Parte 33 - L'immortalità di un mortale

Sulla statua di Apollo tremolavano i riflessi delle fiaccole. Una lama di luce entrava dall'unico ingresso del tempio e tagliava i pavimenti di pietra. Nascosto in un angolo buio, Apollo osservava la fila dei cittadini che entravano nel suo tempio di Amicla per tributare sacrifici a Giacinto.

Aveva fatto costruire l'altare del santuario proprio sopra la tomba interrata. Sopra di esso erano scolpite le statue delle divinità, inclusa quella che lo ritraeva, colossale. Lì sotto era sepolto il giovane, ormai diventato ombra dell'Ade.

Un mormorio di preghiere e profumi di erbe bruciate si levavano nel santuario. Le offerte venivano introdotte attraverso la porta di bronzo incastonata nell'altare. Le statue che lo decoravano erano imponenti, ombreggiate dalla luce, scurite appena dai fumi dei sacrifici. Apollo aveva voluto rappresentare Giacinto e sua sorella portate in cielo dagli dèi. Non era vero, ovviamente. Suo padre non lo aveva mai accontentato e lui aveva trascorso i mesi sfiorando i petali nati dal sangue di Giacinto, andando tutti i giorni sul luogo della sua morte. Per quanto tempo i fiori avrebbero resistito?

Tra quanto rimarrò senza l'unico legame di te che possa toccare?

Lasciò il tempio, uscendo da un ingresso secondario. Amicle era vuota e silenziosa. Il vento del sud batteva le strade, sollevava nuvole di polvere. Tutta la città doveva piangere Giacinto e considerarlo meritevole di onori divini.

Le feste delle giacinzie si svolgevano in tre giorni, e il primo era dedicato al lutto. Ci aveva impiegato quasi un anno per istituirle, perché non si rassegnava al destino che il Fato gli aveva riservato. Sperava ancora, ogni notte di luna nuova, che Ecate gli comparisse davanti, che gli riportasse Giacinto o che lo conducesse da lui.

Apollo, il dio della luce, era pronto a scendere nell'Ade, ad attraversare l'Acheronte, il fiume del dolore, e il Flegetonte e il Cocito, e infine ad arrivare fino allo Stige, a calcare il prato di asfodeli, a prostrarsi ai piedi di Persefone e del suo sposo. Nessuno, però, aveva risposto ai suoi appelli.

Attese la notte. Aveva vigilato che i mortali non infrangessero le regole del primo giorno della festività dedicata al lutto: il pranzo frugale dove erano vietati il pane e i dolci, il divieto di indossare corone.

La mattina dopo la città si risvegliò immersa nello stesso silenzio, rotto dai movimenti di chi era chiamato ad allestire gli spettacoli nel pomeriggio. Apollo osservava tutto dall'alto, al riparo, nel suo santuario che sapeva di alloro e che dominava la città. Da lì vedeva anche Sparta con i suoi tetti colpiti dalla luce radente e il fiume Eurota che scorreva placido.

Il caldo era ritornato, Demetra rideva ora che sua figlia lasciava gli inferi per raggiungerla. I prati si ammantavano di viole, gigli e anemoni, i tronchi dei pini e degli abeti profumavano di resina.

Apollo stava fermo, il cuore pesante, mentre la città si rianimava per gli spettacoli e gli agoni finali. Prima che se ne accorgesse il centro abitato fu raggiunto da tutti gli spartani. Persino gli stranieri e gli schiavi erano invitati al grande banchetto.

Nei pressi del santuario si innalzavano tende e all'ombra dei marmi venivano sistemate le coperte per accogliere gli ospiti. I servi mescolavano il vino con l'acqua e il miele nei krater e lo servivano nelle coppe, le ancelle distribuivano il pane, la carne, il formaggio fresco, i fichi profumati e le fave. Il pranzo dell'ultimo giorno della festa si chiamava kopis, ed era il trionfo della vita dopo la morte.

