Vecchi ricordi
Natasha gettò la sigaretta per terra, pestandola con il piede per spegnerla del tutto, mentre attraverso la nuvola di fumo tornò a guardare il nome del locale che aveva di fronte.
Per tutti sarebbe potuto essere un normalissimo ristorante, forse addirittura anonimo e privo di importanza, ma per lei era come una gigantesca scatola di ricordi che avrebbe voluto dimenticare. Perchè mai quel ristorante fosse stato protagonista di molte sue esperienze, non sapeva proprio spiegarselo, ma poteva azzardare un'ipotesi: era un luogo conosciuto e ben tenuto quando era giovane, e tutti lo frequentavano.
Ora però, se ne avesse avuta l'occasione, di sicuro lo avrebbe demolito.
Il rumore di una macchina che parcheggiava nei posteggi accanto a lei le fece distogliere lo sguardo, interrompendo quel mare di pensieri negativi che le frullava in testa.
James, con il suo vecchio cappotto di pelle ormai sformato, scese dalla macchina e andò dritto verso di lei, con gli occhiali da sole in faccia nonostante di sole proprio non ce ne fosse. Era stata sua l'idea, ovviamente, di incontrarsi proprio lì, e come mai Natasha non vedeva l'ora di saperlo.
«Ti credi in un film d'azione? Non sei un po' vecchio per quel cappotto ormai?»
«Ciao anche a te Natasha, sto bene, grazie dell'interesse.»
«Finiscila, normalmente non saremmo nemmeno qui, lo sai vero?»
James sospirò, togliendosi gli occhiali e appendendoli al collo della giacca. Non poteva negare che la donna avesse ragione, quel ridicolo teatrino di gentilezza faceva ridere i polli, per essere generosi.
Le fece cenno di entrare, mantenendole la porta aperta e dirigendosi verso il tavolo da lui prenotato, che guarda caso era sempre stato il solito, il così da lui chiamato “Tavolo delle brutte notizie”.
«Allora?» chiese Natasha, dopo aver preso in mano il menù, «Sì può sapere come mai volevi vedermi proprio qui?»
«Io e te abbiamo diverse cose da dirci, non sei d'accordo?»
«No, io e te non abbiamo nulla di cui parlare.»
«Invece sì»
I due si guardarono in cagnesco, unico sguardo che ormai conoscevano, e se non ci fossero stati vari fattori ad impedirglielo, probabilmente si sarebbero presi a coltellate. Invece restarono fermi a fingere di leggere il menù, tanto sapevano bene cosa avrebbero ordinato, anche il tavolo stesso lo sapeva.
Quando arrivò il cameriere, ordinarono due bottiglie d'acqua, una naturale e una frizzante, rigorosamente fredde da frigo, una braciola di maiale con un contorno di patate al forno e un piatto di spaghetti alla bolognese con aggiunta di peperoncino.
Poi, una volta rimasti soli, fu Natasha a rompere il silenzio: «Credo che anche il proprietario del posto ci conosca, il tavolo non è mai cambiato, che coincidenza.»
«Non riuscirai a scoraggiarmi, quindi che ti piaccia o no, io e te adesso parleremo.»
«Dov'è Dennis? È brutto che siamo fuori a pranzo senza di lui.»
«Natasha!»
Alcuni clienti si voltarono verso di loro, e James fece un cenno di scuse per aver alzato troppo la voce. La donna sospirò, arrendendosi finalmente al volere dell'uomo, senza però abbandonare la sua difesa. Quando arrivarono le bottiglie d'acqua, James bevve un grosso bicchiere tutto d'un fiato, idratandosi bocca e lingua e umidificando le labbra, screpolate dal freddo. Poi tornò a puntare i suoi occhi, così scuri e simili al figlio, verso la donna.
«Avevi sete?»
«Come siamo arrivati a questo?»
Natasha rimase senza fiato, colta di sorpresa da quella domanda: «Come siamo a cosa?»
«A questo! Come siamo arrivati ad odiarci? A malapena ci guardiamo in faccia.»
La donna rimase in silenzio, indecisa se pensare e pronunciare una risposta o concentrarsi sul suo piatto di pasta che le era appena arrivato.
