#24

TIRI LIBERI

Chloè serrò le palpebre e respirò profondamente. Quella che sarebbe iniziata a breve era La Partita, Lo Scontro Finale.

Scott e gli altri erano disposti in campo e indossavano una canottiera blu. I loro volti erano contratti e tesi.

Il match era davvero importante, l'occasione per dimostrare il suo talento e per mettere a tacere gli spacconi di Scott e del suo team. Riteneva che lei e i suoi compagni di squadra fossero pronti per batterli, dopo gli allenamenti costanti di quei mesi estivi. Quando in settimana aveva testato le disponibilità, era rimasta di stucco di fronte alle loro reazioni partecipi e gioiose: non aspettavano altro che giocare contro i loro acerrimi rivali. Al campetto aveva fatto poi l'agognata proposta a Scott e le ultime insicurezze che riponeva nell'affrontarlo avevano lasciato il posto a un'ostinata determinazione. Lui infatti aveva accettato senza remore, con il suo solito fare spocchioso e arrogante. «Siete molto coraggiosi a voler giocare un'altra partita contro di noi. Non vi sono bastate le altre?», le aveva risposto con vanteria.

"A quanto pare, l'umiliazione che ha subito alla festa scolastica da Jeff e James non gli ha fatto cambiare atteggiamento. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio", aveva dedotto, infastidita.

Fece un giro su sé stessa e si compiacque. Intorno alle linee che delimitavano il campo, stavano assiepati una trentina di spettatori, alcuni capitati nel parco per caso e con la voglia di gustarsi uno spumeggiante match di basket, altri su invito dei giocatori. Richard saltellava brioso tenuto per mano da suo padre Josh.

Tra la folla notò anche Sarah e dedusse che fosse stata invitata da Scott. Oltre a loro era presente anche Lucas, ingobbito sulle sue stampelle, Grace, e Jeff, che si muoveva avanti e indietro agitato. Il suo amico l'aveva incoraggiata più volte, sapendo quanto lei vivesse quel match come una rivalsa personale, un tentativo di riscatto per affermare che poteva stare alla pari degli uomini.

Chloè colse lo sguardo partecipe di Lia. Giorni prima aveva iniziato a frequentarla e fin da subito lei non le aveva fatto mancare il suo sostegno. Lia le aveva dato la carica e le aveva infuso la convinzione che ce l'avrebbe potuta fare.

Le dispiacque invece che suo cugino Mark e James non fossero venuti. Li aveva avvisati, ma a quanto pareva erano impegnati in altre faccende.

Fissò l'arbitro amatoriale. Il signore sulla quarantina teneva il fischietto tra le labbra. Avevano concordato tre tempi da dieci minuti ciascuno, uno in meno rispetto alle partite dei professionisti. Sarebbero stati trenta minuti di fuoco, incessanti e combattuti.

Suo padre urlò: «Forza ragazzi, mettetecela tutta!»

L'arbitrò fischiò e l'incontro ebbe inizio.

Primo tempo

Nei primi minuti Chloè corse a prendersi molti palloni, smistandoli verso i compagni e indirizzando l'azione offensiva. La sua squadra puntava molto sul gioco di squadra: la palla veniva fatta girare da una parte all'altra del campo con velocità e, appena si intravedeva uno spazio sfruttabile, si andava a canestro. I contatti fisici molto vigorosi, al limite del fallo, si susseguivano uno dietro l'altro, rendendo la partita un po' bloccata e poco esaltante. Scott, nel ruolo di centro, occupava bene la zona rettangolare sotto il canestro difeso dagli avversari. Riceveva più volte il pallone e, dopo essersi girato usando il corpo come scudo, lo schiacciava con potenza. La sua abilità nel destreggiarsi palla alla mano e il suo strapotere fisico sbalordivano il pubblico rumoroso.

Chloè calò ben tre triple, dei tiri perfetti e precisi, che suscitarono l' «Ooohh!» ammirato degli spettatori. Il primo tempo si chiuse sul 13-10. La squadra di Scott si trovava incredibilmente in svantaggio.

Chloè rimase in campo con i suoi compagni. Raggruppati a cerchio, trasmise loro fiducia e ottimismo e li raccomandò di non rallentare il ritmo di gioco. La partita era iniziata nel migliore dei modi, ma era ancora lunga. Mancavano ben due tempi, e tutto poteva capovolgersi.

