#20
RITMI FRENETICI
Ritmi frenetici richiedevano più fatica, concentrazione e assenza di pause. Bisognava essere sempre pronti, a disposizione del cliente, mai stanchi.
Suona il telefono, rispondi, fissa un ritrovo, vai se serve subito, completa l'operazione, torna a casa e metti da parte il denaro.
C'era meno tempo per fermarsi, prendere fiato, respirare. A volte anche di notte squillava qualche chiamata. I ritmi da sostenere erano serrati.
James si stese una riga sulla scrivania di camera sua. Farsi non era più come nei primi giorni un'azione sporadica, attuata più che altro per dimostrare a sé stesso che non ne aveva paura, ma quasi un gesto automatico, che diveniva più frequente di pari passo con l'incremento del lavoro. La coca gliela procurava Henry a un prezzo stracciato.
Alzò il volume dello stereo, ad alto volume "You know how we do it" di Ice Cube. I sintetizzatori analogici della traccia gli fischiarono nelle orecchie, come lo stridio prolungato di un gesso sulla lavagna. Avrebbe potuto sollevare una montagna a mani nude, come un dio dell'Olimpo, da quanto si sentiva pimpante. Si dedicò a contare le banconote, che legò poi con l'elastico in varie mazzettine. Il denaro guadagnato cresceva gradualmente, era soddisfatto di come procedeva il compito assegnatogli. Ripose le mazzette in un baule nascosto sotto il letto, che chiuse con un lucchetto.
Il suo sguardo si soffermò sul Transformer affiancato al portapenne. Il giocattolo, imperioso nel suo portamento, aveva perso una delle braccia di plastica una decina di anni prima, quando ancora bambino si divertiva a ricreare coinvolgenti battaglie tra eserciti in miniatura.
"Quante cose sono cambiate...", rifletté disilluso. Un tempo sulla scrivania faceva i compiti scolastici e giocava con i soldatini, adesso ci stendeva piste innevate e ci appoggiava soldi sporchi. L'innocenza infantile sepolta sotto un tumulo, l'incanto puerile svanito nell'impietoso scontro con la cinica realtà.
Driiin, Driiin. Ecco, come non detto, anche ora lo stavano chiamando.
E allora vai, James. Lascia in sospeso ciò che stavi facendo e precipitati sul telefono.
Si sbrigò a rispondere. Lo sorprese la voce rauca e catarrosa di un vecchio, che ribolliva del capriccio di fumare. Regolare amministrazione.
Abbassata la cornetta, James non poté fare a meno di accorgersi che sua madre lo fissava stranita in un angolo, come se avesse il presentimento di cosa stesse succedendo. Si avvicinò a lei con un flebile sorriso, per tranquillizzarla. «Va tutto bene, mamma. Non preoccuparti per me, sono grande ormai...»
Gli occhi spossati di Gwenda gli comunicarono distanza e rassegnazione.
STRIPPER
Lo strip club era molto animato. Fasci di luci colorate segmentavano l'ampio salone, diffondendo aloni psichedelici sugli squallidi abitanti del locale notturno. Spogliarelliste in abiti succinti si muovevano sensualmente sopra la pedana e si palpavano con passione le carni voluttuose. Discorsi superficiali erano ovattati dalla musica ad alto volume, mentre piogge di verdoni venivano lanciati dagli uomini infiammati in direzione delle stripper.
Jacob tastava il seno ad una formosa escort, seduta sulle sue ginocchia.
«Bellezza, quanto sei sexy!», le disse in modo seducente avvicinando le labbra al suo orecchio minuto, dal quale pendeva un luccicante pendaglio. Lei ricambiava con effusioni poco partecipi.
"So che mi consideri un lurido porco, ma tu sei qui per il mio piacere. È il tuo cazzo di lavoro, troia!", si trattenne dal dirlo a voce alta.
Alla sua destra erano piazzati Armando e Vincent. Entrambi fumavano un sigaro e dai divanetti di pelle lucida godevano della vista di due lussuriose brasiliane.
«A te ci penso dopo, baby. Devo scambiare due parole con i miei compari», invitò la escort a lasciarlo solo per un po'. Lei recepì prontamente il messaggio e si alzò senza indugiare.
Jacob si spostò di lato, verso i suoi soci.
«Avete fatto un buon lavoro con quello smidollato amico di Mark.» Sentenziò. «Verrete presto ricompensati!»
Come risposta ghigni malefici si stamparono sugli spigolosi volti dei due gangster.
«Se è un minimo ragionevole, Mark farà un passo indietro...», dichiarò Armando.
«Sarà corso a gambe levate dai suoi affiliati a raccontare cosa è successo... se non vogliono che la situazione degeneri, devono frenare lo sviluppo dei loro affari.» Jacob si tolse il bomber oversize in pelle nera. Iniziava ad accusare il caldo. «E Mark deve lasciar perdere mia sorella, al più presto... ma presumo l'abbia capito.