Gli odori e il chiacchiericcio lo stordirono. Lo intontivano i canti melodiosi, le corde delle cetre che vibravano sotto le dita abili dei musici, lo scalpiccio e il nitrito dei cavalli guidati dagli aurighi nelle corse, gli applausi acuti alle ragazze che correvano. Era tutto quello che un tempo lo rendeva felice e che adesso gli scavava nel petto un vuoto colmo di malinconia. Forse un giorno..., gli diceva sua sorella. L'eternità era insopportabilmente lunga.

La vita trionfava durante le feste che aveva organizzato per onorare Giacinto. Si accasciò sui gradoni del tempio. Rivolse lo sguardo all'interno del santuario, alla statua che raffigurava il giovane amato, bella ma fredda.

Posò il capo sulla colonna e attese che le voci si spegnessero, che gli spartani e chiunque fosse accorso alla festa se ne tornasse a casa, con le pance piene e l'animo felice.

Il cielo divenne presto una coperta blu ricamata dalle costellazioni che lui e Giacinto osservavano a Delo, seduti o sdraiati nella radura, mentre il mare rumoreggiava lontano e l'odore di salsedine si appiccicava alla pelle.

Lo invase la nostalgia. Chiuse gli occhi. Fu l'ululato di un cane a risvegliarlo. Tra le colonne riecheggiò un tacchettio acuto e leggero sul pavimento di pietra.

All'interno del tempio, illuminata dalle fiaccole camminava Ecate, il volto pallido e la veste scura. La seguiva uno dei suoi cani. Le fiamme tremolavano sul suo viso, facevano risplendere le vene azzurre ricamate sotto la sua pelle di luna trasparente e la cinta color zafferano che le scivolava sulla vita. Tra il profumo d'alloro del santuario si insinuò quello delle erbe aromatiche e medicinali che la dea usava per le sue pozioni. Lei era in grado di passare dal regno dei vivi a quello dei morti con uno schiocco di dita, a lei Cerbero non chiedeva spiegazioni né mostrava le fauci. Era l'unica dea a non aver paura dell'acqua di Stige. Era l'unica abbastanza ribelle da sfidare Zeus e aiutarlo.

«Mi hai riportato Giacinto?», le domandò Apollo con il cuore in gola.

Ecate fece un gesto con la mano verso l'altare. Davanti alla statua che lo raffigurava, scolpito dalle luci delle fiaccole che si riverberavano sulle suppellettili d'oro, Giacinto lo aspettava.

Apollo gli corse incontro, il cuore in gola. Allungò le mani per toccarlo, ma niente sentiva sotto le dita. Non sentiva la sua pelle morbida, i capelli ondulati, le spalle rotonde e forti, la vita stretta. Non sentiva su di sé il calore del suo fiato o delle sue labbra.

«Sono un'ombra adesso», gli ricordò Giacinto.

Apollo rivolse uno sguardo confuso a Ecate. «No, la dea ti ha riportato a me».

Giacinto sorrise. «Non ancora. Ho visto le feste che hai organizzato in mio onore, sono belle, ma tu non vi hai partecipato, perché?»

«Perché non c'è niente che possa festeggiare senza di te».

«Questo deve cambiare. Vivi la tua vita eterna, suonando e portando la luce. Nei Campi Elisi sarà la mia consolazione».

Apollo scosse la testa. «Tu ti sbagli, Giacinto. Ho pregato Ecate, mi sono prostrato ai suoi piedi e lei mi ha ascoltato. Tra poco sarai di nuovo tra le mie braccia, vivo, animato dalle risate che ti scuotevano sotto le stelle. Ti porterò a Delo e non ti permetterò più di tornare a Sparta dove il vento ti ha colpito».

Giacinto gli si avvicinò. Sul suo corpo le fiamme davano vita a un riflesso di madreperla, e la sua veste pareva trasparente come la sua carne. Un alito di freddo colpì Apollo.