Rifilò uno sguardo maligno a Scott. Il giocatore si stava dirigendo a bordo campo, palesemente irritato per la prestazione sottotono del suo team. Calciò una bottiglietta d'acqua e si sedette per terra, a muso duro. Dopo aver confabulato con Sarah per un paio di minuti, tornò nell'area di gioco con più calma e serenità. Aveva sbollito la rabbia, evidentemente. La sua espressione lasciava trasparire tutt'altro che rassegnazione.

«Non prendiamola sotto gamba...», impose Chloè alla sua squadra. Poi si rimboccò i calzettoni.

Secondo tempo

Il team di Chloè ripartì con lo stesso piano di gioco, ma l'azione non proseguiva scorrevole come nel primo tempo. I giocatori avversari si muovevano con più frequenza e in modo imprevedibile, sbarrando le linee di passaggio e ripartendo in velocità. Scott riusciva a liberarsi con meno fatica dalle marcature e il suo cinismo contribuiva a gonfiare il punteggio. Spiccava grandi salti e schiacciava il pallone a canestro, con una minore percentuale di errori. Chloè trovava meno spazio di manovra, veniva stoppata a raffica e i suoi tentativi di tripla non andavano a buon fine. Il secondo tempo finì sul 21-26.

Chloè abbassò il capo. Il match non stava filando liscio e stavano mollando la presa. Il tabellino parlava chiaro.

Sbuffò. I suoi compagni tenevano il broncio, gli avversari rumoreggiavano e facevano baccano, già in clima di festa. «Andiamo, cazzoooo! Così si fa!», esultava Scott urlando a squarciagola.

Si sentì chiamare da Jeff. Lo raggiuse a passo lento, scoraggiata.

«Quindi, vuoi dirmi che ti arrendi già?! Non darti per sconfitta, è tutto ancora aperto...», esordì Jeff energico. «È inevitabile andare incontro a momenti di difficoltà, in cui gira tutto storto, soprattutto contro dei buoni giocatori come loro... ma abbassare il capo no, quello mai!»

Chloè lo ascoltava, ma senza grande attenzione. Lui continuò: «Eri partita con la convinzione di potercela fare. Ora l'hai persa, ma devi ritrovarla. Riaccendi quella fiammella che ti ha fatto dire: "Sono una ragazza e vi mostrerò quanto valgo, non sono inferiore a voi"! Oggi è il giorno di ribadirlo, se mai ce ne fosse stato il dubbio».

Chloè raddrizzò la schiena. Quelle parole fecero breccia in lei e rianimarono il suo spirito demoralizzato. Cambiò subito atteggiamento.

«Così voglio vederti, con gli occhi affamati e l'espressione dura! Pensano di avere già la vittoria in tasca, ed è questo il momento per azzannarli!»

Istintivamente abbracciò Jeff. «Non mollo un cazzo. Se vinceranno, lo faranno sudando le pene dell'inferno!», gli disse determinata.

«Credo in te, puoi farcela. Richiama i tuoi e caricali a palla per l'ultimo tempo...», le sussurrò Jeff all'orecchio.

Chloè gli scambiò un pugnetto e ritornò in campo. Chiamò a raccolta i propri compagni e li arringò con un discorso motivazionale. Poi rispose ai ghigni beffardi dei rivali calando l'espressione più implacabile tra tutte quelle del suo vasto repertorio.

Terzo tempo

Entrambe le squadre accelerarono i ritmi: più corsa, nonostante la stanchezza, meno temporeggiamenti, più giocate rischiose. Si andava a una velocità forsennata. Chloè si dava da fare, palla in mano, sgusciando nelle varie zone del campo. Tra dribbling spericolati e piazzati precisi, iniziava ad imporre il suo dominio. Scott, tenuto a bada anche con il ricorso ai falli, faceva fatica a creare superiorità in zona offensiva. Non frenava la sua crescente scocciatura, che manifestava sbracciando ogni volta che gli veniva sottratto il pallone.

Chloè guardò il tabellino: 37-37, a un paio di minuti dalla fine della partita. Erano entrati nella fase decisiva. Scott passò la palla a un compagno, il quale si allargò e centrò il canestro con un pregevole gancio. 2 punti: 37-39.

