Parte 8 - Il primo incontro
Apollo sollevò la lira, pizzicò le corde. L'avorio dello strumento e le pietre preziose che lo ornavano rifulgevano alla luce di una giornata d'estate. Gli occhi dei partecipanti ai Giochi Pitici si fissarono sulle sue mani, scivolarono sul suo strumento.
Apollo l'aveva presa a Pan, quando, un giorno stanco dell'Olimpo e animato da una nuova ambizione, era andato a cercare il Satiro, dio della natura.
Lo aveva trovato in Arcadia, regione poco abitata, in una foresta che sapeva di terra bagnata e di vino mescolato al miele. Pan se ne stava seduto su un tappeto di foglie, le gambe di capra distese, una ninfa accanto con il capo posato sulle sue ginocchia.
Apollo lo aveva sfidato in una gara musicale, animato da una sete che non si placava mai. Quanto poteva essere tediosa l'eternità? Lui era un dio luminoso, ma solo perché riusciva a trovare nuove sfide che lo allietassero.
Le Muse lo avevano giudicato vittorioso e Pan, più preso da piaceri della carne e della natura che dalla competizione, gli aveva ceduto la lira senza fare storie.
Apollo ne pizzicò ancora le corde con le sue dita lunghe. Le teste e i volti dei mortali che si agitavano davanti alla corsa dei carri o a un incontro di pugilato gli sembravano tutte uguali, sommerse nell'ombra che spettava agli umani, anticipo del buio che li avrebbe accolti per sempre nell'Ade. Il posto che meritavano, in fondo.
Le prime note si diffusero nell'aria, lievi e dolci. Apollo pensava che non le meritassero. A loro piaceva la brutalità del sangue, come facevano ad apprezzare la sua musica?
Rimpianse le Muse, la leggerezza con cui lo circondavano.
Eppure, lo ascoltavano immobili, ammansiti come il gregge di Admeto a cui aveva dovuto fare da guardia per nove anni dopo essersi macchiato della colpa di aver ucciso i Ciclopi. Lui non la considerava una colpa, ma non sempre gli altri dèi condividevano le sue opinioni.
Ipocriti.
«Lo sappiamo che sai suonare. Dacci un taglio, almeno qui», lo riscosse Artemide, al suo fianco.
Le piaceva rimproverarlo, ma era comunque lì con lui. Se doveva presiedere per forza i Giochi, come punizione per aver liberato il mondo dal mostruoso figlio di Gea, aveva almeno diritto a un diversivo. Aveva fermato il carro del sole a metà della volta del cielo, al punto giusto affinché le ombre fossero corte e non lo oscurassero.
Suonò più intensamente, costringendo i mortali a sollevare lo sguardo, a incrociare il suo. Tra la folla adorante c'era un giovane che mai aveva abbassato la testa. Non per superbia, ma perché, come spesso accadeva, la meraviglia di trovarsi di fronte un dio era difficile da sostenere. Stordiva e faceva perdere il fiato, così gli avevano raccontato le ninfe. Così gli aveva raccontato la principessa Acacallide, sua ultima conquista.
Lo guardò meglio. Le dita si accavallarono, una nota stonata impercettibile alle orecchie mortali vibrò nell'aria. Si morse la lingua e si sfiorò la corona d'alloro. Le iridi di smeraldo del giovane gli avevano fatto perdere la concentrazione. Vi lesse meraviglia, poi qualcosa cambiò.
Il volto del giovane si contrasse, le labbra carnose piegate in una smorfia, incastonate in un viso che nessun scultore aveva mai cesellato così perfettamente. I riccioli color miele gli sfioravano la base del collo, si inanellavano catturando i riflessi dorati della luce, il naso all'insù era delicato come le zagare non ancora sbocciate che spuntavano tra le foglie verdi. I pugni stretti lungo i fianchi dalla vita sottile rivelavano una furia malcelata.
Gli mancò il fiato. A lui, un dio, perché il giovane era il più bello che avesse mai visto, e perché nei suoi occhi non leggeva più ammirazione, ma un sentimento che raramente gli uomini avevano il coraggio o la forza di nutrire verso le creature immortali.
Apollo era abituato alla riverenza, alla sottomissione, a chi si faceva da parte per farlo brillare. Abbassò la lira. L'aria si riempì di silenzio. Il giovane continuava a fissarlo, i pugni stretti.
Apollo fece un cenno con la mano affinché i giochi riprendessero. I pugili, dopo un ultimo momento di smarrimento, tornarono a sollevare le braccia e a molleggiare sulle punte dei piedi. Il sangue presto colò sui loro volti, rumori di nocche che si infrangevano contro le mascelle, odore acre di sudore e olio da cui le note profumate degli unguenti erano da tempo svanite. Gli spettatori adesso applaudivano, gridavano frasi di incoraggiamento, ma il giovane rimaneva lì, impassibile, per nulla interessato al combattimento.
«Chi è quel ragazzo?», domandò Apollo.
«È molto bello per essere un uomo», commentò Artemide, una nota di sarcasmo nella voce.
