ad imboccare la scalinata tinteggiata di giallo tenue che portava ai piani superiori, ripeté a sé stesso: "Va bene tutto, ma solo una cosa: no droghe. Forza, ce la posso fare".

La musica diventava più alta mano a mano che si inerpicava su per le scale: punk rock, rock & roll e pop punk goliardico. Come facevano i vicini a non lamentarsi? Erano forse abituati a quel baccano e ai continui party? James raggiunse il pianerottolo del penultimo piano e non fece in tempo a farsi avanti verso la porta dell'appartamento che questa si dischiuse all'improvviso. Dallo spiraglio tra essa e la parete sbucò la faccia di William, cerea e disfatta. Nonostante le condizioni debilitanti, l'amico lo incitò euforico: «Cos'è quell'espressione mesta?! Su con la vita, fratellooo!» Lo tirò per il braccio trascinandolo all'interno. Appena dentro, James spostò lo sguardo da sinistra a destra per inquadrare meglio il luogo in cui si trovava. Era in un soggiorno, occupato da un sofà etnico scalfito in alcuni punti della fodera e da un lungo mobile con su di esso una tv scassata. Sul divano erano seduti Anthony e due ragazze, intente a chiacchierare con lui. Un impianto hi-fi, gracchiante e con parecchi anni sul gruppone, emetteva le canzoni che animavano la festa. I balconi delle finestre erano chiusi e una luce malaticcia e stagnante si diffondeva per l'ambiente. Henry gli si parò davanti e lo accolse calorosamente, scortato da un tizio mai visto e da un'ammaliante tipa dai capelli bruni. Lo condusse fino alla piccola sala da pranzo, nella quale su un tavolo erano disposti in ordine i bicchieri per le partite di beer pong. Noah stava giocando da solo contro altre due ragazze, le quali strillavano galvanizzate ogni volta che la pallina da ping pong centrava il bersaglio. «Ei James...finalmente ci ribecchiamo.» Noah si prese una pausa dal gioco per stringergli la mano. «Loro sono delle amiche: Shanti e Mei.»

James venne rapito dalla seconda. Mei era asiatica, magra e slanciata, e portava i capelli a caschetto. Generalmente i lineamenti orientali non lo colpivano, ma lei era davvero particolare. Un tatuaggio sulla schiena, che risaltava tra lo spacco del tubino nero, e l'anello del nostril sul nasino pungolavano la sua immaginazione. "Ci proverei volentieri", confermò a sé stesso. Il match di beer pong riprese, tra i lanci fuori misura dei giocatori e le occhiate piacenti ed evasive di Mei verso la sua direzione.

James si trastullava compiaciuto fantasticando sui possibili esiti che avrebbe potuto prendere la serata quand'ecco che Henry gli disse di seguirlo fino al frigo. Spalancato lo sportello, si spianò davanti ai suoi occhi l'abbondanza alcolica in esso conservata: lattine di birre, bottiglie di vino e di superalcolici e bibite da miscelare per i drink. «Qui non si scherza mica, eh James?!», Henry ridacchiò rifilandogli un cazzotto amichevole sulla spalla.

James si sporse in avanti e prese uno spumante. Lo stappò e, al rumore del tappo che schizzava su, le urla festanti degli altri partecipanti alla festa risuonarono per l'appartamento. Fece un lungo sorso a canna, poi lo passò ad Henry che ci si attaccò. Tutto quell'alcol gli faceva gola. Si sarebbe ubriacato, era inevitabile. "Cazzo James, ci risiamo...", pensò senza soffermarcisi a lungo.

Concluso l'incontro di beer pong, approfittò dell'assenza temporanea di giocatori per sfidare Mei. La partita non gli interessava, fungeva soltanto da pretesto per conversare con lei e tentare un approccio.

