Parte 6 - La corte di Sparta

Al centro della stanza un servo mescolava vino e acqua nel krater. Giacinto osservò il vaso di argilla nero, su cui spiccavano decori geometrici dello stesso colore della sabbia, la superficie scura del vino su cui tremolavano le luci delle fiaccole. Il servo prelevò il vino con una brocca per riempire le coppe dei presenti.

Nella sala dalle pareti di pietra del palazzo riecheggiavano le voci decise dei partecipanti al banchetto, una sorta di riunione politica mascherata da invito conviviale. L'equilibrio di Sparta si basava sulla diarchia, regno mantenuto da due sovrani contemporaneamente, che discendevano da due famiglie diverse.

Giacinto assaporò il vino addolcito dal miele, che ripuliva la sua bocca dal gusto della purea di lenticchie e della focaccia al formaggio. Non era esattamente l'alimentazione che avrebbe dovuto fare, se avesse voluto realizzare il suo sogno di diventare atleta.

Sentì su di sé gli occhi di suo padre Amicla, scuri e severi come l'onice, incastonati in un volto squadrato dove la barba non era ancora bianca. Regale come poteva esserlo solo un re che aveva fondato una città, Amicle, e che era figlio di Lacedemone, il primo sovrano di Sparta.

La sala dove stavano banchettando era impreziosita da pochi arazzi. La vera bellezza del luogo erano i boschi fertili sulle colline e il nastro azzurro del fiume Eurota, era solito dire suo padre. Eppure il palazzo non difettava in ricchezza. Sulle sommità dei muri correvano intarsi di pasta blu, e nelle pareti delle altre sale e dei corridoi non mancavano gli affreschi.

Giacinto chinò lo sguardo sul vino nella sua coppa, animato da riflessi color rubino. Temeva le domande di suo padre, l'invito ad altri banchetti dove si parlava di politica, di economia, di tutto ciò che a lui non era mai interessato. Era difficile sopportare il peso di non essere il figlio ideale.

Amicla aveva altri due figli maschi: Argalo, che sarebbe stato il suo naturale successore, e Cinorta. Due fratelli uniti, fino a quando non avevano iniziato l'addestramento militare, che aveva acceso in loro il desiderio di primeggiare e occupare il trono. Tra i due serpeggiava una muta tensione che forse suo padre faceva finta di non vedere. Ultimamente la sposa di Argalo, Timea, non sorrideva più. Giacinto la incontrava alle funzioni religiose, qualche volta ai Giochi, e la vedeva spesso con gli occhi rossi. Era diversa dalla giovane con il viso levigato e la carnagione olivastra che aveva attirato l'ammirazione di tutti anni prima. Appena sposata i suoi occhi brillavano come le lucide olive al sole, adesso, invece, erano spenti, come se le nubi avessero oscurato il cielo. Aveva venticinque anni, e pareva già consumata dal doppio degli anni. Giacinto non ne capiva il motivo. E si sentiva uno sciocco, escluso da un mondo che avrebbe dovuto saper padroneggiare.

Amicla posò la coppa sul tavolo. Un servo gli stava versando altro vino. Le fiaccole, rette da statue d'oro che raffiguravano giovani uomini, scolpivano il suo viso, lo rendevano più spigoloso.

«Cosa mi dici del tuo addestramento?», gli domandò. Non aveva bisogno di pronunciare il suo nome. Giacinto sentiva su di sé i suoi occhi scuri e regali. Il mantello color porpora non faceva che sottolineare il suo ruolo.

«Non hai parlato con il mio maestro?» Giacinto si pentì subito di quelle parole. Non si rispondeva al re con un'altra domanda. Era insolente, e non stava dando il buon esempio agli ospiti.

Gli bastò un altro sguardo di suo padre per comprendere la portata del suo errore. «Sto apprendendo molto», si limitò allora a dire.

Suo padre strinse le labbra sottili, screpolate per la quantità di tempo trascorsa all'aria aperta ad allenarsi e a combattere, ma durò un attimo. Un vero re non mostrava mai le sue emozioni nemmeno a suo figlio, soprattutto a suo figlio. Quello più piccolo, poi... che importanza avrebbe potuto avere nel grande schema delle cose o nei piani per mandare avanti la dinastia?

