#26
CALIBRO 38
Mark scese dalla vettura. Bob e due affiliati smontarono ugualmente, mentre un altro rimase alla guida della Dodge St. Regis priva di targa.
Mark si scrutò più volte attorno. La scritta in rilievo "BANK" sulla sommità della facciata grigia confermava che erano giunti a destinazione. Le foglie delle palme fiancheggianti la struttura erano scosse da folate di vento. Si appartarono all'angolo dell'edificio, in una zona d'ombra, dove riepilogò con dovizia come avrebbero dovuto agire una volta dentro alla banca per far sì che il colpo riuscisse senza spiacevoli incidenti. I grillz d'oro ai denti di Bob, riflettendo la luce del sole, emettevano bagliori dorati. Si calarono il passamontagna sul volto e si mossero velocemente verso l'entrata, in fila come un trenino. Mark strinse con la mano il calcio della propria Beretta M9, infilata nei pantaloni. Nessuna forza dell'ordine o membro della sicurezza era nei paraggi: via libera.
«Su le mani, questa è una rapina!», sbraitò Mark, appena messo piede all'interno della banca. I pochi clienti si immobilizzarono e alzarono le mani, così come il personale alle scrivanie, dietro ai computer. Le pistole erano puntate direttamente contro di loro.
«Se fate un solo movimento, siete morti stecchiti!»
Mark avanzò spedito e arrivò fino a colui che a prima vista ritenne essere il direttore della filiale. Gli occhiali gli traballavano sul naso aquilino e due pezze di sudore si allargavano sulla raffinata camicia di lino sotto le sue ascelle. La sua assistente tremava e singhiozzava ritmicamente, tirando su col naso il muco di tanto in tanto. Mark comandò all'uomo: «Sentimi bene, ricchione. Ora te ne vai di corsa sul retro e svuoti la cassaforte, poi torni qui senza perdere per strada nemmeno un dollaro e mi consegni il denaro». Il direttore annuì ubbidiente. «Uno dei nostri ti accompagnerà, per controllare che tu non faccia brutti scherzi. Ti consiglio di comportarti bene, se non vuoi diventare cibo per vermi...»
Mark fece un cenno a Bob, il quale compì il giro della scrivania, strattonò il direttore per il braccio e lo condusse con lui verso la parte più sorvegliata della struttura. Nessuno delle persone presenti osò fiatare. I gangster sorvegliavano ogni movimento intorno a loro, pronti a spegnere sul nascere qualsiasi reazione. Una donna incinta frignava sommessamente, portandosi una mano sul pancione.
Il direttore tornò, affiancato da Bob. Portava con sé una resistente valigetta di colore scuro. Mark gli ordinò di appoggiarla sulla scrivania.
«È stato molto accondiscendente.» Ghignò Bob, indicando con il capo il direttore e allargando le spalle massicce. «Ho seguito le sue indicazioni e ho praticamente fatto piazza pulita della cassaforte. Non sai quanti soldi ci sono qua dentro... direi che possiamo filare.»
Mark prese la valigetta e se la mise sotto braccio. Bob scavalcò la scrivania e si mise al suo fianco, facendo ancora attenzione al direttore.
«Ottimo lavoro! Andiamocene via, ma sempre con la massima prudenza... questi stronzi potrebbero mettercelo in culo da un momento all'altro», dichiarò Mark.
Nell'esatto instante in cui pronunciò queste parole, la porta di vetro posta dietro alla fila orizzontale di scrivanie si aprì. Mark tese i muscoli. La calma venne infranta dal click di una pistola caricata. Alla soglia non si presentò nessuno, ma una voce proveniente da lì dietro gridò: «Siamo armati! Vi conviene deporre le armi e consegnarvi alla giustizia».
Mark non ebbe dubbi. Era qualcuno della security, che aveva semplicemente atteso il momento giusto per far la propria entrata in scena e che si nascondeva appiattendosi sulla parete laterale alla porta. «Siamo della sorveglianza!» Il suo presentimento venne confermato. La situazione si faceva spigolosa. Per sparare sugli agenti dovevano esserci dei presupposti estremi.
«Okay, mettete la testa fuori. Giuriamo di non aprire il fuoco... vogliamo vedervi in faccia!», urlò Mark rivolgendosi ai cops, prima di lanciare un'occhiata ai compagni. "Dobbiamo evitare mosse azzardate."
Sbucarono due omoni, armati di pistola, con anfibi, cappellino e giubbotto antiproiettile. Mark si sentì perquisito dal loro sguardo.