Al primo tiro James spedì la pallina a metri di distanza dal tavolo di gioco. Mei fece una battuta sulla sua pessima mira. Lui stette al gioco e agguantò nel mentre un drink lasciato incustodito, che si rivelò essere un intruglio stomachevole tanto era dolce. Ogni minuto che passava si sentiva sempre più disinibito, aspetto che si rifletteva sulla sua parlata, briosa e senza filtri. Anche Mei non ci andava giù piano nel bere. La ragazza asiatica fece centro e, shottata la birra contenuta nel bicchiere, sghignazzò smaliziata: «Sappi che io reggo bene... te lo dimostrerò». Le sue guance erano arrossate.

Appena il gioco rallentò, James si guardò intorno stralunato. Henry e la bruna stavano limonando. Lei era sopra di lui a cavalcioni, Henry le affondava i polpastrelli nel culo sodo. Anthony invece stava ballando in soggiorno, gli occhi socchiusi, abbracciato avidamente alle due ragazze che si muovevano sinuose. "Sarà fatto come un cavallo", pensò. Gesticolava più lentamente e la mente gli si stava intorpidendo, come se in testa gli si fossero accampate delle nubi di vapore. Mei appoggiò la racchetta sul tavolo. «Ho caldo e mi son rotta di giocare. Senti, ti va di venire a prendere una boccata d'aria fuori?»

Uscirono da soli, abbandonarono la luce per catapultarsi sotto al cielo buio e annuvolato. Il pavimento bagnato dello stretto terrazzino manifestava i postumi della burrasca di qualche ora prima. Un vaso di fiori smorti se ne stava rovesciato, accerchiato dal suo terriccio. James si accese una sigaretta, chiudendo la mano a coppa per impedire che il vento da vero guastafeste potesse intromettersi.

«Vuoi?», ne porse una a Mei.

«Uh, anche io normalmente fumo le Winston... siamo simili, non trovi?», commentò lei ammiccante. Si mise la sigaretta in bocca. «Ho perso il Clipper, riusciresti ad accendermela?»

James approfittò della richiesta per cingere i fianchi di Mei con un braccio. Lei non si discostò, anzi si strinse più vicina. I suoi capelli lisci gli carezzarono il collo.

Qualche minuto dopo si stavano baciando in bagno.

James premette il petto contro il seno di Mei, mentre le loro lingue guizzavano umidicce come anguille. Lei gli pizzicò la schiena con le unghie lunghe, lui spostò la mano dalle cosce in direzione delle sue parti intime. La sua sensibilità tattile era ovattata, palpeggiava la pelle di Mei ma la percepiva distaccata e quasi estranea. Era ubriaco.

Mei, appoggiata al lavandino del bagno, facilitò la sua azione sollevando una gamba. James la sostenne prontamente, poi fece scorrere la mano dentro le sue mutandine e iniziò a masturbarla con l'indice. Quando le passò sopra al clitoride, lei gli alitò sul collo: «S-si... continua, ohhh». Introdusse il dito medio nella vagina e Mei riprese a baciarlo con foga. Non appena lei gli appoggiò il palmo della mano sulla sua erezione, un tonfo alla porta del bagno lo colse di sorpresa. Qualcuno era andato a sbatterci. James si fermò. «Chi cazzo è?!!!», si imbufalì.

"Qualcuno ha proprio voglia di rompere i coglioni, pessimo tempismo."