Vincent si inserì: «Mal che vada, accoppiamo qualcuno della sua gang!» I suoi denti neri e bucati facevano ribrezzo.
«No!» Jacob lo fermò, risoluto. «Non dobbiamo correre troppo... scatenare una guerra tra associazioni criminali non è mai una buona cosa.»
Tutti i tribolanti sacrifici che compiva da anni e che l'avevano condotto prima ad elevarsi al rango di boss e in seguito a dominare sulle strade non dovevano essere sprecati cadendo vittima di un moto di megalomania. Armando annuì.
Jacob fu attirato da un uomo in giacca e cravatta, intento a limonarsi una prostituta. "Hanno l'aspetto così composto, rispettabile, magari sono pure dei padri di famiglia... poi si scopre che sono la feccia, i più viscidi. Ipocriti...", rifletté.
Ritornò sull'argomento precedente. «Ora farò capire a Jennifer che deve chiudere con Mark... è finito il tempo di essere accondiscendente con lei.» Si scrocchiò i pugni. Poteva bastare. Fece segno ai due scagnozzi che erano liberi di tornare a divertirsi.
Le luci stroboscopiche lampeggiavano fulminee. Jacob si diresse verso la sua escort, che stava in disparte a bersi un cocktail, e la trascinò all'immondo bagno del locale. Gli era salita l'eccitazione e non chiedeva altro che soddisfarla. Al resto, gravose faccende della sua vita in bilico tra processione all'inferno e ascesa personale, ci avrebbe pensato il giorno seguente.
CAMERA 197
Grace parcheggiò la 500 sullo spiazzo di sassi antistante l'ingresso. Lia esclamò gioiosa: «Eccoci qua. Siamo tornate!»
A Grace le si inumidirono gli occhi. Rivedere il college dopo qualche mese accese in lei una bella sensazione, pervasa di nostalgia. Le sembrava rimasto esattamente uguale a come l'aveva lasciato al rientro per le vacanze estive: l'erba del giardino curata, le siepi potate, la facciata in mattoni austera e granitica. Quell'edificio era stata la sua casa per un anno, un recipiente stipato di vari ricordi, dalle sfuggenti storielle amorose alle solide amicizie che aveva stretto, dalle verifiche in cui aveva dato il meglio di sé al legame affettivo che aveva instaurato con qualche professore.
Si soffermò per dei secondi inspirando tutta l'aria positiva possibile, poi si mosse verso l'alto arco che portava agli spazi interni. Lia zampettò dietro di lei. Il guardiano, che si stava bevendo un energizzante in reception, dopo averle identificate le invitò ad accedere dentro la struttura.
Grace aveva conosciuto Lia proprio lì al college, uno dei primi giorni, mentre pranzava solitaria nella mensa. L'aveva notata che se ne stava tutta sola ad un tavolo, intenta a piluccare con la forchetta gli spinaci lessi che le erano stati serviti, e, cercando un po' di compagnia, le si era avvicinata. Quando le aveva chiesto se potesse sedersi al suo tavolo, Lia l'aveva accettata volentieri, come se non aspettasse altro che qualcuno si facesse avanti per interrompere il silenzio stagnante della sala e intraprendere un dialogo con lei. Da quell'incontro, così semplice e naturale, si era sviluppata la loro intensa amicizia. Avevano condiviso insieme corsi di arte, studio snervante e piacevoli serate.
Grace si inoltrò in uno dei tanti corridoi del college. Si ricordava nel dettaglio quando Lia le aveva rivelato di essere lesbica, un ventoso venerdì primaverile in cui non facevano altro che ammazzare il tempo, sedute sui tavoli in legno del giardino. Lia si era fidata di lei, del fatto che l'avrebbe capita. Quando le aveva puntualizzato che per lei amare una persona dello stesso sesso non faceva nessuna differenza e che non era motivo di giudizio, Lia aveva sospirato sollevata, come se si fosse scrollata di dosso un grosso peso. «Sei la prima persona a conoscenza di questa mia diversità», le aveva confidato. Da quel pomeriggio le corde intrecciate che saldavano il loro legame d'amicizia si erano fatte più strette. Grace si era promessa che avrebbe conservato quel segreto con premurosità, per proteggere Lia dalle malelingue e dall'ottusità.
Successivamente si erano imbattute in Ellen e Sarah, e con loro avevano costituito una compagnia fissa di amiche.
"Purtroppo ora non è più come prima", sancì Grace sconsolata, ripensando malinconicamente alle esperienze che avevano condiviso tutte insieme. Ellen infatti pareva essere sparita dalla sua vita dopo che lei si era fidanzata con James, Sarah l'evitava e teneva il broncio per come si era comportata con Scott alla festa d'istituto.
