Parte 27 - Hybris
Il servo versò il vino dal krater e lo versò nella coppa di Giacinto. Il giovane bevve un sorso della bevanda mescolata con acqua e miele. Non si usava bere vino puro, ma lui sentiva di aver trasgredito a così troppe regole negli ultimi tempi che se lo avesse fatto non avrebbe avuto importanza.
Nella sala dei banchetti arrivava il soffio di un vento fresco. Borea che veniva dal nord a ricordare che l'estate sarebbe presto finita. I crochi e gli anemoni avevano perso i colori sgargianti, l'erba si avvizziva piano, come incapace di resistere agli ultimi assalti del sole. Persefone non era ancora discesa negli inferi, ma sua madre Demetra, già triste e nostalgica, cominciava a privare la terra della sua prosperità.
La capiva. Dafne gli mancava terribilmente, anche se adesso sapeva che era in pace, consacrata alla gloria eterna. Anche sua madre Diomeda, che preferiva trascorrere le giornate chiusa nella sua stanza dopo aver ottemperato al dovere di donare figli allo stato, le mancava. E Apollo, per i brevi periodi dei loro allontanamenti, gli toglieva il fiato per la nostalgia. Sentire la mancanza di un dio scavava un vuoto particolare nel petto.
Suo padre si era già alzato, dopo aver mangiato in fretta il brodo nero con la carne di maiale. Lo avevano seguito Argalo e Cinorta, di umore opposto a quello che solitamente li animava. La pelle abbronzata dal sole, negli occhi del primo brillava la gioia di un lieto evento, in quelli del secondo si agitava la delusione di un primato perduto.
La sposa di Argalo aveva annunciato la sua gravidanza, con grande sorpresa di tutti, tranne di Giacinto e di Polibea.
Il re sorrideva e si complimentava con Argalo, consolava tacitamente Cinorta. A Giacinto, invece, riservava lo sguardo dubbioso di chi temeva un destino imprevisto. I suoi due figli maschi erano sposati, entrambi pronti a dare un erede allo stato. Il più giovane, invece, trascorreva il suo tempo in compagnia di un dio e aspettava i Giochi olimpici per ricoprire il suo nome di gloria, ma non era abbastanza. Della gloria degli atleti potevano accontentarsi i comuni cittadini, non i figli di un re.
Era rimasto solo nella sala, a sbocconcellare la focaccia al miele con il formaggio, a sollevare piano la buccia verde e pelosa dei fichi che rivelava la polpa dolce dal cuore rossastro al suo interno. Lo sguardo scivolò sui disegni che ornavano il krater. Scene di compagni d'armi, di amanti che seguivano le regole previste, che di certo non si concedevano come Apollo aveva fatto con lui nel bosco e che, se lo facevano, lo tenevano ben nascosto.
La pelle gli pizzicò al ricordo delle sensazioni che aveva provato. Apollo era davvero il maestro che gli insegnava l'amore, l'arte della musica, della ginnastica, e persino del desiderio. Gli aveva fatto scoprire cosa poteva fare con il suo corpo, quanto dolce potesse essere il piacere e l'annebbiamento che ne seguiva. Forse, chi beveva il vino puro provava lo stesso.
A fargli compagnia restava solo un servo che aspettava di colmargli la coppa di vino. Con un gesto della mano Giacinto lo congedò. La luce dorata del giorno inondava la sala, accendeva i colori accesi degli arazzi e degli affreschi. Le decorazioni non erano eccessive, ma curate nei particolari.
Giacinto posò il fico sul tavolo. Si domandò se Apollo lo stesse vedendo proprio in quel momento, alla guida del carro del sole. Si erano scambiati delle promesse nel bosco.
Ti proteggerò dal vento, gli aveva detto Apollo.
Non ti racconterò bugie, gli aveva assicurato lui.
Ma su Ecate e Polibea aveva taciuto. Era davvero un inganno essersi rivolti a un'altra dea per ottenere un favore che Artemide negava?