Si pulì frettolosamente il dito sulla maglietta e spinse la porta, che dava direttamente sul salotto. Ai suoi piedi c'era William, franato al suolo dopo essersi abbattuto sulla porta come un Tomcat da caccia. "Ci credo che è caduto, cazzo... guarda come sta." William non si alzò e rimase a terra sbiascicando. Il suo corpo era floscio come una gelatina. James si trovò addosso gli sguardi stupiti degli altri invitati, che stavano ballando in soggiorno davanti all'impianto. Si arrestò imbarazzato. Avrebbe voluto scomparire con uno schiocco di dita. Mei uscì dal bagno, lo aggirò e superò il corpo dello skater, scocciata. Henry schiamazzò facendosi sentire da tutti: «Grande James, colpo grosso!», prima di far scattare il capo a destra e a sinistra a ritmo di musica. James si mosse in avanti e si immerse tra gli altri. La stanza iniziava a ruotare attorno a lui e i volti a divenire sfocati. Anthony lo costrinse a tracannare un sorso direttamente da una bottiglia di vodka. «Sta facendo il giro, e tu mancavi!», squittì. Noah fumava una canna sdraiato sul divano. Era più rilassato rispetto agli altri, che facevano casino e urlavano sfrenati i testi delle canzoni in riproduzione.

James realizzò che aveva bisogno di prendersi una pausa. Si sedette, facendosi spazio vicino a Noah. Gli pulsavano i timpani e si immaginò il movimento della membrana di una medusa, che si allarga e si chiude mentre avanza in acqua. Una sensazione di malessere colpì il suo stomaco.

«Erba che spacca... è quella che mi hai venduto tempo fa, James. La conservo per le occasioni migliori.» Noah parlava senza sincerarsi che lui stesse davvero ascoltando, boccheggiando il fumo verso l'alto. «Vuoi un tiro?»

James rifiutò. Di fronte a lui la festa stava degenerando. Anthony limonava duro con una delle due ragazze e con un movimento circolare della mano le massaggiava il seno. La sua t-shirt Supreme era chiazzata di vino. Sul tavolino del soggiorno Henry aveva steso delle righe di coca, sulle quali si fiondò come un avvoltoio il ragazzo dell'ingresso. «Eiei, queste son per tutti...vacci piano!», Henry gli intimò burbero. La ragazza bruna con lui si portava alla bocca una pasticca.

James era frastornato. La sua condizione psichica stava degenerando. Era stanco fisicamente e stanco di quella vita. Si asciugò il sudore sulla fronte e risollevò la testa, che tendeva ad affondare in basso ogni qualvolta chiudeva gli occhi. Partì in sottofondo "Bodies". Le chitarre distorte e impazzite gli rimbombarono nelle orecchie, la voce schizzata di Sid Vicious lacerava la cappa di caldo dell'appartamento. «Mommy, mommy, mommy, I'm an abortion». Un conato gli salì fino in gola. Si sporse lateralmente al di fuori del divano e rigurgitò. Una pozzanghera acida e alcolica si espanse sul pavimento. Era una liberazione, nel rancido rigetto galleggiava il cumulo di spazzatura depositata da tempo nel suo organismo. «Già a vomitareee, James?!» Strillò Henry. «Su, vieni a farti una striscia che ti riprendi!»

James non gli diede retta. Voleva solo allontanarsi da quello schifo il prima possibile. Bofonchiò con la bocca impastata qualcosa di simile a un lamento, si alzò a fatica e ciondolando si allungò verso la porta. «S-scusat-te... io d-devo andaare.» Nessuno si accorse della sua dipartita. Ed era meglio così, altrimenti avrebbero provato a fargli cambiare idea. Prima di scaraventarsi fuori, tirò un'ultima occhiata allo spettacolo pietoso che stava andando in scena. William collassato con un rivolo maleodorante che sgorgava dalla sua bocca, Henry iperattivo e dagli occhi fuori dalle orbite che si puliva le narici coperte di polvere bianca, Anthony ansimante in un angolo con il pisello tra le fauci della tipa accucciatagli di fronte. James si gettò fuori. Chiuse la porta senza sbatterla e scese le scale, sostenendosi sul corrimano per non cadere. Al piano terra inciampò su un portaombrelli, si rovesciò in avanti e sbatté il gomito. Una fitta di dolore gli scalò tutto il braccio. Soffrendo in silenzio, stette lì. La sua guancia incollata al pavimento freddo. Non aveva la forza di rialzarsi per uscire dal condominio. Esalò un respiro affannoso e si girò sulla schiena. Prima di chiudere gli occhi, la sua mente si inabissò in elucubrazioni confuse.