In realtà come fossero arrivati a quello, lei lo sapeva, e fin troppo bene, ma per qualche ragione preferiva cercare di svuotare la mente. Solo che ormai era tardi, i pensieri avevano già preso il volo ed erano tornati indietro, ai tempi della sua gioventù.
***
Era il 1989, Natasha era al suo secondo anno di college, decisa a laurearsi il prima possibile per entrare subito come tirocinante in una grande azienda e diventare presto ricca e indipendente.
Aveva solo diciannove anni, ne avrebbe compiuto venti il Settembre dell'anno prossimo, ed era piena di sogni e speranze. Solo che, in contrasto con i suoi ferrei e buoni propositi, si era schierata la voglia di divertirsi e godersi gli anni migliori, gli anni della libertà come a lei piaceva definirli.
E così andò a finire, iniziato il secondo anno di college, Natasha era sempre fuori con le amiche una sera sì e l'altra pure, bevendo e fumando come se fossero state le uniche cose più vitali al mondo, elemosinare fumo e alcol paragonandoli ad ossigeno e acqua.
Cercava comunque di non mancare ai suoi doveri di studentessa, studiando meglio che poteva per gli esami, seguendo quasi tutte le lezioni dei suoi corsi e offrendosi, qualche volta, ad unirsi a qualche gruppo di studenti che decidevano di portarsi avanti col programma.
Ma più tempo passava fuori ai festini, più le sue forse iniziavano a venire meno, la concentrazione era sempre più difficile da mantenere, ma nulla che sembrasse sfuggire al suo controllo. Fino a quel fatidico giorno di Ottobre 1989, ad appena un mese dell'inizio del nuovo anno.
Era un giorno come tanti, o quasi, e Natasha si svegliò con il solito mal di testa post serata da urlo. I suoi capelli scuri e spesso sempre in ordine, quella mattina avevano l'aspetta della criniera di un leone finto, tipo quei pupazzi che i bambini maltrattavano fino allo sfinimento. Allungò una mano verso la sveglia, cercando di spegnerla prima che il cervello le schizzasse fuori dalle orecchie, ma il silenzio beato durò poco, perchè subito dopo qualcuno bussò alla porta con una foga incomparabile.
«Chiunque sia, è pregato di levarsi dal cazzo!»
«Ah! Allora sei resuscitata! Ieri sera sembravi pronta a schiattare.»
La voce squillante della sua migliore amica, Leandra, fu quasi più forte del trillo della sveglia. Se avesse potuto scegliere cosa ascoltare per tutto il giorno, in quelle condizioni, sicuramente avrebbe escluso la ragazza.
Leandra andò vicino al suo letto e le levò le coperte da dosso, facendole volare in un angolo vicino all'armadio sempre vuoto della stanza: «Hai intenzione di dormire tutto il giorno?»
«Perchè? Che ore sono?»
«Le 8.45, quindi temo tu abbia perso la prima lezione del giorno.»
«'Fanculo, tanto mi ero portata avanti col programma.»
«Quanto hai bevuto ieri sera? Vuoi un posto assicurato agli alcolisti anonimi?»
Natasha rise, tono tra il sarcastico e il divertito: «Se lo sapesse mia madre, a quest'ora starei decidendo dove farmi seppellire.»
Si alzò a fatica dal letto e si diede una veloce sistemata, l'intenzione di presentarsi sui banchi di scuola sempre ben truccata e in ordine l'aveva persa circa a metà del primo anno, prese la borsa semi vuota e seguì Leandra in caffetteria. Prima di tutto aveva bisogno di un grossa tazza di caffè amaro e scuro. Poi, sempre con molta calma, andarono nell'aula predisposta per la lezione successiva, una grossa stanza con i posti a gradoni semi circolari, banchi lunghissimi con uno scomparto appena sotto per libri e quaderni in più, tutti di legno chiaro.
Natasha si lasciò cadere sul primo posto che trovò libero. Leandra la seguì sedendosi accanto e posando la borsa per terra, quasi sopra i gradini. Mentre l'aula iniziò a riempirsi di studenti chiacchieroni, la ragazza si voltò verso Natasha: «Ci sei questa sera?»