Inspirò il profumo dei fichi che un servo gli aveva messo sotto il naso. Le torce tremolavano e accendevano di bagliori le coppe d'argento e i vasi delle bevande. Oltre le finestre si stendeva Sparta, il fiume che l'attraversava e che di notte diventava una scia nerastra, come il veleno che sgorga dalle ferite dei mostri, il cielo stellato.

Suo padre lo dimenticò in fretta, la musica lieve della lira coprì le parole che rivolse ad Argalo. Erano così simili con la loro aria regale, i capelli scuri, il volto squadrato, le labbra sottili sempre tese sul punto di impartire un comando, la pelle chiara che nonostante il tempo trascorso all'aperto faceva fatica a dorarsi. Lui, invece, non somigliava né a suo padre né ai suoi fratelli. Non del tutto, almeno.

I suoi fratelli non suscitavano l'ammirazione degli altri come faceva lui. Qualche volta gli sarebbe piaciuto essere come loro, passare inosservato o catturare uno sguardo che si sgretolava presto, rapito subito da altro. Invece su di lui gli sguardi si posavano insistenti, fino a scavare sotto la pelle.

Sua madre Diomeda spesso gli accarezzava rapida il volto, gli parlava della sua pelle che al sole si faceva dorata, dei suoi riccioli color miele, degli occhi verdi come smeraldo e del volto come... A quel punto si mordeva le belle labbra e non proseguiva, come se avesse sulla punta della lingua un paragone inopportuno. Gli tracciava allora la linea del naso dritto, l'arco delle labbra carnose e spesso arrossate dallo sforzo degli allenamenti e dai morsi con cui tratteneva le parole che avrebbe voluto dire a suo padre, i segni delle cadute durante le corse. Non erano che leggere cicatrici, ornamenti preziosi sulla tela della sua pelle, gli diceva sua madre.

Gli unici sguardi di disprezzo che riceveva appartenevano ai suoi fratelli, forse perché sentivano che lui era diverso, uno specchio in cui si rifletteva la loro immagine distorta. Anche adesso, a quel banchetto, lo guardavano appena per nascondere una gelosia che la fatica delle armi non riusciva a celare.

Eppure, lui avrebbe lasciato volentieri campo libero a entrambi.

Che si prendano la gloria, il potere, il trono, le vittorie.

A lui bastava sentire i muscoli del suo corpo flettersi, irrobustirsi, le dita che stringevano le redini dei cavalli nelle corse dei carri o che afferravano e lanciavano il disco, i piedi forti che correvano lungo la pista di uno stadio.

«Il momento si avvicina anche per te», lo riscosse un invitato, uno zio lontano che non vedeva da tempo.

Il momento.

Due parole che lo gettarono nello sconforto. Aveva compiuto diciotto anni e non poteva sottrarsi alla prova della crypteia. Nella rigida suddivisione dei ruoli degli apprendisti soldati nella società spartana, adesso era un efebo e non poteva sottrarsi alla prova che avrebbe dimostrato la riuscita della sua educazione.

«Sono pronto», disse, sperando che la voce avesse assunto un tono deciso.

Suo padre sorrise. «Certo che lo è. Ho voluto che tutti i miei figli maschi ricevessero la stessa educazione, come quella degli altri cittadini liberi di Sparta».

Lui deglutì. Gli anni dell'aghogé erano stati difficili, una violenza contro i suoi veri desideri. Si portò una mano alla gola, sulla pelle scivolò la brezza della sera che entrava dalle finestre del palazzo, troppo grande per essere riscaldato dal focolare.

Aveva voglia di uscire. La politica e la sala del banchetto lo opprimevano. Forse avevano ragione i suoi fratelli quando lo rimproveravano di immaturità. Prese coraggio.

«Padre, vorrei assentarmi».

«Vuoi uscire dal palazzo?» l'uomo sollevò le sopracciglia folte, la fronte bassa si increspò di rughe.