Pensieri alla deriva

Le mie pupille ritorte verso l'alto, lo spazio aperto tra le rampe di scale che salgono su, su, su. Un soffitto leggermente ammuffito, nessun cielo stellato che mi sorride. Frame inconfondibili si incasellano uno dietro l'altro come fotografie da sviluppare, ricordi sfuggenti di quello che ero e flash fulminei di quello che sono.

È difficile spiccare in questo mondo convulso, in cui sembra vincere sempre chi ostenta di più, chi supera i limiti, chi insegue l'eccesso. No, no, cosa ho fatto?! Che uomo sono?! Mi sento il diavolo sotto mentite spoglie. Sopportare la vista delle tue lacrime è stata dura, Grace. Non voglio più vederle rigarti il volto, incidere le tue guance accompagnate dal trucco che cola svampito. Tutto questo mi fa soffrire, mi rende triste. Sto gettando via tutto ciò che di bello avevo creato, dando corda ai miei istinti distruttivi.

Respira, James. Sopporta il tormento, passerà.

Grace, Jeff. Non posso stare senza di voi, siete i miei punti fissi. Ora che vi sto perdendo me ne rendo conto. Compatitemi, anche se vi faccio stare male, anche se sono sull'orlo di un precipizio. Non voglio andare avanti con tutto questo: mi sento sporco, coperto di fango. La droga, la trasgressione, i rapporti personali che mi guastano... dev'esserci qualcosa di più sano. Forse siete proprio voi. Il resto sono "bad vibes". Solo maledette "bad vibes".

Un ponte levatoio di un castello medievale viene issato su da robuste catene e il sonno inghiotte le mie paure.

James

METAL SLUG

Mark strizzò le palpebre. Nella sala giochi c'era solo lui. I rumori elettronici e frastornanti dei flipper e dei cabinati si accavallavano l'uno sull'altro, mentre la luce violacea lo avvolgeva tiepida. Introdusse la moneta nella macchina arcade e premette "avvio" con uno dei pulsanti colorati. L'ometto armato di "Metal Slug" iniziò la sua corsa imperterrita contro gli avversari comandati dal computer, sparando a profusione e lanciando granate che esplodevano in bagliori di fuoco.

Bob, catturato dalla polizia nella rapina alla banca, aveva cantato. L'aveva saputo dal notiziario della mattina precedente e la news l'aveva sconfortato. In cambio di uno sconto di pena il gangster aveva collaborato con le forze dell'ordine, tradendo il codice d'onore della strada. "Quanti credono davvero nella causa e quanti invece lo fanno solo per interesse personale?", si chiese. "Quell'infame ha voltato le spalle ad ogni singolo membro della gang... quando sarà fuori dalla galera non potrà sentirsi al sicuro." Presagiva un regolamento di conti. I suoi superiori non avrebbero perdonato quell'atto infimo. Sapeva anche, però, che con buona probabilità non ci sarebbe stata nemmeno la possibilità di potersi vendicare. Dalla bocca di Bob erano emersi nomi su nomi, sufficienti a incastrarli tutti quanti. Non solo la sua associazione, ma anche quella di Jacob e forse altre ancora. Quelle rivelazioni avrebbero messo fine alla guerriglia nelle strade, se la polizia fosse intervenuta a pugno duro. E ascoltando il giornalista abbronzato che dirigeva il tg, pezzato per il caldo asfissiante di quel fine agosto, aveva previsto che i porci in divisa non se ne sarebbero stati con le mani in mano. L'occasione d'oro per riportare in sicurezza zone della città ormai incontrollate e per farsi acclamare dalla gente perbene come salvatori popolari si presentava su un piatto d'argento e faceva loro sbrilluccicare gli occhi. Bara o cella, cadaveri o detenuti, erano i capolinea della triste storia che anche lui stava contribuendo a scrivere.