«Questa sera?»
«Alla festa.»
«Festa?»
«Devo darti spiegazioni tipo dizionario? Sì Natasha, una festa questa sera.»
«Non posso, devo studiare. Ho un sacco di altri esami da recuperare perciò dovrai andarci senza di me.»
***
Finite le lezioni, Natasha andò in biblioteca per unirsi al gruppo studio e a un bar per mangiare qualcosa. Si perse a fare due passi fuori nella speranza di respirare più aria fresca possibile e poi, nonostante la voglia sotto ai piedi, tornò in camera e tentò di studiare. I suoi tentativi però non furono efficaci, Natasha si distraeva con qualsiasi cosa, banalmente con anche un pezzetto di gomma sporco. Alla fine, a dare il colpo di grazia alla sua poca voglia, sentì bussare alla porta e un rumore di tacchi spessi diversi centimetri rimbombarono nella stanza.
«Leandra... te l'ho già detto, devo studiare. Almeno oggi.»
«Lo so, volevo sono vedere se avevi cambiato idea. Oggi ci saranno anche dei miei amici quindi, pensavo di presentartene qualcuno.»
«Hey, la mia vita sentimentale non ti deve riguardare.»
«Ma è anche a questo che servono gli amici, giusto?»
Natasha scosse la testa e tornò a guardare il libro aperto, fissando le lettere scritte sopra senza però sentirne il suono. Doveva resistere per il bene della sua carriera scolastica, almeno prendersi qualche sera tranquilla per recuperare lo studio delle materie indietro, ma si conosceva troppo bene, e sapeva già che cosa sarebbe successo se Leandra non fosse uscita subito dalla sua stanza.
«Per favore!»
«Ah 'fanculo! Ok senti, facciamo un patto: io vengo, ma tu devi impedirmi di scolare tutta la scorta di alcol, chiaro?»
«Ci sto! Andata!»
La festa si rivelò un vero e proprio rave party dietro a un grosso centro commerciale, in mezzo ad un campo vasto e spazioso.
Natasha, vestita con il suo completo da festa preferito, seguì Leandra verso un gruppo di ragazzi che non aveva mai visto: erano in quattro in tutto e da come si salutarono, dovevano essere amici di vecchia data. Si presentarono come Caleb Izock, Luke Savarro, Jonathan Boke e infine, più in disparte e silenzioso, James Logan.
Con quest'ultimo Natasha non riusciva a legare, a differenza del resto del gruppo che sembrava piacevolmente divertito, perchè tendeva a farsi i fatti suoi, a partecipare poco alle battute e altro. Il che, si disse la ragazza, era un peccato, perché fisicamente parlando aveva un bel viso ed un'ottima prima impressione, sembrava esternamente una bella persona, un figo come lo avrebbe definito Leandra, da togliere il fiato e far sognare ogni ragazza.
Forse era lei ad avere il problema di non apprezzare la gente silenziosa, ma quel ragazzo proprio non le piaceva. Alla fine, per movimentare la festa, si decise di giocare a Beer Pong, e il proposito di Natasha di stare lontano dall'alcol svanì in pochi istanti.
Dopo forse il diciottesimo bicchiere di birra, la ragazza faceva fatica a distinguere quello che la circondava, a stare in piedi e a capire quello che le veniva detto. Era in pratica piombata in una specie di dimensione tutta distorta, confondendo le nozione da lei sempre sapute trasformandosi quasi in un'altra persona. Così, capitanati da Leandra, decisero di tornare al dormitorio del college, per riposare, bere e mangiare qualcosa di sano, nonostante fossero tutti ormai schiavi della sbronza.
«Che dici? Vuoi... entrare?» chiese Natasha non appena aprì la porta della stanza. Aveva deciso di non seguire gli altri, volendo invece sdraiarsi a letto per riposare, e solo uno di loro aveva deciso di vegliare su di lei affinché giungesse a destinazione, e quel qualcuno era James, ubriaco marcio quanto lei.
«Entrare e fare... cosa?»
«Quello che vuoi, il letto è grande... possiamo dormire insieme se ti va....»