"Non credere che sia finita, Scott", pensò Chloè. Andò a prendersi la palla e dopo un rapido uno-due con un compagno, che eluse le strette maglie della difesa avversaria, eseguì un terzo tempo perfetto. 39-39.

Una ventina di secondi e l'arbitro avrebbe fischiato il termine dell'incontro.

Ultima azione. Scott ricevette il pallone e si aggirò palleggiando pericolosamente nella loro metà campo. Con un movimento improvviso provò il tiro, ma Chloè, prevedendo tutto, stoppò con un salto la palla, la agguantò prima di ricadere a terra e si scagliò in contropiede. Non aveva nessuno di fronte a sé, poteva correre indisturbata verso il canestro. Verso il trionfo. Entrò nell'area dei sei metri, ma, quando pregustava già il sapore della vittoria, si sentì spingere da dietro con brutalità. Cadde in avanti e perse il pallone. Il sogno sfumò con la palla che rimbalzava lontano. Allargò le braccia in segno di protesta. «Oh, questo è fallo netto!!!» L'arbitro non titubò nemmeno un istante prima di fischiare. Buona parte del pubblico muggì con un «BUUUUU!»

Si voltò. Scott l'osservava sprezzante. Le era piombato da dietro per impedirle di andare a canestro e l'aveva fermata scorrettamente.

Mancavano una manciata di secondi alla fine. Secondo il regolamento erano previsti due tiri liberi. Ci si giocava tutto con quelle due possibilità.

Chloè afferrò la palla e si mise in posizione di tiro. Sospirò. Le balenarono in testa le infinite volte in cui li aveva allenati, senza mai fermarsi nonostante il sudore e la frustrazione. Sentiva puntati su di lei gli sguardi dei suoi amici, di Jeff e di suo padre, che sempre l'aveva supportata. Per non distrarsi, non perse tempo e lanciò la palla. Il ferro vibrò con un rumore meccanico. Non era entrata. Primo tiro libero: fallito. La tensione salì a dismisura. Tirò un'occhiata al suo cuginetto. Richard era con il fiato sospeso.

Si fece forza, ripetendo a sé stessa che quell'errore non l'avrebbe buttata giù. Chiuse gli occhi e si estraniò da ciò che la circondava. Si rivide da piccola, in una uggiosa serata invernale, al campetto. Era una delle prime volte che si approcciava al basket, non aveva ancora trovato una squadra con cui giocare e ne mancava di pratica per diventare l'ottima giocatrice che era ora. Provava i primi palleggi, impacciata. Il padre, avvolto nel cappotto imbottito, la incitava a gran voce. Quanta strada aveva fatto da lì!

Riaprì gli occhi, scrutò il canestro e compì il tiro con delicatezza. Il pallone sbucò da sotto il canestro, sfiorando la retina appesa al ferro circolare. Punto. 40-39. Gli spettatori che tifavano per la sua squadra esplosero dalla gioia. L'arbitro pose fine al match.

"Abbiamo vinto. Per la prima volta", realizzò.

Fu sommersa dagli abbracci dei sui compagni, che si congratularono con lei per aver mantenuto il sangue freddo. Un tripudio di felicità e allegria la circondò.

Jeff corse verso di lei. La fece montare in groppa e la portò tra il pubblico festante. Grace saltellava, suo padre era commosso, mentre Richard zampettava qui e là euforico. Gli avversari invece si erano allontanati dal campo. Solo Scott era rimasto nel perimetro di gioco e sedeva a terra afflitto. Piagnucolava e si copriva per la vergogna il volto con le mani. Sarah, premurosa, andò a consolarlo. In quella circostanza era così piccolo, inerme. A Chloè parve che il suo corpo si squagliasse sotto al sole, fondendosi in un tutt'uno col cemento. Era la seconda umiliazione che Scott subiva nell'ultimo periodo, e per una persona orgogliosa come lui non poteva esserci di peggio.

"Ti sta bene!", pensò.

NONO PIANO

Lucas, ricurvo sulle stampelle, seguì il suo migliore amico. Si spostava a rilento, accusando di tanto in tanto penetranti fitte di dolore. Si impressionava ogni qualvolta indugiava sull'ipotetica forma delle placche e viti che gli erano state impiantate nella gamba durante l'operazione. "Potrei essere una cazzo di calamita", sorrise tra sé e sé. Aveva convenuto di approcciarsi al tremendo accaduto con filosofia. Il tempo avrebbe fatto il suo corso e sarebbe tornato a camminare normalmente.