Mark, manovrando la levetta manuale, fece saltellare il soldato, che scaricò a profusione i colpi del suo mitragliatore.

"In pochi scapperanno... non è nella nostra natura, non siamo femminucce." Si disse. "Saremo pure incoscienti, ma preferiamo lo scontro. L'orgoglio di non abbassare mai la testa, la forza che intendiamo dimostrare prima di soccombere". Ma un'altra battaglia anticipava l'imminente resa dei conti, e poteva già risultare decisiva per il futuro della sua gang. Jacob e i suoi militanti stavano arrivando. Avrebbero attaccato con ferocia, senza più niente da perdere. All'incontro a cui aveva partecipato qualche ora prima con altri esponenti dell'associazione criminale, erano stati tutti d'accordo sul fatto che il pericoloso killer, consapevole dell'ormai inesorabile assenza di prospettive per la sua espansione, avrebbe fatto l'ultima e sconsiderata mossa per concludere da vincitore la sua avventura tra le strade.

«Balzerà all'improvviso nel ghetto, nella nostra area, per seminare morte e distruzione. Vuole raderci al suolo... e mi cercherà per non lasciare impunita la ferita che gli ho inflitto», aveva dichiarato Mark di fronte agli sguardi sfiduciati degli astanti. I volti dei suoi alleati, contratti in espressioni demoralizzate e sconfitte, in quella circostanza facevano meno paura. Tanto avevano lottato, a denti stretti e col sangue nelle orbite, per poi di punto in bianco rendersi conto che la loro vita non sarebbe più stata la stessa; che avrebbero pagato a prezzo pieno il momento in cui si erano inseriti in quella via senza uscita; che forse non avrebbero più rivisto i propri cari. Nonostante i tentennamenti, si erano fatti coraggio l'un l'altro e avevano stabilito che avrebbero aspettato Jacob e i nemici. Combattendo, potevano ancora uscirne a testa alta. E perché no, magari anche vincere.

Il personaggio del videogioco intanto guidava un cingolato che con il suo cannone spara-bombe annientava uomini e strutture difensive.

Mark si prefigurò le espressioni sbigottite e, perché no, anche affascinate degli spettatori alla notizia televisiva che annunciava che lui, un ragazzo apparentemente insospettabile e non tra i più navigati nel sottobosco criminale, aveva fatto fuori uno dei boss più potenti in città. Un sorriso appagato gli si stampò in viso. La sua coscienza non riusciva a rinnegare ciò che era diventato. Sebbene sapesse che fosse tutto profondamente sbagliato, allo stesso tempo era certo che non sarebbe stato in grado di abbandonare la sua nuova quotidianità. La vita da gangster scorreva nelle sue vene. Era diventata parte di lui. E le strade lo chiamavano ancora a sé. "Per l'ultima volta?", si domandò.

Il soldato venne colpito in pieno da un razzo sparato da una macchina volante e morì scagliando un ululato felino. Game over!

DIVENTARE GRANDI

Mark appoggiò la schiena sul muretto. Il sole intimidito non aveva intenzione di far capolino da dietro le nuvole, ma non per questo faceva meno caldo del solito. I primi giorni di settembre scivolavano via come un lungo epilogo dell'estate. Il parcheggio dell'highschool in 11th Street era deserto e non fiatava una mosca. La settimana seguente si sarebbe gremito di studenti, pronti a iniziare un nuovo anno scolastico.

Mark si accese una sigaretta. Ripensò ai giorni passati al liceo con un pizzico di nostalgia: gli scherzi con gli amici durante le lezioni, i litigi con i bulli della scuola, le esultanze sfrenate ai buoni voti ricevuti erano tutti aspetti che ancora gli scaldavano il cuore. Al tempo era ancora così ingenuo, le cose semplici che gli capitavano ogni mattina nell'istituto gli bastavano per essere felice. Poi era cresciuto e tutto era cambiato con il college. Si era ribellato silenziosamente ai dettami dei suoi genitori, i quali gli facevano pressioni perché studiasse e puntasse sempre al massimo. Ricordava lo stress patito all' highschool per soddisfare le aspettative che riponevano in lui. Quanto studio e quanti pomeriggi trascorsi sui libri, nei quali gli era vietato uscire all'aria aperta...