Quello che successe dopo aver chiuso la porta, però, non fu una semplice dormita. Appena toccarono il materasso, la mente di Natasha iniziò a collassare cedendo ad ogni idea malsana che solo l'alcol poteva comandarle: «Sai che... vorrei vedere? La tua potenza.»
«Ovvero? Sollevamento pesi da ubriaco? Vinciamo il guinness world record delle morti idiote?»
«No! Voglio vederla... sotto le coperte...»
Tra la ragione e la sbronza, vinse la seconda. Natasha e James finirono sotto le lenzuola nudi e affamati ognuno del corpo dell'altra, cercando e ricevendo avidi i baci e le labbra, assaporando i propri odori e i propri sapori. Fu una lunga notte di passione.
***
La mattina dopo, Natasha venne accolta da un mal di testa ben peggiore di quello che aveva il giorno precedente, nuda, con il trucco rovinato e i capelli in disordine.
Si alzò a fatica dal letto scostando le lenzuola, realizzando dopo che non avesse vestiti addosso, ma non si fece troppe domande ricordandosi quello che aveva fatto la sera prima, tutto tranne un particolare che le si palesò davanti agli occhi non appena si voltò: «Cristo Santo! Che ci fai tu nel mio letto?»
«Io?» chiese James svegliandosi all'improvviso, «Be'...»
«Non mi dire che abbiamo dormito insieme!»
«Pare proprio di sì. Ma se preferisci...»
«Era retorico idiota! Siamo nudi sotto le stesse coperte, cos'altro potremmo aver mai fatto?»
James non rispose, si mise seduto e posò i gomiti sulle ginocchia. Si grattò dietro alla testa e poi, in silenzio, si alzò a rivestirsi per poi uscire dalla stanza, lasciando la ragazza seduta al suo posto a fissare il muro.
Da quella sera passò un mese, un mese fatto di lezioni pesanti per la mente affaticata di Natasha. Passava il tempo tra stanza e classe, cercando di studiare più che poteva ma senza grandi risultati, più leggeva e più le informazioni abbandonava la sua memoria. La maggior parte delle volte fissava solo le poche foto che il libro di testo le offriva.
Poi, per puro caso, il suo sguardo cadde sul piccolo calendario che aveva sulla scrivania. Fissò a lungo il mese in bianco, senza segni rossi o promemoria, e lì, come una scossa di elettricità, qualcosa le attraversò il corpo e la sua mano volò rapida sul telefonino.
«Pronto?»
«Leandra! Ho... ho bisogno di te...»
«Che succede?»
«Io...» le si seccarono la gola, la bocca e le labbra insieme, incredula per quello che stava per pronunciare, «Io ho...»
«Che hai? Dai parla!»
«Ho un ritardo!»
Da quel momento in poi, fu come se Natasha si trovasse su un vagoncino da miniera che viaggiava su dei binari completamente in discesa, ma non in senso positivo. Il risultato del test di gravidanza positivo, Leandra che fa mille domande in preda al panico, lei che deve avvisare la sua famiglia e il padre del bambino di cui però non sapeva nulla.
***
Natasha ritornò al presente, scuotendo la testa cercando di abbandonare quei terribili pensieri. Cosa le era rimasto di quei tempi? Nulla. Aveva solo ottenuto due cose da quella fatidica sera di Ottobre: l'odio di tutti i suoi amici e un figlio.
Tornò a guardare James che stava bevendo un altro bicchiere d'acqua. Sfregò i denti della forchetta sul piatto ormai quasi vuoto, sospirando. La domanda di James non l'aveva ancora abbandonata: come ci erano arrivati a quel punto? E a quale punto si riferiva? Posò la forchetta sul tovagliolo e fissò rigida l'uomo, che percependo il gesto alzò gli occhi verso di lei.
«A quale punto ti riferisci? A nostro figlio? Lo definisci un errore?»
«No! A quello che stai facendo tu mi riferisco. Ma ti ascolti? Ogni volta mi accusi di non amare nostro figlio, senza pensare però che chi non voleva farmelo vedere sei tu.»
«Non essere ridicolo, non ci sei stato per molto tempo.»