La pozione di Polibea aveva sortito l'effetto sperato. Grazie a Ecate Timea era rimasta incinta, e adesso Polibea poteva diventare sacerdotessa di Artemide senza sensi di colpa.
Quella mattina era andata al tempio a pagare il suo tributo alla dea dell'oscurità. Sorrideva, sicura di aver ottenuto quello che desiderava. Lo aveva convinto ad accompagnarla, perché, che gli piacesse o meno, in quella storia era coinvolto anche lui, e a Ecate doveva la sua gratitudine per averlo salvato da Zefiro.
Si sentiva addosso ancora gli odori del santuario, le erbe sacre bruciate, l'aroma pungente della carne e del sangue dell'animale che avevano sacrificato.
Polibea era una principessa, non c'era nulla di strano che richiedesse al sacerdote di effettuare un sacrificio per la sua famiglia. In quel caso, per se stessa.
Aveva scelto un bue bianco, tra i più grandi che i contadini sottomessi a suo padre potessero procurarle. L'officiante aveva rivestito le sue corna d'oro. I recipienti di bronzo erano stati allineati ai piedi dell'altare. Giacinto ricordava il modo in cui il metallo aveva baluginato, colpito dalla luce rossastra del tramonto, proprio un attimo prima che fosse calata la notte scura senza luna.
Nel braciere era stato gettato un ciuffo di peli strappati dalla testa dell'animale. Un aiutante del sacerdote aveva portato un altro recipiente colmo di orzo, sotto il quale era nascosto il pugnale che da lì a poco avrebbe usato. Poi il bue era stato cosparso di cereali e prima ancora che gli occhi lucidi di paura potessero fare un altro movimento, cogliere l'ultimo bagliore della luce del sole, il suo collo era stato tagliato, i nervi tesi recisi, le arterie e le vene spezzate dalla lama.
Giacinto aveva distolto lo sguardo. Solo il mugghiare sordo e straziato, punteggiato dalle litanie dei presenti, aveva riecheggiato tra le colonne e il soffitto del tempio. Gli ultimi bagliori del sole avevano brillato sulla superficie dell'acqua lustrale e sul sangue che scorreva nel lebete. Un fiume prima color porpora, poi cremisi, sempre più scuro fino a ricordagli la pece. Allora un brivido lo aveva scosso.
Non era la prima volta che assisteva a cruenti sacrifici di quel tipo, ma era la prima volta che pensava di esserne il responsabile, che lo invadeva un senso di impotenza, l'idea che se le cose non fossero andate bene, tutto sarebbe stato inutile. Inutile la richiesta fatta a Ecate, inutile l'inganno ad Artemide e inutile perfino il sangue del bue che scorreva placido, privato dell'alito della vita.
Suo padre credeva che il sacrificio fosse stato fatto per lui, per la gloria che avrebbe dovuto incarnare in future battaglie, per la sua Sparta.
Non sapeva che negli anditi oscuri del suo palazzo, quelli dove la luce del focolare non arrivava si annidavano segreti e bugie. Persino il suo matrimonio con Diomeda era una bugia: un'unione che aveva dato i suoi frutti, ma che non aveva resistito al lento scorrere del tempo. Non li aveva mai visti sorridere insieme. Non li aveva mai visti insieme, se non in rare occasioni pubbliche quando il ruolo di entrambi lo richiedeva.
Eppure, era quell'unione che le regole degli uomini giudicavano ideale. La sua con Apollo era vista solo come un capriccio, persino orribile se avessero saputo il modo in cui il dio gli si era concesso.
Si alzò. Sulla tavola rimanevano i resti di un brodo di maiale che non gli andava di consumare. Di carne ne aveva vista fin troppa la sera prima, il giorno del sacrificio. Tra le preghiere sussurrate, il sacerdote e i suoi aiutanti avevano svuotato le interiore del bue, gli avevano tagliato le cosce e dopo averne avvolto le ossa nel grasso le avevano bruciate. Poi era stata la volta degli altri pezzi di carne, infilzati sugli spiedi e arrostiti.