Terminò la sigaretta e lanciò via il mozzicone. La Ford Escort era entrata a velocità contenuta nel largo spiazzo del parcheggio. James l'aveva chiamato al telefono qualche ora prima e gli aveva comunicato che aveva urgentemente bisogno di parlargli. «Ultimamente ho riflettuto molto sulla mia vita e ho preso delle decisioni. Ti riguardano», gli aveva riferito con tono grave.

James parcheggiò l'auto, uscì e gli venne incontro. La sua espressione era seria e decisa, ma da essa affioravano deperite piaghe di stanchezza. «Insomma, eccoci qua.» James gli diede una stretta di mano.

«Tutto bene? Dormito poco?»

«Si, lascia stare... stanotte sono tornato a pezzi da un festino», la sua voce si afflosciò.

Mark tagliò corto: «Ok. Beh, direi che puoi sputare il rospo! Cosa devi dirmi?» Fin dalla telefonata non si aspettava buone notizie, tutt'altro.

James fece roteare il mazzo di chiavi col dito. «Bah, gli affari proseguono benone. Il giro si allarga e non mi mancano troppe consegne per portare a termine il mio incarico. Fila tutto liscio...»

«Non tergiversare...vai al dunque.» Mark si carezzò il collo.

James esitò, i muscoli del viso gli si tirarono come una fisarmonica. Prese coraggio e sputò la sua sentenza: «Chiudo qua. Abbandono l'incarico prima della fine».

Per Mark fu come un ceffone rifilato sulla guancia. Subito rispose: «Ma che ti è preso?!» Allargò le braccia. «Andava tutto bene, l'hai confermato tu stesso...»

«Non dico vada male, infatti, ma ho l'ansia di essere beccato... e più espando il mio business più crescono le paranoie.»

Gli sembrò sincero. James aveva le sue buoni ragioni, ma ugualmente Mark non si spiegò perché interrompere in anticipo quando mancavano un paio di settimane al termine del lavoro. "Almeno fai fuori i duecento grammi pattuiti, cazzo", pensò.

Preferì non esternarlo e si mostrò comprensivo. «Non puoi proprio farne a meno? Manca poco e ti lascio libero.» Ribatté. «Non tradisco i patti, hai la mia parola.»

«No, Mark. Scusami davvero, ma non riesco ad andare avanti. È una decisione definitiva...»

Mark fece una smorfia di disappunto. James era al suo servizio e non poteva comportarsi come gli pareva. Lui per giunta gli aveva salvato la vita, e James ricambiava così? Mark stava per controbattere nuovamente quando si rese conto che non aveva senso. Non aveva senso costringere James a ritornare sui suoi passi, né con le buone né con le cattive. "Che cosa ci guadagno da questo?! Potrei essere in prigione o morto tra qualche giorno...", realizzò. Gli si formò un groppo in gola. "Devo ascoltare quello che mi dice... e lasciarlo libero." Si ricompose.

«Okay, ho capito. Va bene... dichiaro concluso il tuo incarico.» James si illuminò in viso. Si raccomandò: «Però non spiattellare in giro quello che sai su di me, su di noi».

«Non l'ho fatto fino ad ora e non lo farò in futuro. Rimarrà un segreto.»

James si mosse verso il bagagliaio dell'auto, lo sollevò e tirò fuori una busta in plastica contenente i grammi avanzati, più una mazzetta di banconote. «Questi son tuoi. Anche gli ultimi soldi che vi spettano...»