«Perchè tu me lo hai impedito.»
Natasha non rispose, non riusciva ad avere controllo dei suoi movimenti, sentiva le parole spingere verso le sue labbra per uscire, ma queste ultime rimanevano serrate, come incollate.
Inoltre sapeva esattamente cosa stava per dire James, e con gli occhi stava cercando di dirgli di non farlo, di non pronunciare quelle parole così taglienti, ma così terribilmente vere.
«Io so perchè ti attacchi così tanto a nostro figlio, perchè Dennis è tutto ciò che ti è rimasto da quel momento.»
«Non essere ridicolo.»
«Ma lo capisco, perché anche se non ci credi, anche io verso nelle stesse condizioni.»
«Per favore, stai cercando di fare la parte del caro uomo comprensivo? Oppure tutto questo teatrino è per provarci con la madre di tuo figlio?»
James si raddrizzò sulla sedia, stringendo i pugni e fissando Natasha con la bocca stropicciata: «Ero qui quando abbiamo dovuto dire a tuo padre che eri incinta di mio figlio.»
«Vuoi una medaglia?»
«E nonostante le difficoltà, ho cresciuto al meglio Dennis, non gli ho fatto mancare nulla, e non gli sto facendo mancare nulla nemmeno adesso, gli do perfino lavoro per vivere.»
«Ma che bravo! Aspetta che cerco il trofeo “padre dell'anno”. Spero tu abbia un caminetto dove esporlo.»
«Natasha! Fammi il favore di essere seria per una volta.»
Natasha rimase in silenzio, portando il suo sguardo altrove, forse verso una coppia poco lontano da loro che, in contrasto, sembravano le persone più felici del mondo, la ragazza era pure incinta.
Anche lei avrebbe voluto vivere quel magico momento con un futuro marito che sarebbe morto per lei. Invece aveva dovuto affrontare l'ira di suo padre che, nonostante il grande amore che provava per lei, non aveva mai accettato la sua gravidanza. In quel silenzio anche James tornò indietro coi ricordi.
***
Novembre 1989, James aveva appena finito il turno del mattino e stava andando in una tavola calda a consumare un pranzo veloce. Aveva appena ventun'anni, finite le superiori non si iscrisse al college e preferì andare a cercarsi un lavoro.
Aveva svolto qualche lavoretto di poco conto prima di finire come tirocinante in un'agenzia immobiliare gestita da un tizio panciuto poco sveglio e piuttosto arrogante. Non si lamentava dei turni, ma lo stipendio non valeva proprio i mille sforzi che faceva. E fu proprio durante la sua tanto sudata pausa pranzo che arrivò la telefonata della sua amica Leandra.
«Pronto?»
«Hey! Come butta pacciochino mio?»
«Smettila di chiamarmi così, non lo sopporto.»
«Come sei noioso. Comunque, questa sera Luke mi ha detto che ci sarà una mega festa dietro al centro commerciale, quello grosso vicino alla stazione, non ricordo il nome scusa.»
«E?»
«Come “e”? Dovevi dirmi se ci saresti venuto o no.»
James si pulì i baffetti dalle briciole del toast che stava mangiando, sospirando pensando al possibile risultato: Leandra ubriaca e lui che insieme ai suoi amici dovevano riportarla al college sana e salva. Appoggiò i gomiti al bancone mentre con la mano libera dal telefono prese il bicchiere per bere un sorso d'acqua.
«Allora? Ci sei o no?»
«Non ti bastano già tre crocerossini nel caso bevi troppo?»
«Tranquillo, nessuno porterà nessun ubriaco a casa, promesso.»
La promessa, però, non venne mantenuta. James fu costretto a fare la conoscenza di Natasha, una ragazza che non aveva mai visto e che a pelle non apprezzava, bevve diciotto bicchieri a Beer Pong e infine, schiavo della sbronza, consumarono insieme un'intensa notte di passione.
La mattina dopo, ripresosi dalla bevuta, ricordarono entrambi che in realtà non si piacevano, così tra il panico ben mascherato e l'imbarazzo, James prese i suoi vestiti e se ne andò, ricevendo anche una ramanzina dal suo datore di lavoro per le condizioni pietose e il ritardo con cui si era presentato.