I presenti li avevano mangiati, accompagnati da coppe colme di vino. Giacinto sentiva sulla lingua il sapore della bevanda mescolata al miele, che si aggiungeva a quello della carne. Sperava che a Ecate fosse sufficiente quel sacrificio, che potesse blandire le proteste di Artemide, che in quell'occasione si era vista privata del suo ruolo di protettrice delle partorienti.
Un soffio di vento lo riscosse. Borea era freddo, ma pulito. Un gelo che ristorava piuttosto che dare brividi. Anche Borea aveva rapito qualcuno, la principessa Orizia, per ottenere con la forza quello che lei non gli avrebbe dato altrimenti. Per loro era tutto così semplice.
Inspirò, volgendo il capo verso la finestra che si affacciava sul cortile. Sentì il sole che gli scaldava la pelle. Immaginò sua sorella vestita nell'abito candido che spettava alle sacerdotesse di Artemide, i capelli raccolti sulla nuca, la sacralità di un tempio dove avrebbe potuto essere felice.
Tutto sarebbe andato bene.
Ti racconti bugie.
Il focolare al centro del palazzo di pianta quadrangolare crepitava, lo sentiva fin da lì. Nel cortile dal pavimento di pietra passeggiava la sposa di Argalo, seguita dalle sue ancelle. Il tintinnio dei suoi bracciali d'oro si accompagnava al fruscio della veste. Il volto aveva perso l'aria mesta con cui l'aveva conosciuta da sempre. Adesso risplendeva, la pelle di madreperla distesa, i primi segni di un'effusione dorata che le si spandeva sulle guance, grazie alle camminate al sole a cui aveva iniziato a dedicarsi. Non aveva più vergogna di mostrarsi in pubblico, di essere additata come la sposa che non riusciva a compiere l'unico dovere che le si chiedeva, insieme a quello della fedeltà. Adesso anche lei avrebbe generato un figlio da consegnare a Sparta.
A Sparta, prima che a chiunque altro, tutti loro consegnavano le loro vite.
Non era per questo che lui stesso aveva trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza in caserma durante l'agoghè? Che si era ridotto a spogliarsi dei suoi vestiti di principe – per un periodo persino delle onde di miele dei suoi capelli – e alla fine a cercare uno schiavo ilota nella foresta per ucciderlo come un animale?
Anche lui aveva fatto tutto quello che poteva per Sparta, c'era solo una cosa a cui non avrebbe rinunciato: l'amore di Apollo. Forse un giorno avrebbe avuto una moglie, forse l'avrebbe resa infelice come suo padre aveva reso infelice sua madre. Neanche davanti a quell'idea riusciva a rinunciare al dio che gli aveva fatto scoprire l'amore. Un amore a tempo, un amore tra maschi che per gli uomini non si sarebbe dovuto prolungare dopo i suoi trent'anni, ma che lui sapeva già essere eterno, come l'icore candido che scorreva nelle vene degli dèi.
Ora lo attendevano gli allenamenti, altre ore calde e dorate prima che l'inverno ricoprisse la terra e consumasse l'abbondanza delle messi, prima che il sole fosse costretto a percorrere in fretta l'arco del cielo, per lasciare spazio alla notte. Per lui e Apollo questo voleva dire più tempo insieme. Zeus non avrebbe più potuto rimproverarlo di trascurare i suoi doveri sul cocchio dai cavalli alati.
Il sorriso che gli stava per increspare le labbra si gelò, il suo volto si contrasse in una smorfia di fastidio. Un alito fresco aveva fatto tremare le coppe dorate sul tavolo, e smosso la superfice di vino nel krater. Non era più la mano fredda di Borea a sfiorargli il corpo. Lo riconobbe rima ancora di sentirlo sotto la tunica, di provare il senso di nausea che gli toglieva il fiato.