«Abbiamo già chiamato la polizia. Stanno arrivando!», esclamò una guardia.
Bob si intromise: «Pensate che ci faremo beccare? Ottusi... noi ora retrocediamo verso l'uscita e torniamo da dove siamo venuti.»
Mark aggiunse: «Proprio così. Ce ne andiamo in pace, senza far del male a nessuno».
«Voi rimanete qui, senza muovervi!», rispose l'altra guardia.
Mark fece un cenno ai due compagni vicino a lui, i quali indirizzarono il tiro delle pistole verso i clienti e alcuni membri del personale. «Mi pare che sia chiaro. Se provate a fermarci, salterà qualche innocente testolina!», strepitò.
Iniziarono a muoversi all'indietro, non dando mai le spalle agli uomini della sorveglianza. Tenevano i ferri a due mani, spostando la mira da destra a sinistra e viceversa.
Mark cominciò a considerarsi in salvo: l'uscita era vicina e non si udiva nessuna sirena all'esterno. Assaporò l'odore delle banconote svolazzanti custodite nella valigetta e i complimenti per il colpo da parte di tutti i componenti della gang. Quando fu in procinto di girarsi e fuggire fuori dalla banca, con la coda dell'occhio notò che la donna incinta aveva estratto dalla borsetta una Smith & Wesson calibro 38. «Bastardi, non la farete franca!», sbraitò la tettona.
Bang! Lo sparo fendette l'aria. Il proiettile colpì Bob sul fianco, fermando la sua camminata. Un grido di dolore si elevò in alto.
Da lì nella testa di Mark tutto si fece più confuso: immagini frammentarie e guizzanti si susseguirono a una velocità difficile da metabolizzare.
Bob che accasciato rantolava per la ferita aperta, dalla quale zampillava sangue.
Gente che strillava e correva per mettersi in salvo.
Un compagno che colpì con una pallottola la mano della donna, a cui sgusciò la revolver dal polso. Un paio di dita ridotte a un moncherino sbrindellato, il volto di lei una maschera di angoscia e orrore.
La security che approfittava dell'occasione per sparare a sua volta.
Le prime sirene della polizia che si accesero in lontananza e si avvicinavano al luogo della rapina.
Qualche pallottola scaricata dagli agenti che sfiorò la sua testa, provocandogli brividi gelati dietro la schiena.
Una fuga repentina al di fuori dell'edificio, sparacchiando in direzione della security. Il compagno Bob indifeso, lasciato a terra dentro la filiale.
La vista della Dodge già in moto, con il guidatore a sollecitarli. Qualche scontro involontario con dei passanti. Lui e gli altri due compagni che montavano nell'auto, mentre le sirene aumentavano di volume. La valigetta gettata sul sedile posteriore. La berlina che filava via, sgusciando con sorpassi audaci tra le altre automobili.
Il sollievo di averla scampata ancora una volta, ma allo stesso tempo la consapevolezza che il futuro sarebbe stato meno roseo e che le conseguenze di quell'atto non avrebbero tardato ad arrivare. Bob era nelle grinfie degli sbirri.
Mark sbatté un pugno sulla valigetta, incollerito.
LACRIME
James si incamminò verso il parco cittadino. Il pomeriggio era nuvoloso e per la notte erano previsti forti temporali. Aumentò la falcata per non arrivare in ritardo all'appuntamento. In mattinata aveva ricevuto una chiamata. In questo non c'era niente di inedito, dato che durante il giorno il telefono squillava più volte per via degli abituali clienti, se non che quando aveva alzato la cornetta era rimasto sorpreso nel sentire la voce di Grace. La sua ragazza aveva bisogno di parlargli al più presto: si erano così dati ritrovo al parco.
James immaginò che il motivo si dovesse ricercare nell'assenza dell'ultimo periodo. Stava trascurando Grace, ne era conscio, ma il lavoro per conto di Mark era il suo primo pensiero e lo teneva molto occupato. Preferiva non spiegarle nulla, sia per proteggere l'operato criminale di Mark sia per non immischiarla nelle sue faccende, che sicuramente l'avrebbero spaventata e destabilizzata.