«Quindi, ci son tante cose da spostare da camera tua?», domandò Lia.
Grace non esitò a rispondere: «Degli scatoloni, qualche mobile, poster e alcuni vestiti. Ci impiegheremo un paio di orette». Dall'anno successivo non avrebbe più dormito nella stessa camera, destinata ad una matricola di ingegneria. Aveva chiesto a Lia se fosse disponibile ad aiutarla nel trasloco delle sue cose verso la nuova stanza, richiesta che lei aveva accolto con piacere.
«Camera 212, non ti ricordi? Siamo arrivate», annunciò Grace, fermandosi di fronte alla porta chiusa. Il lungo corridoio del dormitorio era spoglio e silente, come mai era apparso prima ai suoi occhi. Nel suo vivido ricordo era percorso ad ogni ora del giorno, avanti e indietro, dagli studenti lì alloggiati.
Grace girò la chiave nella serratura. Il suo antro privato e confortevole le diede il benvenuto. Nell'aria stantia della stanza aleggiava della polvere, che si intravedeva attraverso i raggi di sole che si imbucavano tra le doghe socchiuse delle tapparelle. Un poster con raffigurato una Madonna giovane e sorridente si alternava a un quadretto di un paesaggio marittimo ad acquerello fatto da un artista amatoriale. Lia spalancò l'armadio affiancato al muro: vestiti invernali e indumenti di diverso tipo erano ordinatamente disposti al suo interno. «Ora tocca a noi», appurò.
Grace confermò: «Diamoci dentro e finiremo presto di spostare tutto. Destinazione? Camera 197». Trascinò uno scatolone contenente dei libri verso la nuova stanza, completamente vuota se non per il letto e un armadio. Lia la seguì, occupandosi di trasportare il comodino.
«Come va la gravidanza? Tutto ok?», le chiese.
Grace le aveva già raccontato cos'era successo, della decisione di tenere il bambino. Stava riflettendo sul modo e sul momento migliore per annunciarlo anche ai suoi genitori. Non voleva che le dessero della poco di buono e che si chiudessero a riccio nei suoi confronti.
«Ogni tanto accuso dei crampi al basso ventre, ma sopportabili. È normale...»
«Tutto è più sopportabile con un ragazzo d'oro come James al tuo fianco», ribatté Lia, accostando il comodino alla parete della camera 197.
«Già...», rispose Grace evasivamente. Nell'ultima settimana James non era stato molto partecipe. Il tempo che le dedicava era minore del solito e il suo coinvolgimento latitava. Diceva di essere molto occupato, che ci stava mettendo tutto sé stesso in un'attività per Mark. «Devo fare delle consegne, che mi frutteranno un buon gruzzolo. Niente di che, finita l'estate sarò più libero.» Così le aveva spiegato quando lei gli aveva chiesto di cosa si trattasse. «Ti penso sempre... come puoi constatare, quando sono libero corro da te.» Quelle parole le avevano lasciato qualche sospetto. James stava forse nascondendo qualcosa? Lia sbatacchiò involontariamente uno sgabello sull'uscio della camera. Lo sbam dell'impatto la discostò da quei pensieri: «Ops, scusami».
A Grace cadde lo sguardo su alcune scritte, incise in un angolo della parete della sua nuova stanza. Erano le classiche dichiarazioni d'amore adolescenziali. "Ah, a proposito..." Doveva parlare a Lia di Chloè.
Jeff le aveva fatto presente dell'interessamento che Chloè nutriva per la sua amica. La sua voce in chiamata era stata tentennante e denotava imbarazzo, ma, quando lei gli aveva confermato che Lia era lesbica, Jeff aveva strozzato a fatica un gridolino di gioia.
Grace si accinse a svuotare gli scatoloni e a sistemarne il materiale nelle mensole. Ne approfittò per spiegare a Lia il contenuto della telefonata.
«Che te ne pare di Chloè?» Finì di disporre i libri in piedi su una delle mensole, dagli esili romanzi rosa al mastodontico "I pilastri della terra" di Ken Follet. Quando Jeff le aveva parlato, era rimasta stupita dalla notizia dell'omosessualità di Chloè. «A me sta simpatica, e sembra essere molto dolce.»
«Sicuramente una tipa intrigante... non ti nego che potrebbe esserci dell'interesse.» Lia accennò un occhiolino.
"Ottimo. Posso riferire a Jeff che Chloè può farsi avanti senza timori", constatò Grace tra sé e sé. Era contenta che in futuro sarebbe potuto nascere qualcosa tra loro. Lia non aveva mai avuto una relazione e Chloè le sembrava una brava persona, responsabile e tranquilla.
Finì di mettere a posto la camera 197, fischiettando di buon umore.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top