Di Natasha, da quel momento in poi, non seppe più nulla per un mese intero, il ragazzo era semplicemente tornato alla sua solita vita casa lavoro, uscendo di tanto in tanto con gli amici. E un mese dopo, agli inizi di Novembre, quando le temperature iniziarono a scendere, James ricevette una telefonata da Leandra che gli imtimava di raggiungerla al campus per una questione molto importante da risolvere.
Appena parcheggiò la macchina, le due ragazze lo stavano aspettando proprio all'ingresso, e non sapeva bene spiegarsi perchè ma quell'immagine gli mise i brividi, sembravano due boia in attesa del condannato.
***
«Tu sei... cosa?!»
«Sono incinta... e il padre sei tu.»
«Oh... oh Dio io... non so che cosa dire.»
Natasha stava ferma contro il muro della sua stanza, mentre si mordicchiava le nocche, Leandra faceva saettare lo sguardo tra i due e James era seduto alla scrivania con gli occhi fuori dalle orbite. In tre secondi rivide quella notte di passione nei minimi dettagli: i loro occhi accecati e offuscati dalla birra, il modo in cui le loro mani si cercavano, le labbra che accarezzavano la pelle, e un profilattico che non venne mai usato perchè nessuno lo possedeva.
A quel punto le due ragazze su misero a litigare, urlare e infine piangere. Leandra intimava a Natasha di interrompere la gravidanza, ricattandola con la loro amicizia, e la ragazza che tra le lacrime diceva che non aveva ancora deciso, che non ne aveva ancora parlato coi suoi e che aveva bisogno di tempo, rilfettendo che probabilmente avrebbe dovuto lasciare gli studi.
«Bene!» disse infine Leandra, esasperata, «Se è così che stanno le cose, allora non azzardati né a chiamarmi e né a cercarmi più!»
Poi la porta sbattè prima che un silenzio terribile, rotto solo dai singhiozzi silenziosi di Natasha, invase la stanza. James fissò il vuoto non avendo il coraggio di muoversi. Quella situazione era davvero troppo per loro, erano troppo giovani, lui addirittura appena maggiorenne mentre Natasha da quello che poteva vedere aveva appena preso la patente.
Non aveva mai avuto il desiderio di una famiglia, e ora si ritrovava a dover sistemare una perfetta estranea con suo figlio in grembo.
Si alzò dalla sedia e andò verso la ragazza, allungando una mano che si posò sulla sua spalla, nel tentativo di consolarla, ma lei lo spinse via e gli ordinò: «Vattene! Sparisci! Hai già fatto abbastanza danni, fammi il favore di non peggiorare tutto!»
«Quindi sarebbe solo colpa mia?»
«Io da sola non posso mettermi incinta! Cosa mi dici?»
«Be', nemmeno io posso mettere incinta una a caso così, sai?»
«Esci da qui, prima che possa fare qualcosa di cui potrei pentirmi!»
«Con piacere! E comunque un bambino si fa in due! Prenditi la tua parte di colpa principessa sul pisello!»
E detto questo, James uscì dalla stanza sbattendo la porta. Da lì in poi ci furono sei mesi di silenzio e indecisione: James si era fatto dare da Lenadra il numero di telefono di Natasha, e ogni mese le scriveva che, qualora fosse stata presa una decisione, voleva a tutti costi essere avvisato e partecipe.
Ormai superato il terzo mese sapeva che Natasha aveva deciso di escludere l'aborto, ma rimaneva ancora l'opzione dell'adozione. Ebbene, voleva sapere tutto anche di quello, da chi si sarebbero rivolte la ragazza e sua madre, chi fossero i potenziali genitori e dove si sarebbero spostati se mai avessero deciso di trasferirsi. Ma una cosa in particolare sentiva di saperla molto bene: se questa fosse stata la decisione finale lui non sarebbe mai stato d'accordo, in cuor suo aveva alla fine deciso di prendersi se possibile tutta la responsabilità da padre, anche a costo di andare contro la sua famiglia e crescere quel bambino da solo.