Mentre passeggiava sul marciapiede ombreggiato, gli vennero in mente il paio di consegne che doveva svolgere la sera. Conseguentemente, gli echeggiarono nel cervello le parole del senzatetto. Con quel mestiere non si sarebbe procurato un futuro stabile e sicuro, ma solo l'alta probabilità di sbattere la testa contro un muro e di restarci secco. Si ripeté la decisione a cui era giunto poche ore prima: "Sono a buon punto con le vendite, per metà settembre massimo dovrei farcela. Porto a termine l'incarico vendendo tutta la roba, poi ci do un taglio netto. E se Mark dovesse propormi un prolungamento dell'attività, rifiuto senza pensarci due volte".
Il parco si stagliò di fronte a lui. Le nuvole lo rendevano cupo e spento. Imboccò il sentiero di ghiaia che dal cancello d'ingresso si inoltrava al suo interno, serpeggiando tra gli aceri e l'erba tagliata. Sorpassato il campetto da basket, adocchiò Grace seduta su una panchina. La raggiunse e l'abbracciò per salutarla. La sua stretta fu fredda e poco affettuosa, il volto di lei impassibile. «Ciao, James.»
Non era la solita Grace: teneva un atteggiamento di chiusura, come se invece che fidanzati fossero perfetti sconosciuti. James si preparò mentalmente a quelli che avvertì sarebbero stati minuti intensi. Si sedette di fianco a lei. Grace non orientò il corpo verso di lui, ma si mise a osservare davanti a sé.
«James... sembra che mi eviti, che la mia presenza sia per te un ostacolo.»
La dichiarazione bastò a spiazzarlo. James balbettò leggermente prima di trovare la forza per rispondere. «Non è così. Hai frainteso... sono solo molto impegnato, ma a breve ti concederò tutto il mio tempo.» Allungò una mano per accarezzarla sulla guancia, ma Grace gliela spostò infastidita. La distanza da lei accrebbe. Fra i loro corpi non c'erano più centimetri di distanza, bensì chilometri.
«Voglio sapere cosa fai di preciso da Mark. Dimmelo...», disse Grace perentoria.
«Non posso dirtelo, Grace. Mi dispiace...» James scosse la testa. «Ma dammi retta, è anche per il tuo bene.»
Lei gli lanciò un'occhiata malevole.
"Non ha apprezzato la risposta", dedusse James. Provò a rimediare per placare il suo nervosismo. «Ei, ti chiedo solo di ascoltarmi. Non farti troppe domande... va tutto bene, e tra non molto sarò libero.»
Attese una replica, ma lei tacque.
James era disorientato. La sua gamba cominciò a tremolare incontrollabile.
Grace prese fiato, poi disse: «Ho preso una decisione, James. Il nostro rapporto non può andare avanti in queste condizioni...» Lui sgranò gli occhi, ma ciò non bastò a interromperla: «Sono convinta che lasciarti sia la scelta giusta. Per tutti e due. Io non voglio star male per la tua evidente indifferenza e tu potrai continuare i tuoi "affari" in santa pace, senza seccanti distrazioni».
James non poté crederci. Davvero Grace lo stava lasciando? Così, su due piedi? Sebbene d'istinto volesse ribellarsi, restò zitto. Se lei non aspettava altro che lui si struggesse in lacrime chiedendo perdono, si sbagliava di grosso. Non avrebbe ceduto a quel braccio di ferro, alla battaglia psicologica che stava montando tra loro. E se una parte di lui era affranta per ciò che si stava svolgendo, un'altra accusava fortemente il colpo. Il suo orgoglio era ferito, e non riusciva ad accettarlo.
La sua iniziale espressione di disappunto virò fino ad assumere i contorni di una maschera apatica e imperturbabile. «Va bene. Come vuoi... ciao, allora», ribatté.
Grace scosse la testa, amareggiata, poi si alzò di scatto e si avviò per il sentiero.
James si ridestò all'improvviso. Sbraitò contro di lei, mentre se ne andava svelta, e la mandò a farsi fottere. Grace scoppiò a piangere, ma non si voltò e proseguì per la sua direzione.
Si rese conto di aver esagerato: il tono era stato decisamente brutale. "Cazzo, questi sono gli sbalzi d'umore che mi provoca la coca...", pensò per un attimo. Disappannò lo spesso strato di foschia che gli confondeva la lucidità. Come poteva pensare Grace di crescere loro figlio da sola, senza il suo sostegno? Riteneva la sua una scelta drastica. Grace aveva dato di matto, compiendo una stronzata. L'alternativa era che fosse completamente impazzita. Sbottò: "Non mi interessa più... non sarò certo io a tornare da lei, che vada a farsi benedire".