Mark, dopo un rapido sguardo intorno, afferrò la busta e la incastrò sotto il nastro elasticizzato dei boxer. I verdoni arrotolati se li infilò in tasca. Interruppe il silenzio: «Beh, addio allora. Mi sa che questa è l'ultima volta che ci rivedremo».

«Come?», James aggrottò le sopracciglia.

«Son serio. Penso anche che se non ci fossimo incontrati oggi non l'avresti mai saputo...»

James sussultò. «C-che cazzo significa, Mark?!»

James era sconvolto, incapace di parlare. Tutto si era ingigantito talmente tanto che Mark non riusciva più a ricucire la sua vita, sbrindellata come la stoffa di un vestito logoro.

Con uno slancio di umanità tentò di fargli cambiare idea. «Stai andando a schiantarti e non stai facendo niente per evitarlo, Mark...» Fece una pausa. «Per cosa, poi? Per il tuo onore, per il tuo ego? Pensi che a qualcuno interesserà quando finirai in manette o peggio ancora sottoterra?! Ragiona, ti stai buttando all'aria...»

Si accorse di tremare. Mark lo osservava riflessivo.

James rincarò la dose: «Che diranno i tuoi genitori? Non sospettano nulla dei tuoi traffici, hai sempre nascosto loro la questione. Una notizia del genere li sconquasserebbe, non ci tieni a loro?» Parlava con il cuore in mano. «Volevano un grande futuro per te...e tu ti bruci così». Era già psicologicamente spompato. «Abbandona tutto, recidi il legame con la gang. Riprendi in mano la tua vita.»

«Non posso farlo, non si fa.» Mark sembrò voler chiudere il discorso.

James non mollò la presa. «Non si fa?! Non vuoi che si infanghi il tuo nome, la tua credibilità di strada? Ancora con questa storia?»

Mark scosse la testa. «Non è solo questo... sei proprio ingenuo, James.» Sospirò. «Pensi che non me la farebbero pagare? Anche se scappassi non sarei al sicuro, mi ricercherebbero... i codardi non sono tollerati dalle nostre parti, tra i gangster.» Ebbe un attimo di spaesamento e barcollò leggermente, poi riprese vigore. «Senti, James. Ho scelto così... mi dispiace.»

A James scese una lacrima. Solitaria e gravida di amarezza gli si depositò all'angolo della bocca. «Che cazzo stai facendo...», disse impotente. Mark teneva un'espressione vacua e distante. La sua scelta era risolutiva.

James era rassegnato, ma ugualmente fece un ultimo affondo. «Non credi sia ora di diventare grandi? Di trovare una sorta di stabilità, un equilibrio...»

Mark distolse lo sguardo. «Io lo sono già, James. Solo diversamente da come lo intendi tu... questo non è un gioco per bambini, qua mi gioco la vita.» Fece una pausa. «È una vibe che mi pizzica la pelle. Se pensi che abbia provato sensi di colpa quando ho fatto fuori quel figlio di troia che stava per sgozzarti ti sbagli di grosso, la mia coscienza ha da un po' persino messo in conto e sdoganato l'omicidio. Io ormai appartengo alle strade, e togliermi di forza da esse significherebbe cancellare la parte di me più viva.»

James annuì. «Capisco...» Non c'era più niente da fare, era stato sconfitto.

Mark lo ammonì: «James, gli uomini veri non piangono».

A quell'osservazione James si sentì così distante da lui, così diverso. Perché esternare i propri sentimenti non era ritenuto un atto di coraggio piuttosto che una debolezza? Le loro visioni del mondo viaggiavano su binari paralleli, impossibilitati a incrociarsi. Si avvicinò per un abbraccio, per salutarlo definitivamente. Mark lo accolse tra le sue braccia, con freddezza.

James si staccò subito da lui.

«Addio, James. In fondo mi è piaciuto conoscerti.» Gli sorrise. «Sei stato una bella scoperta.»

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