Un messaggio di Natasha diede finalmente fine a quel calvario di dubbi, gli chiedeva di incontrarsi al ristorante “Babbisos 99” per discutere insieme della faccenda.
James arrivò in anticipo rispetto all'orario stabilito. Con quel messaggio che ronzava nella sua testa lavorare era risultato quasi impossibile, aveva cercato in tutti i modi di decifrare quello che lo attendeva. Natasha aveva deciso cosa fare con la gravidanza? Ne aveva parlato coi suoi? Poteva succedere di tutto quella sera.
Due fari lo riportarono sul pianeta terra, e quando la macchina parcheggiò e si spense del tutto, ecco che chi la guidava scese dalla macchina con fatica: Natasha con il suo pancione era irriconoscibile, non indossava più vestiti molto corti e tacchi alti, ma anzi, sembrava quasi maturata di più, con indosso un pantalone di tela largo ma elegante e una felpa bianca con scollo a V e cappuccio.
«Allora? Che avevi da dirmi?»
«Dopo sei mesi che non ci vediamo, cominci così il nostro incontro?»
«Sono qui solo per il bambino.»
«Ok, ok. Sì, ho preso una decisione riguardo a questo.» si indicò la pancia, «E ho deciso di tenerlo e diventare mamma, con o senza il tuo contributo.»
«Ah ottimo, bene, perchè anche io ho deciso che voglio tenerlo ed essere padre, con o senza la tua collaborazione.»
I due so guardarono in silenzio per un po' negli occhi, consapevoli che entrambi, in un modo o nell'altro, sentivano di aver fatto una scelta se non saggia, almeno giusta. In quel momento, il bambino diede un calcetto a Natasha.
«Un'altra cosa.» disse James portando il suo sguardo al ventre della ragazza, «È maschio o femmina?»
«Sei fortunato anche in questo, è un maschietto vivace, forte e sano.»
***
Il cameriere portò loro due tazze di caffè fumanti e sparecchiò i piatti vuoti. James ritornò finalmente sulla terra, e la stessa cosa la fece Natasha, che riportò il suo sguardo sull'uomo.
Un silenzio tombale lì avvolse, complice la sala ormai quasi vuota per l'orario di chiusura della cucina. Mentre i due cucchiaini giravano nelle tazze, Natasha prese un lungo sospiro infastidito ripensando a come tutto quell'assurdo discorso fosse inziato, poi disse: «Allora? Tutto questo per dirmi che cosa?»
«Te l'ho già detto. Io so perchè fai così, perchè mi attacchi e allontani tutti. E che tu ci creda o no è lo stesso che provo io, Dennis è tutto ciò che ci è rimasto del passato, non è vero?»
Natasha tacque, alzandosi dal suo posto e cercando il portafoglio nella borsetta. Quando arrivò alla cassa, fece per allungare la carta di credito, ma una mano con delle banconote tra le dita la precedette. James pagò il pranzo al posto suo, poi senza dire altro le aprì la porta del ristorante e le fece cenno di uscire.
Prima di risalire in macchina, nel parcheggio, l'uomo ripensò ad un'ultima cosa da dire: «Sai cosa abbiamo sbagliato? Non abbiamo insegnato a nostro figlio che cosa sia l'amore.»
«Che vorresti dire?»
«Dennis non sa cosa voglia dire amarsi, e lo ha dimostrato più di una volta, sia con me che con te, in qualunque situazione, forse avremmo potuto essere dei genitori migliori, sotto questo aspetto almeno.»
«Lo abbiamo amato per tutta la vita, non dire certe sciocchezze.»
«Sai che non mi riferivo a quel tipo di amore.»
«Sono comunque sciocchezze, Dennis ci ama tantissimo invece.»
«No, non è così, o lo è in parte. Quello che Dennis provava da bambino verso di noi non era amore, era possessione, e non era sano per nessuno.»
James risalì in macchina, mise in moto e se ne andò alla fine, lasciando Natasha in mezzo al marciapiede deserto, a fissare l'auto sporca che spariva all'orizzonte e quelle parole severe che le fecero rivivere i momenti peggiori della sua vita.
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