Il vento umido che preannunciava la notte gli comparve davanti, le ali spiegate, gli occhi freddi e celesti illuminati da un lampo di rivalsa.
«Che vuoi?», sibilò lui, la mano già a cercare il suo pugnale, che dalla sera dell'aggressione portava sempre con sé.
Zefiro seguì con lo sguardo il suo movimento. «Sai di cosa ridiamo noi dèi sull'Olimpo? Della testardaggine di voi mortali: fate sempre gli stessi errori, vi fissate sempre sulle stesse sciocche idee, come se il risultato delle vostre azioni potesse cambiare soltanto perché lo avete deciso». Una risata soffocata gli vibrò nella gola.
Giacinto arretrò. Il cielo oltre la balconata e le colonne era limpido, il sole vi splendeva incontrastato, senza l'ombra di nuvole che lo oscurassero. Sentì la pietra contro le sue natiche, il vento umido che gli avvolgeva le spalle.
«Fai bene a guardare il cielo», riprese Zefiro, la voce profonda e arrochita, «questa volta non c'è la notte scura che può proteggerti. Non c'è Ecate». Gli afferrò la mano con cui Giacinto aveva estratto il pugnale, le dita risalirono sul suo polso, lo strinsero in una morsa fino a quando il giovane non mollò la presa.
Il pugnale cadde con un tonfo argentino sul pavimento di pietra. Un mortale non sarebbe mai stato forte come un dio, non importava quanto fosse allenato né se fosse a un passo dall'essere scelto come soldato della guardia del re.
Un'ala di Zefiro gli sfiorò il volto, gli lasciò addosso la sensazione di muschio e rugiada.
«Apollo non è l'unico a vedere tutto, io sono il vento e mi insinuo ovunque, e tu dovresti saperlo bene, ormai. Ho visto come il dio si è concesso a te. Cosa vi rende diversi da due miseri schiavi?»
Giacinto scostò il viso, ma le piume color del tramonto di Zefiro continuavano a ghermirlo. «Va via».
«So tante cose di lui. Apollo ha un'eternità di colpe da scontare, ma tu inizi ad averne altrettante...»
«Sta' zitto».
«Hybris. Un mortale che dà ordini a un dio», sussurrò Zefiro.
Giacinto spalancò gli occhi. Non c'era paura più grande che lo assediasse da quando aveva iniziato a capire che la sua vita sarebbe stata diversa da quella dei suoi fratelli. Da quando aveva ceduto alla corte del dio della musica e si era permesso di parlargli come a un suo pari. Da quando lui e Polibea avevano cercato Ecate nel cuore della notte e ottenuto i suoi favori, scavalcando Artemide. Da quando aveva mentito ad Apollo, assicurandogli che non gli nascondeva nulla.
Hybris. Nemmeno tutto il sangue degli animali di Sparta avrebbe potuto lavarla via.
Zefiro gli afferrò il volto, impresse le dita nella sua carne.
Giacinto le sentiva contro la mandibola, sentiva il suo fiato freddo e umido sulle labbra, un lampo rossastro nei suoi occhi celesti. In quel momento capì che Zefiro aveva detto tutto ad Artemide.
«Tu e tua sorella credevate di ingannare gli dèi. Sciocchi. Ora mi darai ciò che mi spetta». Zefiro lo avvolse con le sue ali, nell'abbraccio asfissiante con cui aveva cercato di ghermirlo già in passato, una mano gli tirava i capelli sulla nuca, costringendolo a reclinare la testa all'indietro e a sopportare i suoi baci bagnati sul collo.
Un urlo improvviso vibrò nell'aria, riecheggiò tra le colonne e la sala, con i suoi arazzi e i suoi arredi di bronzo. Poteva essere il suo, ma Giacinto sapeva che nulla gli era scappato dalle labbra, serrate per nascondere i suoi mugoli di dolore. Con la coda dell'occhio vide Timea accasciarsi nel cortile, la mano ancora posata sull'anemone bianco che stava per cogliere. A Giacinto parve che diventasse rosso, come il sangue che aveva inondato l'altare durante il sacrificio del giorno prima, come il sangue che macchiava la veste della donna e si allargava sotto le sue gambe. L'anemone cadde dalla sua presa, si incastrò tra l'erba. Un soffio di vento lo privò subito dei petali.
