Parte 9 - Un amore non richiesto

La luna squarciava con lame di luce lo spesso strato di nubi blu che la coprivano, rendendone dorati i bordi frastagliati.

Giacinto amava osservare il cielo durante la notte, mentre inspirava sulla balconata l'aria colma dei profumi del bosco. Adesso che aveva a disposizione un comodo letto, non riusciva ugualmente a prendere sonno. Era la prova della crypteia a preoccuparlo.

Un pugno che batteva sulla porta lo riscosse. Sorrise, pensando che fosse Polibea. Cercavano di passare insieme quanto più tempo possibile, per recuperare quello perduto, e ultimamente farlo di notte era più semplice. Sentivano entrambi che quando la luce investiva il palazzo riluceva su un'aria colma di tensione, in cui era difficile lasciarsi andare alle confidenze.

Con un passo rapido raggiunse la porta e l'aprì.

Ti aspettavo stava per dirle, ma le parole gli morirono in gola.

Davanti a lui stava Cinorta, il sorriso soddisfatto sulle labbra e un luccichio negli occhi di onice che Giacinto non sapeva mai come interpretare.

Gli sarebbe piaciuto che fosse venuto prima, che si interessasse a lui, ma da quando era tornato dalla caserma si era reso conto che i suoi fratelli erano troppo impegnati con la politica per dargli importanza.

Era sicuro che se avesse dimostrato più interesse verso lo stato, il governo e il trono, lo avrebbero addirittura odiato.

«Aspettavi qualcuno?», domandò Cinorta, la voce grave. «Di certo non una schiava per farti compagnia».

«Non dovresti stare con tua moglie?», ribatté lui.

«Mia moglie dorme adesso. Ho già fatto con lei tutto quello che il mio dovere di marito e di cittadino spartano mi impone. Ora posso dedicarmi a te».

Giacinto si morse le labbra. «Stavo andando a letto».

Cinorta gli posò una mano sulla spalla con fare paterno. «Volevo trascorrere un po' di tempo insieme e farti rilassare prima della prova».

«Non credevo ti interessasse. Hai fatto un sacco di storie per accompagnarci ai Giochi».

Il viso di Cinorta si contrasse in un'espressione seria. «Questo è diverso. Il tuo interesse per le attività atletiche non dovrebbe mai superare quello per la arti militari. Andiamo a fare una passeggiata, prendi il mantello», gli disse in tono tanto autoritario che lui non trovò la forza di opporsi.

Cinorta poteva avere tanti difetti, ma sembrava essere nato per governare e dare ordini. Se sarebbero stati buoni ordini, questo non lo avrebbe ancora saputo dire.

Scesero le scale di pietra, le sale arricchite dagli arazzi e gli affreschi.

Fuori dal portale di bronzo Giacinto respirò l'aria fresca della sera, il profumo dei boschi e delle foreste del Taigeto che lo facevano sentire a casa. Forse suo fratello aveva ragione, una passeggiata era quello che ci voleva per rilassarlo.

«Vuoi darmi dei consigli?», gli domandò, per la prima volta speranzoso di ricevere da lui un aiuto.

«Anche. Voglio innanzitutto che cominci a capire quali siano i vantaggi di essere un uomo a Sparta. Viviamo per lo stato, non veniamo indeboliti dal lusso, dalle raffinatezze degli ateniesi che si credono tanto superiori, ma che in una guerra contro di noi perderebbero. Siamo spartiati, cittadini per eccellenza e con pieni diritti, non devi mai dimenticarlo».

Il riferimento era agli altri: agli iloti, i non cittadini, i senza diritto, gli schiavi. Persone che potevano essere sacrificate.

La notte a Sparta era silenziosa, il fiume Eurota mormorava appena e a invadere l'aria era il crepitio lontano della foresta, che palpitava di vita sui versanti del monte Taigeto a ovest e del Parnone a est.