Mark si fece identificare dal portiere e, una volta ricevuto il permesso, fece il suo ingresso nel soleggiato atrio del grattacielo. La luce solare sprizzava dai larghi vetri trasparenti, donando serenità all'ambiente. L'aria condizionata era confortevole e permetteva di prendersi una pausa dall'inquinata afa che permaneva in città.

Mark chiese cordialmente alla distinta signora in reception dove dovessero dirigersi.

«L'ufficio dei suoi genitori è al nono piano, vada pure», le rispose meccanica.

Mark la ringraziò, spalancandole un affabile sorriso, e si spostò verso l'ascensore.

Lucas stava in silenzio. La raffinatezza del palazzo si poteva cogliere in ogni dettaglio dell'arredamento. Mark era stato invitato dai suoi genitori a fare un salto da loro e gli aveva proposto di accompagnarlo, avrebbe sfruttato così l'occasione per fargli visitare il luogo dove lavoravano.

La porta dell'ascensore si aprì, consentendo il loro ingresso. Mark pigiò il bottone del nono piano e la cabina iniziò a salire. Lucas lo fissò. Con il completo blu chiunque l'avrebbe potuto scambiare per uno stimabile uomo d'affari, finanziere o agente di qualsiasi tipo. Aveva in programma di mangiar fuori con i suoi in un ristorante di lusso, lì in zona.

«Dunque... il loro attacco, come mi avevi accennato, è naufragato», dichiarò Lucas.

«Sono stati ricacciati indietro, sì. Dopo momenti di paura, in cui ci siamo sentiti smarriti, abbiamo reagito con la forza.» Mark abbassò la voce. «Il nostro riscatto è partito quando ho fatto fuori il bastardo che manovrava la minigun.»

Lucas colse una sua certa ritrosia per aver aperto quell'argomento. «Il tg ha alluso a uno scontro feroce, eppure non ne avete lasciato tracce in giro», parlò soppesando le parole.

«Era d'obbligo, cazzo. Ci saremmo trovati gli sbirri alle calcagna se non ci fossimo sbrigati a insabbiare tutti i segni della battaglia. I cadaveri ficcati nelle bodybag[1] e poi nel bagagliaio delle auto, il sangue sull'asfalto cancellato con i secchi d'acqua.» Mark sbracciò, prima di continuare: «Fortunatamente James non è stato fatto fuori. In quel caso sarebbe stato un fottuto casino, non immagini quanto l'opinione pubblica ci avrebbe cavalcato...» Il suo sguardo si perse nel vuoto. «Mi rendo conto di aver sbagliato a farlo venire con me. L'ho riportato a casa svenuto, spero per lui non sia stato un trauma troppo forte...»

Lucas preferì virare su un altro discorso. Voleva approfondire ciò che gli aveva accennato Mark sulla prossima mossa della gang. Il suo migliore amico aveva intenzione di non fare un passo indietro e di continuare come se nulla fosse con azioni criminali, a prescindere dalla crescente pericolosità che queste comportavano. Mark gli aveva già chiarito che la polizia avrebbe tenuto sempre più gli occhi aperti, ma che nonostante ciò non avrebbe sospeso il suo operato. Gli fruttava troppo profitto per darci un taglio netto.

L'ascensore continuava a salire su verso il nono piano.

«Tenti la rapina in banca di cui mi parlavi, quindi? Ne sei sicuro?», gli sussurrò piano.

Mark lo squadrò, infastidito. «Lucas, non è il contesto appropriato per parlarne.»

Lucas circumnavigò con la vista la cabina. Non c'erano telecamere nell'ascensore, ma a pensarci bene ogni precauzione non era mai di troppo.

Mark aggiunse: «Comunque si, stiamo predisponendo affinché non ci siano intoppi... ma te lo prometto, affronteremo il discorso da un'altra parte».

Lucas deglutì e tacque. "Ha ragione... siamo in un grattacielo del centro città, punta di diamante dell'economia americana che produce ricchezza per il resto del mondo."

L'ascensore terminò la sua corsa e si fermò. Con uno squillo la porta scorrevole si riaprì.

[1]Una larga borsa con zip utilizzata per trasportare un morto.

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