«Oggi non ho avuto l'opportunità di muovermi, vorrei camminare, prima che la notte si faccia più scura. Non vorrei perdere troppi allenamenti».

L'uomo si morse le labbra. «Ci sarebbero altre cose a cui pensare». Sembrò rifletterci una manciata di attimi, colmati dal chiacchiericcio e dalla musica. Poi inclinò la testa. «Vai, ma voglio che tu ritorni qui prima che gli ospiti se ne vadano».

«Come volete, padre».

Giacinto si alzò lentamente, a passi controllati raggiunse l'uscita. Non voleva che gli altri capissero quanta voglia avesse di liberarsi di tutti loro, di uscire all'aria aperta. La vera domanda che avrebbe voluto fare a suo padre gli era morta in gola. Avrebbe voluto chiedergli il permesso di andare ai Giochi, ma non era il caso in quel momento. Aveva desiderato assistere alle gare degli atleti fin da quando, mesi prima, i Theoroi erano giunti da Delfi per reclutare ragazzi in forma che volessero parteciparvi.

Camminò rapido per i corridoi di pietra, inspirò la brezza del fiume che si portava addosso anche l'odore degli alberi sulle colline, dei gigli e delle viole sbocciate in primavera. All'ombra del colonnato scorse una figura di donna, la mano posata sul davanzale.

«Polibea?», chiamò

«Sono io». Sua sorella gli si avvicinò, un raggio lunare le sfiorava il volto ovale, simile al suo, e il peplo candido che le ricadeva sulle spalle.

«Cosa ci fai qui?»

«Ascoltavo la musica».

Dalla sala del banchetto provenivano ovattate le note della lira. Se Polibea avesse detto a suo padre di voler studiare la musica e la poesia, si sarebbe guadagnata di certo un rimprovero. A Sparta era importante allenare il corpo, non intendersi di arte. Gli uomini dovevano diventare abili soldati, le donne madri feconde.

«E tu? Già stanco di ascoltare nostro padre?» Un sorriso ironico le piegò le labbra sottili, le increspò la pelle ai lati della bocca. Le iridi nere e i capelli corvini erano come quelli di suo padre.

Anche lei, come Argalo e Cinorta, assomigliava al re.

«Non riesco più a stare chiuso in una stanza per troppo tempo, dopo il periodo di addestramento».

Lei si morse le labbra. «Neanche io».

Tra loro calò il silenzio, come spesso accadeva da quando era tornato a vivere stabilmente a palazzo. Fino ai sedici anni la loro educazione era stata in comune, giornate trascorse all'aria aperta, tra esercizi ginnici e di lotta. Sentivano ogni giorno il corpo trasformarsi, i muscoli definirsi, i polmoni gonfiarsi di aria e diventare forti, la pelle dorarsi al sole. Poi quella fase dell'educazione si era conclusa e i ragazzi erano stati separati dalle ragazze. Niente più allenamenti in comune. A Polibea non era rimasto che cercarsi un marito, a lui, invece, era stato indicato di proseguire l'addestramento militare. Suo padre non aveva voluto che i suoi figli avessero un trattamento di favore.

Adesso si ritrovavano entrambi al palazzo, lei ancora senza marito, lui con una prova finale che lo attendeva e che temeva. Non lo avrebbe detto a nessuno, però, neanche alla sorella che era stata in passato la sua confidente. Doveva imparare a conoscerla di nuovo, a capirla, e lo stesso valeva per lei.

«Ho nostalgia dei nostri giochi», gli confessò Polibea.

Lui sorrise. «Anche di quando rifiutavo di far vincere te e nostra sorella Leanira?»

«Per Zeus, avrei voluto picchiarti certe volte». La sua risata esplose cristallina, si perse tra gli abeti che ornavano il cortile.

Polibea era solo un anno di più piccola. Leanira si era sposata da tempo con il re dell'Arcadia. Doveva essere un luogo così bello, secondo quanto dicevano i poeti. Un'altra ombra si insinuò tra loro, l'allegria svanì. C'era un'altra sorella che condivideva il sangue che scorreva nelle loro vene, ma non la sorte felice di Leanira né quella tutta da scrivere di Polibea. Una sorella che non era più tra loro.