All'urlo della principessa si aggiunse quello concitato delle ancelle che la soccorsero. Poi Zefiro lo strinse per la vita e Giacinto distolse lo sguardo. Il loro inganno era stato svelato. Polibea si sarebbe dovuta ritenere fortunata se Artemide avesse ancora accettato la sua candidatura a sacerdotessa. Forse a entrambi sarebbe toccata una punizione peggiore.
Arpionò le spalle di Zefiro per spingerlo via. Non ci riuscì. Avevano ragione gli dèi a ridere degli uomini. Aveva già cercato in passato a sopraffare il Vento, ma non ci era riuscito.
Sentì la presa di Zefiro stringersi, i piedi che si sollevavano dal pavimento.
«Dove vuoi portarmi?», mormorò Giacinto.
«Dove potrò fare di te quello che voglio», gli sussurrò l'altro all'orecchio.
Avvolto dalle ali di Zefiro Giacinto si ritrovò fuori dal suo palazzo, sospeso nell'aria. Il cortile con le sue rampicanti e gli anemoni macchiati di sangue si faceva sempre più piccolo e lontano. Chiuse gli occhi. A che serviva vedere?
«Ti tratterò come merita un principe», disse Zefiro.
Un raggio di sole gli scaldò la nuca.
Apollo.
Una lama di luce gli ferì le palpebre chiuse, lo costrinse a riaprirle. Zefiro aveva sbarrato gli occhi, il volto contratto in una smorfia di dolore. Il suo volto investito dalla luce splendente e dorata si era fatto bianco. Aprì la bocca alla ricerca, forse, di un alito di aria fresca, che gli era più congeniale del calore del sole.
Giacinto sentì la sua presa allentarsi, il profumo di alloro avvolgerlo. Al suo fianco comparve il cocchio dorato di Apollo, i quattro cavalli bianchi e alati che nitrivano, mentre il dio della luce ne tirava le briglie. Lo prese per una mano e Zefiro, accecato dalla luce, cedette in fretta la morsa con cui lo stringeva. Le sue ali si aprirono, qualche piuma rossastra svolazzò via.
«Torna a Occidente, dove il sole tramonta ed è buio. Quello è il posto per te», sibilò Apollo, che adesso lo aveva adagiato al suo fianco sul carro.
Zefiro scomparve, lasciandosi alle spalle una scia di vento umido. Nell'aria vibravano le sue proteste, i lamenti per la luce che lo aveva accecato.
«Apollo», mormorò lui.
Il dio gli rivolse uno sguardo di fuoco. «Dobbiamo parlare, ma non prima di aver concluso il mio viaggio».
Era una punizione. Rimanere seduto sul quel carro, con il muto rimprovero del dio che aveva scoperto il suo inganno, lontano dal palazzo e da Polibea, che doveva essere spaventata quanto lui.
Si strinse nelle braccia. Da Zefiro era salvo, almeno per il momento.
Vide il mondo rimpicciolirsi. Sparta diventare un grumo di tetti e templi irriconoscibili, come granelli d sabbia di cui si può notare la differenza soltanto guardandoli da vicino. L'Eurota era un nastro sempre più sottile, che da azzurro diventava color del fango. Il monte Taigeto una macchia rocciosa e verde, come la chiazza di colore di un affresco malriuscito.
Alle sue spalle splendeva Elio, caldo e dorato, risentito che un mortale avesse occupato un posto sul carro divino. Non gli rivolgeva nessuno sguardo, come se la sua presenza fosse ben poco importante per poter essere presa in considerazione da un dio.