Cinorta, al contrario di Argalo, non era mai stato di molte parole. Argalo, prima che Giacinto partisse per l'agoghè, si prendeva del tempo per spiegargli i giochi, per raccontargli come funzionava lo stato e quello che avrebbe fatto quando sarebbe diventato re. Lo dava per scontato. Una moglie. Un figlio. Il trono assicurato in quanto erede.

Cinorta, invece, non gli raccontava di come si sarebbe comportato se e quando sarebbe diventato re. Si comportava, con lui e con Argalo, come se già lo fosse. Parlava in modo spiccio, e senza tanti giri di parole colpiva dove faceva più male: un difetto altrui per lui era un'arma a suo vantaggio.

Camminarono lungo le strade lastricate, e Giacinto non si stupì che i consigli di suo fratello si fossero limitati a pochi commenti sullo scarso valore degli iloti. Forse, sarebbe stato più loquace una volta raggiunta la meta, anche se non aveva idea di quale fosse.

Quando cominciarono a inerpicarsi lungo la collina adiacente all'acropoli, Colone, Giacinto pensò che volesse raccomandarlo agli dèi. «Se era un sacrificio quello che volevi fare, potevamo venirci di giorno, alla presenza di un sacerdote».

Cinorta gli rivolse un sorriso sbieco. Se gli avesse detto direttamente che era un idiota, avrebbe avuto la stessa espressione. «Voglio farti rilassare. Ai sacrifici ci penseremo dopo la tua vittoria».

Il fallimento della prova era fuori discussione. Giacinto provò la stessa sensazione che gli stringeva il petto quando il maestro lo puniva. Sentiva l'umiliazione pungergli la pelle.

Una folata di vento disperse le nubi e una lama di luce madreperlacea rischiarò le sei colonne scanalate del tempio di Dioniso, il frontone rosso su cui erano scolpite altre figure divine, il tetto a spiovente. Dall'interno si spandeva la luce delle fiamme tremolanti dei bracieri.

«Non capisco», disse Giacinto. Voleva solo tornarsene a casa, non pensare più alla crypteia, all'agoghé, a quello che era accaduto ai Giochi Pitici.

«Lo immaginavo», disse suo fratello. Gli fece un cenno con la testa verso la macchia di alberi che si addensavano sulla collina.

Prima che il sentiero sterrato si perdesse nella foresta, sorgeva, a mala pena illuminata dalla luna, la sagoma di un edificio dalle pareti di legno. Un braciere ne segnalava la presenza, e man mano che ci si avvicinava si udiva una musica soave che si spandeva dall'interno.

Cinorta gli mise una mano dietro la schiena, forzandolo ad accelerare il passo. Entrarono in quella casa senza che nessuno facesse domande. All'interno la musica si mescolava al chiacchiericcio, alle risate lievi, al mormorio di discussioni tra uomini e donne. Donne vestite elegantemente, ma troppo ingioiellate per essere cittadine spartane.

«Mi sembrava giusto che godessi dei piacerei della vita, prima della prova finale che ti attende. Eccoti le migliori etère di Sparta».

Giacinto inspirò il profumo acre del fumo, e quello dolce dell'incenso e delle rose. Le pareti erano affrescate con decori floreali, ma i gemiti che provenivano dalle stanze da cui si aveva accesso al piano superiore rivelavano la natura del luogo. Giacinto sapeva chi erano le etère. Nel dormitorio della caserma i racconti e i dettagli piccanti, forse più immaginati che vissuti, fiorivano spesso sulle labbra dei giovani adulti.

Le etère intrattenevano gli uomini, come dimostravano le animate conversazioni che anche in quel momento stavano avvenendo sotto i suoi occhi, ma spesso erano straniere a cui non rimaneva altra possibilità se non vendersi in quel modo. Probabilmente ilote.