Giacinto deglutì. Di Dafne era meglio non parlarne. Meglio che restasse un nome custodito nel cuore, perché quando saliva alle labbra il petto si squarciava.

Polibea si schiarì la gola. «Come ti è parso Argalo al banchetto?»

Giacinto le fu grato per aver cambiato argomento. «Pensieroso. Sua moglie non c'era».

«Lo so. Stavo andando da lei». Polibea aprì il pugno e rivelò nel palmo un bracciale. «Non è nostra usanza adornarci di gioielli, ma credo che a lei manchino e che abbia bisogno di tirarsi su. Dopo l'ultimo aborto non riesce a restare incinta», sussurrò.

Ora Giacinto capiva lo stato d'animo di Argalo, gli occhi rossi della sua sposa.

«È questo il compito di un uomo e una donna», continuò sua sorella.

«Lo credi davvero?», domandò lui. Le parole gli erano scivolate via dalle labbra prima che potesse fermarle. Ogni giorno cercava di respingere l'idea su cosa dovesse essere un uomo, sui compiti che gli spettavano. Lui che aveva voglia di scappare davanti alla ctypteia, come avrebbe affrontato il resto? Il tempo scorreva veloce, sabbia tra le dita che non lasciava macchie, ma che segnava la strada da percorrere.

Polibea abbassò lo sguardo. «Quello che crediamo noi non conta, solo il bene di Sparta è importante», cantilenò, come una formula magica che aveva appreso fin da bambina.

Un tempo lo avrebbe detto con tanta convinzione da convincerlo, adesso, invece, sembrava non crederci. Prima che potesse chiederle di più lei sgusciò nel corridoio buio, lasciandolo da solo.

La musica che proveniva dalla sala del banchetto riempì il silenzio. Giacinto corse via, scese le scale di pietra del palazzo, si lasciò alle spalle le sculture di animali d'oro e d'argento, gli arazzi lavorati finemente, le porte preziose. Attraversò il cortile e la porta di bronzo. Percorse le strade lastricate che si snodavano tra i templi di Sparta, il ponte sotto il quale mormorava il fiume.

Si inoltrò sul versante del monte Taigeto, verso il bosco verde su cui si addensavano gli alberi. Il profumo resinoso degli abeti di Cefalonia gli fece tirare un sospiro di sollievo. Il peso che gli aveva oppresso il petto svanì.

La luna piena si stagliava nel cielo di velluto nero e irradiava la sua luce sull'erba tenera appena nata e sulle viole che la macchiavano del colore delle ametiste. Il manto madreperlaceo di neve baluginava sulla sommità dei monti.

Immerso nella natura, Giacinto si sentiva a casa, più che nelle ricche stanze del palazzo paterno. Le parole di sua sorella continuavano a martellargli nella testa.

Un vero uomo. Un uomo rispettabile.

Il suo unico compito era congiungersi a una donna e dare un figlio allo stato. Un figlio che sarebbe diventato come lui, sottratto alla famiglia a sette anni, affidato con gli altri coetanei alle strette maglie dell'agoghé.

Giacinto si liberò delle scarpe. Avvertì sotto i piedi la terra umida, i fili d'erba che si piegavano sotto il peso dei suoi talloni. Durante gli anni trascorsi in mezzo agli altri ragazzi era stato spesso scalzo, con ben poco da mangiare e un solo mantello che durasse per molti inverni.

Quando si era trovato tra loro, sottoposto al controllo di un ragazzo più grande che non si faceva scrupoli a infliggere punizioni corporali, non aveva visto l'ora di riprendersi i suoi sandali e un nuovo mantello. Adesso, però, si rendeva conto che l'abitudine era più efficace della violenza, capace di piegare i caratteri più ribelli, come la goccia che tutti giudicano innocua, ma che scava la pietra. Adesso i vestiti e i sandali gli davano un senso di costrizione e amava liberarsene soprattutto quando si allenava.

