Parte 5 - L'espiazione di Apollo

Creta era battuta dal vento. Sulla scalinata del palazzo di Cnosso, Apollo avvertiva l'odore salmastro del mare che si trovava a circa trentatré stadi di distanza. Gli piaceva, quasi più del profumo della vegetazione che ammantava l'isola, del profumo insistente dei narcisi e quello resinoso degli abeti e dei cipressi. Forse perché su un'isola era nato e il primo odore che aveva invaso le sue narici era stato, prima ancora che quello dolce del seno bianco di sua madre, la salsedine delle onde che si arricciavano spumose sulle coste di Deli.

Strinse i pugni, e ricacciò un moto di irritazione che lo coglieva sempre quando ripensava alla sorte di Leto, costretta a vagare a lungo con i figli in grembo prima di trovare un posto che l'accogliesse. La dea Era l'aveva condannata a non poter partorire sulla terraferma, e la sua salvezza era stata proprio Delo, territorio appena nato che non si era ancora ancorato alla terra, che non era ancora né isola né continente. Il rumore delle onde era stato il primo suono del mondo esterno che aveva colpito le sue orecchie divine, insieme al grido lacerante di sua madre che lo spingeva fuori dal suo ventre. Poi erano venuti gli occhi di miele di sua sorella, la vegetazione soffice che lo aveva accolto, il viso ancora provato dal dolore di Leto. Forse per questo sentiva di doverla proteggere dopo le sofferenze che l'amore le aveva inferto.

La luce di un mattino limpido scivolava sulle colonne di porfido che segnavano l'ingresso nel palazzo. Apollo non aveva bisogno di presentazioni, così come non ne aveva bisogno sua sorella che gli camminava accanto, con passo agile e nervoso.

«Sapevo che sarebbe finita così», disse Artemide.

Apollo trattenne un sorriso di soddisfazione. Non si era pentito di aver squarciato la carne e la pelle di Pitone, nonostante sentisse sulla testa il peso della punizione di Gea. «Non ti ho chiesto di accompagnarmi».

«Devo assicurarmi che tu non faccia altri danni. Avresti almeno potuto aspettare la luna calante per ucciderlo».

«Per condividere la mia sorte con Ecate? No, sorellina, tu sei una compagnia più piacevole».

Dalle labbra rosee di lei uscì uno sbuffo di frustrazione, ma non disse nulla.

I loro passi riecheggiarono sui pavimenti di pietra fino a quando non entrarono in una sala di marmo da cui si intravedeva il cortile. Sulle pareti brillavano affreschi dai colori ricchi, rossi e azzurri intensi, raffigurati animali e scene di caccia o di ginnastica. Dal colonnato che dava sull'esterno oltre al cortile si intravedevano altri piani e terrazze. Dovevano esserci migliaia di stanze in quella struttura che gli ricordava un labirinto più che un palazzo.

«Benvenuti», disse un uomo dalla voce stentorea, seduto su un sedile di pietra, stranamente più modesto rispetto al resto della sala.

Apollo conosceva Minosse, il re di Creta, sposato con Pasifae. Era esattamente come lo ricordava: la corporatura massiccia, la carnagione olivastra, i capelli e la barba scura, gli occhi mobili e sospettosi. Gli fecero venire in mente quelli di Efesto, sempre pronti a cogliere un segno dell'infedeltà di sua moglie. La fama di Pasifae, in fondo, non era tanto diversa da quella di Afrodite.

«Non ci tratterremo molto. Cerchiamo un sacerdote». Apollo lo fissò negli occhi fino a quando l'altro non abbassò lo sguardo.

Stupido.

Non gli era bastato indispettire Poseidone quando aveva deciso di tenersi per sé il bellissimo toro bianco che avrebbe dovuto sacrificare al dio degli abissi? La sua superbia aveva scatenato la vendetta del dio che, implacabile, aveva spinto Pasifae tra le braccia del toro. Dall'unione mostruosa era nato il Minotauro, che per la vergogna il re aveva rinchiuso in un labirinto.