James riprese la via di casa. Gli si dispiegò davanti il momento in cui aveva acconsentito a tenere il figlio, e i dubbi che fin da subito l'avevano tormentato. "Santo dio, dovevo dire di no...", ammise a sé stesso. Ebbe nuovamente la visione del corvo appollaiato sulla mensola a casa di Grace che gracchiava in modo sinistro, lugubre. Uscì dal parco, maledicendo tutto e tutti.
Grace si allontanava a testa bassa, mettendo più strada possibile da James. La sua reazione le aveva fatto molto male. Il cuore le pesava il triplo e la trascinava verso il basso. "Come fa a lasciar andare tutto all'aria senza un minimo di compassione?", si domandò. "È diventato un mostro... non prova più nessun sentimento."
Dubitò anche del fatto che James l'avesse mai amata. Non fu in grado di trattenere le lacrime, che sgorgarono disinvolte dai suoi occhi azzurri. Non avrebbe mai concesso la vista del suo pianto al ragazzo che le aveva causato tanto sconforto.
"Non mi merito tutto questo..."
ICE ON MY WRIST
Jacob ammirò i diversi modelli di orologi contenuti nelle teche abbaglianti. Rolex, Cartier, Patek, Audemar. Oltre a questi, attraverso il vetro trasparente dei contenitori spiccavano gioielli e bracciali dal valore di migliaia di euro. Aveva portato con sé Tony, sia perché poteva consigliarlo sull'acquisto sia perché gli facesse da difesa personale. Lui si meravigliava ogni qualvolta scorgeva diamanti luccicanti incastonati nei quadranti degli orologi.
Jacob si sistemò il cappellino New Era in testa e continuò ad adocchiare gli sfarzosi prodotti della boutique. Quando aveva bisogno di informazioni su un modello specifico, chiedeva burbero agli eleganti commessi. Era lì per concedersi uno sfizio, dopo mesi in cui gli introiti della sua gang salivano esponenzialmente.
Tony gli indicò un orologio dal cinturino dorato. «Di questo che ne pensi?»
Jacob fece un cenno di diniego con la mano. «Non mi piace... voglio qualcosa che dia più nell'occhio.»
Circondarsi di fastosità non era soltanto un semplice capriccio, ma rivestiva un significato più profondo: le auto, gli orologi, i marchi di lusso erano prove materiali della sua scalata sociale, simboli materialistici che dimostravano che ce la stava facendo. Funzionava così non solo per lui, ma anche per tanti altri gangster e persone di strada.
Gli balzò alla vista un Rolex Daytona placcato in oro. Il quadrante nero ospitava ai bordi dei piccoli diamanti. Soddisfatto, guardò Tony. Lui approvò, estasiato.
«Chiamami un commesso, voglio provarlo.»
Arrivò subito un giovane in smoking, con i capelli pettinati all'indietro. «Intendeva questo, sir?»
Jacob annuì, senza concedere un sorriso. Il ragazzo aprì la teca tramite una chiave ed estrasse delicatamente l'orologio dal cofanetto aperto.
"Da vicino brilla ancora di più", notò.
Il Rolex gli venne messo sul polso libero dal tutore e il cinturino fu regolato fino a trovare la misura ideale. Un largo sorriso si stagliò sul viso del commesso. «Devo dire che su di lei fa un effetto notevole», commentò.
«Ho deciso. Lo prendo!», proruppe Jacob. Riconsegnò l'orologio. Il commesso lo invitò a presentarsi per il pagamento e gli disse che glielo avrebbe fatto trovare nell'apposita confezione.
Jacob non si stupì quando in cassa gli fu comunicata la cifra di più di quarantamila euro: era consapevole di cosa stesse acquistando. Tony aprì la zip della borsa contenente le mazzette arrotolate. Lui ne afferrò tante quante servivano per arrivare alla somma richiesta, mentre l'uomo in cassa lo osservava accigliato. Le mazzette furono accatastate sul bancone beige. «Dovrebbero essere giusti», specificò Jacob. Si era appena liberato di tutti quei soldi liquidi, guadagnati con la malavita. Era fondamentale non accumulare troppi contanti, per non destare sospetti sul suo operato. Porse il cofanetto a Tony, che lo infilò nella borsa.
Appena usciti dalla boutique, Jacob si sistemò l'orologio sul polso. «Ice on my wrist![1]» Sogghignò, fiero.
[1]Traduzione: "Ghiaccio al polso".
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