Cominciò con alcune flessioni, giusto per scaldarsi. L'aria della notte era fresca, nonostante il tepore della primavera avesse fatto sbocciare i primi fiori selvatici. Giacinto allontanò i ricordi: la separazione dalla madre, lo sguardo severo del padre che non ammetteva le sue lacrime, l'ingresso con gli altri ragazzi nel gruppo che a forza di esercizi e punizioni si sarebbe guadagnato il pieno diritto di far parte degli spartiati: i cittadini per eccellenza di Sparta.

Il re aveva voluto che fosse uguale in tutto e per tutto agli altri. Come gli altri era stato affidato al paidónomos, termine che voleva dire "mandriano di ragazzi". E così lui si sentiva, in un gregge in cui condivideva con gli altri il sudore, la polvere, il brodo nero che gli Ateniesi disprezzavano, fatto di carne e sangue di maiale con aceto e sale.

Si rizzò in piedi con uno scatto fulmineo e cominciò a correre. Il vento gli schiaffeggiava il volto. Chi era? Zefiro che soffiava dall'ovest o Borea che veniva spesso durante l'addestramento a gelargli le membra da nord?

Chiunque fosse, lui tentò di correre più veloce, di sfuggire alle carezze non richieste, mentre un senso di libertà gli si apriva nel petto. Fino a quel momento aveva conosciuto la vita di gruppo, il contatto lieve con altri corpi quando cercavano di scaldarsi contro il freddo o quello violento durante la lotta libera e il pugilato.

Si morse le guance e deglutì per combattere la gola secca. Negli ultimi tempi quei fugaci contatti gli avevano stretto lo stomaco, forse perché desiderava che si protraessero, desiderava che fossero di altro tipo.

Accelerò sotto le fronde degli abeti, mentre lo scalpiccio dei suoi piedi nudi infrangeva il silenzio e la luna segnava la strada. Conosceva quei luoghi a memoria e non aveva bisogno di una torcia, solo della benevolenza di Selene o di Artemide. Dagli ammonimenti di suo padre, però, era impossibile scappare.

La crypteia lo attendeva. L'unica concessione al suo ruolo di principe sarebbe stata limitare la durata della sua partecipazione all'organizzazione: non ci sarebbe entrato per sempre, ma solo il tempo di dimostrare che era capace di uccidere uno schiavo ilota, gli ultimi di Sparta, i senza diritti.

Un brivido gli percorse la pelle, un dolore alla milza lo indusse a fermarsi. Camminò, seguendo un sentiero abbandonato da cui risalivano gli odori delle piante aromatiche, timo e menta. Il palazzo con il suo banchetto era ormai lontano, una sagoma poco riconoscibile nel buio.

Tuttavia una musica si librava nell'aria. Di colpo Giacinto si fermò. Si tirò indietro i riccioli color miele. «Ancora tu?»

Un uomo seduto su un masso pizzicava la lira. Le mani agili si muovevano sulle corde, il mento appuntito era inclinato verso il basso, gli occhi socchiusi. Quando lo sentì arrivare la musica si interruppe.

«Non posso farne a meno».

Giacinto deglutì. Da quando aveva lasciato la caserma, alla presenza di Tamiri durante gli allenamenti si era abituato, sebbene la sopportasse mal volentieri. L'uomo, figlio della ninfa Argiope, aveva ereditato il talento per la musica della madre. Aveva trent'anni, il fisico asciutto, lo sguardo grigio e mobile di chi vuole tenere tutto sotto controllo, e, Giacinto temeva, l'oggetto del controllo era lui.

«È tardi, cosa ci fai qui?»

Tamiri balzò in piedi. Le decorazioni intarsiate della sua lira baluginarono alla luce della luna. «Potrei farti la stessa domanda. È molto che ti aspetto, cosa ti ha trattenuto?»

Giacinto pensò che avrebbe dovuto cambiare strada, foresta, forse persino regno. Poi un moto di orgoglio lo scosse. «Non devo darti spiegazioni, non ti ho mai chiesto di aspettarmi».

Tamiri strinse gli occhi. «Ma un giorno mi chiedesti di suonare per te, ricordi?»

Giacinto fece un passo indietro. Sentì il sudore della corsa che gli si gelava sulla pelle. Quello era decisamente il vento freddo dell'ovest. «Ero solo curioso di ascoltare la tua musica, la nostra educazione la trascura totalmente».