Una donna si avvicinò con passo deciso. Attirava gli sguardi quando si muoveva, i bracciali tintinnanti ai suoi polsi, una fascia dorata decorava il suo braccio tornito e altri fermagli le trattenevano i capelli dorati.

«Tua moglie lo sa?»

Cinorta sbuffò. «Mia moglie non ha niente di cui lamentarsi, al contrario di quella di Argalo».

«Non esagerare», lo ammonì lui.

Cinorta corrugò la fronte, forse stupito dal piglio deciso con cui gli si era opposto. «Gli Ateniesi ci rimproverano sempre della nostra rozzezza, delle libertà delle nostre donne. Ci mancherebbe che gli uomini non abbiano le proprie».

Giacinto ingoiò le proteste con cui avrebbe voluto zittirlo. Se quelle donne erano ilote, il giorno della crypteia avrebbe dovuto lottare con un uomo della loro stirpe, forse con un fratello o un compagno. Forse con qualcuno a cui volevano bene.

«Se pensi che questo mi aiuti, ti sbagli. Voglio tornare a casa».

Suo fratello gli rivolse uno sguardo annoiato. «Siamo nei pressi del tempio di Dioniso, chiedi a Lysios di aiutarti a metterti a tuo agio».

Lysios. Colui che scioglie. Era uno degli epiteti del dio del vino e dell'estasi. Giacinto avrebbe dovuto pregarlo di sciogliere i lacci della sua inibizione, delle sue riserve, di quello che lo rendeva diverso dai suoi fratelli.

L'arrivo della donna lo riscosse. Le sue iridi scintillavano, lo stesso colore delle castagne tra le foglie rossastre dell'autunno.

«Aspasia», disse Cinorta, una nota di ammirazione nella voce.

«Volete una coppa di vino?» Aspasia schioccò le dita verso un'altra ragazza, che si aggirava tra i tavoli con un paio di coppe dorate tra le mani.

«Possiamo sederci, ma prima vorrei che mettessi a mio agio mio fratello. Ha una prova importante da affrontare».

Aspasia lo fissò, per un momento il suo sguardo si tinse di una luce febbrile. Giacinto non ebbe dubbi che avesse capito a cosa Cinorta si riferiva.

Mi odia. Odia tutti gli spartani. Come fa Cinorta a non capirlo?

«Certo», rispose Aspasia con voce docile. «Frine, vieni qui», chiamò un'altra ragazza.

La giovane li raggiunse, una coppa dorata in mano. «Eccomi». Gli occhi castani passarono in rassegna lui e suo fratello, ma quando Aspasia indicò Giacinto, gli rivolse un sorriso e gli offrì la sua coppa.

Giacinto l'afferrò, solo perché aveva bisogno di mandare giù qualcosa che gli bagnasse la gola. Il sapore dolciastro del miele gli diede sollievo, anche se il cuore continuava a martellargli nel petto, per rabbia e per un senso di ingiustizia che non riusciva a spiegarsi. Di quelle persone non doveva importargli.

Frine gli posò una mano sulla spalla. Sulla sua pelle olivastra rilucevano i bracciali dorati e spiccava la tunica candida che una spilla bronzea fermava sulla spalla. Quando si muoveva la morbidezza del seno rischiava di rivelarsi nella sua bellezza.

Se Giacinto fosse stato come suo fratello, gli si sarebbe fermato il cuore nel petto, stretto dal senso di anticipazione che precedeva il contatto con tanta bellezza. Ma lui non era come Cinorta.

«È istruita?», domandò Cinorta ad Aspasia.

«Come la maggior parte di noi», disse lei.

Cinorta la squadrò. «Occupati di mio fratello», le disse con l'aria del padrone.

Frine prese Giacinto per mano e lo guidò fino a un tavolo libero. La tunica celeste seguiva i suoi movimenti, fino a quando non si sedettero. Giacinto si liberò del mantello.

«Avrei potuto aiutarti io», disse Frine.