«Tra poco sarò di nuovo con te, hai ragione».

«Sì, ho ragione». Un peso scivolò via dal petto del dio.

Presto avrebbe avuto una visione: loro due felici che si allenavano lungo la spiaggia, che si bagnavano in mare, che si scambiavano baci di ambrosia.

Se ancora non gli era comparsa dietro le palpebre chiuse era stata solo colpa del dolore che gli stringeva il petto e gli attutiva il potere.

«Finora sono stato ai Campi Elisi, anche mia sorella è lì».

«È stata colpa mia».

«No. Tu mi hai reso felice. Le tue suppliche agli dèi hanno indotto Persefone a compassione. Io e mia sorella non vaghiamo tra le altre ombre indistinte degli uomini, tra la nebbia opaca, non abbiamo perso neanche il ricordo di quello che eravamo. Persefone non ci ha fatto bere l'acqua del fiume Lete, che dà l'oblio». Un amaro sorriso si delineò sul suo volto inconsistente. Non so se sia stato un bene. I Campi Elisi sono prati fioriti, luogo di pace. Mi illudo talvolta che sia il paese degli Iperborei di cui mi parlavi e che tu compaia da un momento all'altro».

«Adesso basta, vieni con me», disse Apollo, scosso da un moto di impazienza. Gli tese la mano, poi si voltò verso la dea. «Ecate», l'apostrofò.

Gli rispose l'ululato rabbioso di un cane.

«Sei stato la mia eternità, e io rifiorirò per te a ogni primavera», gli sussurrò Giacinto.

Prima che potesse tentare di afferrarlo, una nube nebbiosa invase il tempio. Apollo strinse gli occhi, mentre un urlo soffocato gli vibrava in gola. Quando li riaprì il suo capo era posato contro la fredda colonna scanalata, sui gradoni del tempio. Il santuario era vuoto.

Si alzò di scatto, dalle mani caddero i petali color porpora nati dal sangue di Giacinto. Sull'erba si disegnava una scia dello stesso colore. Apollo seguì i petali che segnavano il percorso, nelle orecchie ancora la voce di Giacinto. Era la sua, non poteva essere stato un sogno. Nel santuario aleggiava ancora il profumo di Ecate.

Sorse il primo spicchio di luna, dipinse di bianco e argento il mare di erba che ondeggiava sotto i colpi del vento di inizio estate.

Un campo di fiori si aprì davanti a lui, gli stessi che erano nati dal sangue di Giacinto.

Cadde in ginocchio.

«Avrò la stessa pace di Dafne», disse uno di loro.

Ecate comparve lontana, scappando dalla luna crescente di Artemide. «È quello che ho potuto fare».

Un grazie mormorato gli uscì dalle labbra. Toccò i petali, li accarezzò, freschi della rugiada. Se ne portò uno alla bocca. Dopo tanto tempo avvertiva il fremito della vita, la solitudine che scivolava via lontana.

Se solo potessi ridarti la vita, pagherei anche con la mia.

Ma il Fato lo negava, e anche gli dèi dovevano sottomettersi alle sue leggi.

Quale colpa è stata la mia? Si può forse chiamare colpa l'aver amato?

Aprì i palmi sull'erba, incontrò la sua lira d'avorio. Ne pizzicò le corde. Gli parve che un fruscio scuotesse i petali su cui erano scolpiti i suoi lamenti. Iniziò a suonare, questo a Giacinto lo doveva. Il suo nome sarebbe stato per sempre nel canto sulle sue labbra, il suo lamento per sempre inciso nei petali del fiore.

                        Fine

Grazie per aver letto tutta la storia. So che ad alcune persone sarebbe piaciuto un lieto fine, e per un po' ci ho pensato, ma poi non me la sono sentita di cambiare la versione originale del mito. Forse la sua bellezza è proprio nella sua fugacità, come il vento caldo di primavera che lascia il posto all'estate.
Okay, basta con le divagazioni. Fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti.

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