Se suo padre l'avesse saputo, si sarebbe vergognato di lui.

Tamiri si umettò le labbra carnose, sempre piegate in un broncio superbo, tanto rosse che parevano una macchia di sangue sul suo viso pallido. «Posso farlo ancora, tutte le volte che me lo chiedi. I tuoi occhi sono gemme splendenti...» Allungò una mano sul suo viso.

Giacinto rimase pietrificato da quel contatto. Non era la prima volta che qualcuno lo spogliava con gli occhi, che pensava di poter far seguire le azioni ai desideri. «Sono un principe di Sparta», gli ricordò. Non voleva il suo tocco, così come non aveva voluto quello delle schiave che suo fratello Cinorta amava proporgli o quello del suo maestro.

«Sei così bello e io non ho paura di dirtelo», gli soffiò Tamiri sulle labbra.

Un tepore gli scaldò lo stomaco, era la stessa sensazione che si era scatenata in lui qualche mese prima, quando un compagno lo aveva stretto mentre lui si trovava a terra e in suo potere durante la lotta libera. Scosse la testa e si allontanò di un passo. «Questo non si può fare».

La mano di Tamiri rimase sospesa a mezz'aria, negli occhi la delusione di chi all'ultimo momento non aveva potuto mordere un frutto a lungo desiderato.

Un'onda di disprezzo cancellò il tepore nel suo stomaco. Giacinto aveva un ruolo e dei doveri da assolvere. Il desiderio di Tamiri lo fece sentire sporco. Il rapporto tra due uomini doveva seguire delle regole e il soddisfacimento di un desiderio fine a se stesso non rientrava tra queste.

Si morse le labbra. La sua vita era segnata: la crypteia, le mani sporche di sangue, lo status di militare eccellente, forse persino la scelta di un uomo più grande che castamente avrebbe dovuto insegnargli i segreti delle armi. Si fece morire in gola una risata isterica. I racconti dei suoi compagni rivelavano che spesso c'era ben poca castità in quei rapporti. A lui non sarebbe successo: avrebbe rispettato le regole dello stato e non si sarebbe macchiato di un desiderio disdicevole.

«Ascolta, Giacinto», cominciò Tamiri, ma prima che potesse finire la frase un colpo di vento schiaffeggiò entrambi, gelato, forte, prepotente.

La lira di Tamiri rotolò a terra e l'uomo si affrettò a raggiungerla. Giacinto lo guardò affannarsi, e pensò che per il musico era proprio come una lira: uno strumento da suonare e gettare vita. Gli voltò le spalle e si tirò indietro i ricci che il vento gli aveva fatto ricadere sulla fronte.

Gli abeti della foresta stormivano, gli uccelli notturni produssero un mugolio lamentoso, sopresi dalla violenza di Zefiro. Non era la prima volta che quel vento soffiava quando Tamiri tentava di corteggiarlo. Era un vento diverso dallo Zefiro mite che tutti conoscevano: non accarezzava lieve i petali dei fiori e dei boccioli, non sospingeva piano le nuvole per far spazio al sole. Diventava violento e cattivo, e gli dava i brividi.

Corse via con l'illusione di potergli sfuggire. Solo quando fu di nuovo a palazzo e lontano da Tamiri il vento si acquietò.

Polibea, sullo sfondo delle torce accese che disegnavano ombre allungate sulla parete di pietra, gli corse incontro.

«Che succede?», domandò lui, preoccupato.

Lei si accigliò. «Nostro padre ti attende al banchetto, va' prima che cambi idea».

Giacinto corrugò la fronte. «Cambiare idea su cosa?»

«Gli ho chiesto il permesso di andare ai Giochi Pitici, e ce l'ha accordato».

Giacinto la strinse, le sue preoccupazioni dimenticate, persino la crypteia in quel momento non gli faceva paura.

«Sbrigati». Polibea gli diede un leggero colpo sulla spalla.

Lui si allontanò e corse lungo le scale.

«Mi devi un favore», fu l'ultima cosa che le sentì dire prima di entrare nel palazzo.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top