Lui scosse la testa. Le fiaccole scaldavano la stanza e nell'aria aleggiavano i profumi delle focacce e della carne. Un musico pizzicava le corde della cetra. Non aveva la stessa grazia di Tamiri né quella divina di Apollo.

Giacinto trangugiò un altro sorso di vino. Voleva solo dimenticare gli ultimi giorni e quelli che sarebbero venuti. Forse il vino poteva aiutarlo, forse suo fratello Cinorta aveva ragione.

Cosa ci avevano guadagnato lui e Argalo dalla mitezza?

Frine gli accarezzò una mano. La sua pelle era calda. «Hai visitato il tempio di Dioniso?»

«È molto che non ci vado».

«Immagino. Sei giovane, esci appena dalla caserma, suppongo».

«Supponi bene». Giacinto si sottrasse al suo tocco. Lo invase ancora un senso di inadeguatezza, la sensazione di trovarsi fuori posto. Cercò suo fratello con lo sguardo, ma quello già stringeva tra le braccia Aspasia, già si era dimenticato di lui, e pensare che per un momento si era illuso che volesse davvero rafforzare il loro legame.

«Le nuove statue di rame non sono meno belle di quelle dedicate ad Atena», riprese Frine. Si alzò, vedendo che lui non le aveva risposto, e si mise alle sue spalle, le mani a sfiorargli la nuca in un massaggio che ebbe la capacità di rilassarlo. «Possiamo continuare di sopra», gli sussurrò all'orecchio. Le sue dita affondarono nella sua pelle, giusto alla base della nuca. Risvegliarono i suoi nervi, qualcosa che sperava gli si accendesse nel petto.

Giacinto si alzò. «Va bene», disse.

Frine gli prese una mano, lo guidò al piano superiore, lungo le scale scricchiolanti. Gli affreschi sulle pareti del primo piano cadevano a pezzi, e l'aria vagamente raffinata del piano nobile si sgretolava contro la realtà più aspra di quel luogo. Su un mobile baluginò la superficie di uno specchio, il cui manico era costituito da una statuetta di una donna nuda.

Nel corridoio i gemiti si alternavano al silenzio. La musica arrivava attutita, e a far vibrare l'aria erano urla improvvise, imprecazioni.

Passarono accanto a due stanze le cui porte erano chiuse, poi i lamenti si fecero più nitidi, senza essere attutiti dalla porta, che qualcuno, forse nella fretta, aveva lasciato aperta.

Giacinto si arrestò. Illuminati dalle fiaccole due corpi si univano nell'amplesso. Una donna, di cui si vedeva il profilo ansante e i capelli castani sparsi sul letto, accoglieva le spinte di un uomo che le tratteneva i polsi sul letto.

«La solita Laide, si distrare spesso. Le ho detto tante volte di chiudere la porta», disse Frine.

Lui rimase a guardare. Le immagini gli riportarono alla mente quello che aveva visto nel bosco quando viveva nella caserma: Castore, il modo in cui si lasciava amare da un compagno, come avrebbero fatto uno schiavo o un etèra. Quello che vedeva adesso gli sarebbe dovuto piacere, avrebbe dovuto provare la stessa eccitazione che lo aveva invaso quella notte davanti ai corpi nudi di due uomini, avrebbe dovuto aver voglia di trascinare Frine in una stanza e prenderla allo stesso modo. Invece, rimaneva immobile.

Frine gli accarezzò la guancia. «Ti piace guardare?», mormorò suggestiva.

Giacinto si allontanò di un passo.

Negli occhi della donna passò un lampo di preoccupazione. «Ho fatto qualcosa che non va?»

«Dirò a mio fratello che sei stata perfetta, non preoccuparti. Devo andarmene da qui».

«C'è un'altra uscita, in fondo al corridoio».

Lui annuì, e corse fino a raggiungere l'uscita e l'aria fresca della notte.

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