Minosse si schiarì la gola. «Abbiamo i migliori, tutto quello che desiderate...»

«No», lo interruppe Apollo. «Voglio un sacerdote che non sia a Cnosso». Sentì Artemide sbuffare. Era la seconda volta che cambiava le carte in tavola e sua sorella ne aveva abbastanza.

Dopo l'uccisione di Pitone Gea si era infuriata con Zeus, ma Apollo era pur sempre il figlio del padre di tutti gli dèi, pur sempre una creatura divina. Zeus, alla fine, era riuscito a ottenere per lui una pena lieve. Apollo si sarebbe dovuto purificare presso un sacerdote. Gea aveva scelto Tempe, ma lui aveva voluto fare di testa sua. Accompagnato da Artemide, si era recato a Egialia, ma non l'aveva trovata di suo gusto, e adesso era a Creta.

«Voglio andare a Tarra», disse.

Minosse sollevò la testa di scatto, preso alla sprovvista. «A Tarra», rifletté. «Sì, il sacerdote Carmanore sarà onorato di accompagnarvi per il rito di purificazione. Nel frattempo, potete essere miei ospiti». Abbassò ancora il capo, un fascio di luce che entrava tra le colonne gli accarezzò la testa e i fili bianchi tra i ciuffi ribelli dei capelli neri baluginarono.

Apollo lo congedò con un gesto della mano. Vide il re scendere dal suo trono, arretrare per non dare le spalle a lui e a sua sorella, fino a scomparire in un vano buio che si apriva lungo il corridoio.

Un vero labirinto, pensò ancora Apollo.

Si avvicinò al colonnato. Da quell'altezza poteva scorgere il nastro azzurro del mare brulicante di luce e di spuma.

«E così andremo a Tarra». Artemide si sistemò la spilla che reggeva il suo chitone sulla spalla, in modo che il suo seno fosse coperto.

«Che differenza fa?»

Gea aveva ottenuto quello che voleva, ma lui era pur sempre Apollo, nonostante avesse ucciso il figlio di Gea in un luogo sacro. Aveva solo voglia di farla finita con tutta quella storia. Del suo gesto non si pentiva, lo considerava un atto di giustizia dovuto a sua madre. Gli dèi potevano fare quello che volevano senza mai pagarne il prezzo, in un eterno circolo di colpe e falsi pentimenti. Adesso si sarebbe purificato per placare Gea, ma anche lei doveva sapere che niente lo avrebbe fermato. La prossima tappa della sua scalata al potere era impadronirsi definitivamente dell'oracolo di Delfi, sui cui aveva già apposto il suo marchio quando aveva gettato ai piedi della sacerdotessa la pelle di Pitone, già putrefatta nelle sue mani.

Il suono cristallino di una risata attirò la sua attenzione. Nel cortile dal pavimento di pietra correvano due fanciulle, i chitoni svolazzanti, i capelli che sfuggivano alle acconciature nel movimento frenetico. In un angolo avevano lasciato le biglie con cui forse si erano dilettate fino a quel momento. Quanti anni potevano avere? Non meno di diciotto, non più di venti?

La ragazza più alta stringeva una fune, che l'altra tentava di sottrarle. Gli occhi di Apollo si fissarono su quest'ultima. Il sole giocava con i riflessi dorati dei suoi capelli castani, si insinuava tra le onde che la corsa rendeva disordinate, scivolava sulle fasce dei sandali e sulle caviglie imponenti. Aveva sentito sua madre chiamarla prima.

«Acacallide, vieni qui», aveva detto Pasifae.

L'altra doveva essere Arianna.

Artemide gli si avvicinò. «Credi davvero che tutto finirà con una purificazione a Tarre?»

Apollo le rivolse uno sguardo di sbieco. «Sì. Prendila come una vacanza». Tentò di nascondere il tono irritato della voce. Non gli piaceva essere distratto quando ammirava la bellezza.

Sul volto di sua sorella comparve un sorriso che le illuminò gli occhi color miele, come quando da bambini aveva ideato lo stratagemma migliore per vincere alle battute di caccia. «Quindi non lo sai?»