Apollo le rivolse uno sguardo irritato.
Lei prese posto sul sedile di pietra. «È Giacinto, il figlio del re di Sparta, fratello di Argalo e...»
«Come mai la fama della sua bellezza non è arrivata all'Olimpo?», la interruppe lui.
«All'Olimpo o a te?»
«Non ho sentito Afrodite lamentarsene come ha fatto con la povera Psiche».
Un pugile cadde a terra, il movimento rapido dei piedi del suo rivale fece sollevare uno sbuffo di polvere. Artemide si prendeva il suo tempo per rispondere. Proprio quando stava per perdere la pazienza, lei si decise a parlare.
«È modesto, e non è una donna. Cosa vuoi che interessi ad Afrodite?»
Il giovane principe di Sparta aveva abbassato lo sguardo, per nulla interessato all'esito del combattimento. Il pugile a terra ansimava, le dita a stringere l'aria che gli scappava dal petto. Le urla dei suoi tifosi si tingevano di insoddisfazione, mentre gli altri esultavano.
Apollo scese sulla pista, tra loro. «Basta. Che venga premiato quest'uomo con una bianca giovenca e un tripode di bronzo».
I mortali si affrettarono a ubbidirgli e si strinsero attorno al vincitore. Apollo ne approfittò per attraversare la folla, andare dal lato opposto della pista, dove c'erano altre gradinate,
Raggiunse Giacinto, ancora in piedi e disinteressato ai pugili. Una donna accanto a lui si schiarì la gola, le iridi nere lucide di curiosità.
«Principe di Sparta», disse Apollo.
Il giovane sollevò il capo, un fremito sulle labbra serrate. Nessuna parola di sottomissione gli sfuggì dalla bocca.
Apollo non era stupito della sua fierezza. Sapeva che gli spartani erano duri, abituati a una ferrea educazione fin da bambini, lontani dalle mollezze di certi Ateniesi, e più valorosi di alcuni dèi, ma c'era un limite da non superare.
La donna e l'uomo che lo accompagnavano chinarono il capo. Artemide gli aveva detto che si trattava degli altri figli del re di Sparta, Polibea e Cinorta. Lo sguardo della giovane scivolò insistente sulla sua lira d'avorio. Per un po' anche le ragazze spartane apprendevano i rudimenti della musica e della poesia, prima di dedicarsi alla ginnastica.
«Siamo onorati di essere qui a Delfi», disse Cinorta.
«Lo siete tutti e tre?», domandò Apollo, e non poté evitare di sorridere. Il potere lo aveva abituato a ricevere le risposte che voleva. Attendeva il sì di Giacinto, il modo in cui sarebbe fiorito sulle sue labbra, l'espressione cedevole che avrebbe tinto le sue iridi smeraldo.
Era lecito trovarlo così bello?
Agli dèi tutto è lecito.
Giacinto sollevò la testa di scatto, il mento scavato da una fossetta si rivelò nella sua forma arrotondata e regolare. Gli fece venire in mente una mela dorata.
«So chi sei», proruppe il giovane, lo sguardo di fuoco.
Se fosse stato una ninfa, non ci avrebbe pensato due volte a...
Apollo deglutì, respinse l'osceno pensiero.
Giacinto fissò la corona d'alloro che gli cingeva il capo. In un gesto istintivo Apollo la sfiorò. Sotto le dita le foglie allungate dal bordo frastagliato erano al loro posto. Perfettamente in ordine, come si conveniva a un dio. Il profumo gli ricordava ancora Dafne, i suoi capelli ramati che ondeggiavano al vento, le gambe affusolate che correvano tra i cespugli. Era la ninfa che aveva creduto di amare, ma che aveva preferito trasformarsi in una pianta e affondare radici nella terra piuttosto che cadere tra le sue braccia.
Giacinto sollevò una mano, fino a sfiorare le foglie d'alloro, il volto arrossato. «La tua corona ricorda a tutti il destino che tocca alle persone che ami, il destino che è toccato a Dafne, mia sorella».
Le parole lo colpirono come sassi. Artemide si era guardata bene dal dargli quell'informazione. Non aveva mai incontrato l'odio di un uomo, ma doveva somigliare molto a quello che Giacinto provava per lui.
«Perdonatemi, se mi è passata la voglia di vedere i Giochi». Il principe gli voltò le spalle.
Cinorta e Polibea lo guardarono costernati, chinarono la testa per supplicare un muto perdono, e poi raggiunsero Giacinto, nell'indifferenza degli altri spettatori, ancora riuniti a attorno al pugile vincitore per ammirare i ricchi premi che Apollo aveva concesso.
Il vocio dei mortali lo riempì di fastidio, gli pizzicò la pelle. Erano così sgraziati e stonati.
Artemide gli comparve davanti. «Non mi hai dato il tempo di dirtelo».
Lui la zittì con un gesto imperioso della mano. «Non ha importanza. Presidiamo alle ultime gare e poi andiamo via».
Cercò Giacinto tra la folla, ma i ricci di miele erano svaniti.
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