Apollo lasciò andare un sospiro di frustrazione. La fissò. «Cosa dovrei sapere?»

«Gea ha ottenuto l'istituzione dei Giochi Pitici in onore di suo figlio».

«Dei Giochi per quel serpente mostruoso? Assurdo. Non era neanche molto atletico».

Artemide sbarrò gli occhi, un'ombra le attraversò lo sguardo. Poteva essere spaventosa anche lei se lo voleva. «E tu dovrai presiederli».

Apollo serrò le mascelle. Sarebbe stata un'inutile perdita di tempo e, a differenza di ciò che credevano i mortali, era tedioso perdere tempo tanto più se ne aveva a disposizione. I mortali presto dimenticavano, sprofondati nell'inconsapevolezza e nell'oblio regalato dal fiume Lete. Gli dèi, invece, ricordavano ogni frammento di eternità perduto.

Artemide sollevò il dito indice. «Non dire una parola. Non voglio passare il resto della mia esistenza a purificarmi per colpa tua».

Dopo tutti quegli anni non aveva ancora capito che lui non ubbidiva a nessuno, ma solo a se stesso. «È un'assurdità».

«Era suo figlio!»

Un servo si affacciò nella sala, ma presto si ritrasse. Nel cortile riecheggiavano ancora le risate delle ragazze.

Apollo si avvicinò a sua sorella, gli occhi stretti in una fessura rabbiosa. «Molti dèi non dovrebbero avere figli, men che meno con i mortali». Scosse la testa. Guardò ancora Arianna e Acacallide, così inconsapevoli della fragile vacuità della loro bellezza. Le belle membra carnose e polpose, i capelli e gli occhi splendenti, tutto sarebbe andato perduto prima ancora che avessero il tempo di capire cosa fosse davvero la vita. C'era qualcuno che lo capiva, in fondo? Apollo credeva di no. Il significato stesso della sua eternità gli sfuggiva, ma una cosa aveva ben presente: la sua superiorità rispetto a molti dèi a tutti gli umani. Per quanto quelle ragazze potessero essere belle, non sarebbero mai arrivate al livello di sua sorella, e la stessa cosa valeva per gli uomini. Nessuno poteva essere così ben formato come lo era lui: agile, i muscoli delineati sul suo ventre, sulle braccia e le gambe; i riccioli dorati e perfetti che gli incorniciavano folti la testa fino a sfiorargli le clavicole; le dita lunghe ed eleganti con unghie tonde e candide come la madreperla, abili a sferrare frecce e a pizzicare le corde della lira; le labbra carnose come i petali delle rose e gli occhi luminosi come un cielo rischiarato dal sole.

La bellezza umana poteva essere un passatempo, qualche volta poteva regalargli persino l'illusione dell'amore, il sollievo del piacere, ma poi tutto finiva come era iniziato. L'amore per lui era un fiore che si schiudeva la notte, ma che tornava a serrarsi durante il giorno.

Acacallide sollevò la testa. I loro sguardi si incrociarono. Nelle iridi color oliva della fanciulla lesse sorpresa, il guizzo di un'emozione. Tornò a chinare la testa, apparentemente intenta a riprendere fiato dopo la corsa, ma lui era troppo esperto per non capire che il rossore diffuso sulle sue guance non era causato dallo sforzo fisico.

«Sai qual è il tuo problema, Apollo?», disse Artemide.

Lui si sistemò la spilla sulla tunica, si scoprì meglio il petto. «No, ma sospetto che adesso me lo dirai».

«Non sai cos'è il dolore».

Apollo sorrise ad Acacallide. «Sono un dio e se non ti spiace ora...»

«Quelle non sono le tue ninfe», lo rimproverò la dea.

«Hai ragione, sorellina. Sono principesse, e meritano di provare l'amore di un dio».

Vide sua sorella schiudere le labbra, un lampo di collera rischiarare i suoi occhi. Sbatté la lancia sul pavimento di pietra. «Apollo», sibilò. Ma lui non aveva più voglia di ascoltarla e le voltò le spalle.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top