Il carro si abbassò dopo un tempo che Giacinto non avrebbe saputo definire. I monti, le città e i fiumi tornarono a definirsi, liquidi e solidi, azzurri e verdi.
«Va' da solo», disse Apollo a Elio, che gli rivolse uno sguardo di sbieco, ma gli ubbidì.
«Tu con me», ordinò invece a Giacinto. Lo prese tra le braccia e, avvolto in un pulviscolo dorato, planò con lui dolcemente nel bosco che faceva da sempre sfondo ai loro appuntamenti.
Giacinto avvertì una vertigine. La terra erra di nuovo solida contro i suoi piedi, le narici invase dai profumi resinosi e umidi che conosceva da sempre, non più dall'aria immobile e rarefatta del cielo.
«Stai bene?», gli domandò Apollo, una nota di dolcezza nella voce.
Lui fece un respiro profondo. Adesso veniva la parte peggiore, forse un rimprovero, forse una condanna eterna. «Adesso sì».
Apollo serrò le mascelle, il mento sollevato e l'aria volitiva. Doveva essere quello l'aspetto che aveva prima di scoccare le frecce che portavano la pestilenza agli uomini. «Mia sorella Artemide è furiosa».
«L'ho visto», disse lui, amaro.
Sul viso dell'altro si dipinse un'espressione incredula. Borea gli scompigliava i riccioli dorati, faceva sibilare le fronde degli abeti scuri. La luce moriva, tinta dal rosa di un tramonto imminente. Il buio avrebbe avvolto tutto, scatenato tristezza, che neanche la contemplazione delle stelle nella volta celeste avrebbe placato.
«Quante altre bugie mi hai detto?», tuonò Apollo.
«Nessuna».
Il dio si morse le labbra, gli occhi fiammeggianti. A Giacinto ricordò il giorno in cui aveva scoperto il destino di Tamiri. Allora Apollo gli aveva rivolto parole di scherno, mostrandosi crudele. Si preparò a ricevere un nuovo colpo.
«Sono il dio che vede tutto, ma con te la mia vista è annebbiata», sussurrò Apollo, gli occhi sconfitti, un cielo in cui si muovevano le emozioni, veloci come le nuvole che si avvicendano in cielo.
«Io e Polibea volevamo soltanto assicurare la pace nella nostra famiglia. Quando sono andato con lei a cercare Ecate, credevo che tu non mi volessi più, di non essere importante per te, e quando ci siamo ritrovati non sapevo più come dirtelo. Perché gli uomini non possono ottenere da un dio quello che l'alto ha negato? Non sono forse tutti meritevoli di sacrifici e preghiere?»
Apollo scosse la testa, una mano a massaggiarsi la fronte. «Il capriccio di un dio può scatenare una guerra».
Giacinto gli si avvicinò, perché quando erano vicini non li separava più la differenza tra uomo e dio.
Un'altra illusione, forse.
«Una guerra lunga e sanguinosa», continuò Apollo. «E a un dio non importa quante vittime faccia, fin quando il suo onore e il suo capriccio siano soddisfatti». Si lasciò accarezzare il volto, le iridi divennero blu come il cielo prima del tramonto. «Io sono come loro».
«Tu sei il dio che amo».
Il respiro di Apollo si spezzò in un gemito soffocato. «Ho convinto Artemide a non punirvi oltre, ma la sposa di tuo fratello non avrà figli. Dimenticalo». Gli prese il polso e gli baciò una mano. «Voglio che vieni con me a Delo, almeno per qualche tempo. Le coste dell'isola a me sacra non sono battute da Zefiro, sarai al sicuro».
«Ho avuto paura», gli confessò Giacinto. Odiò il tono strozzato della sua voce, il fatto che Zefiro gli avesse fatto conoscere la sensazione di impotenza che lo perseguitava quando chiudeva gli occhi la sera.
Apollo gli prese il volto tra le mani. Dietro di lui, tra i rami fitti degli abeti e dei pini, baluginavano gli ultimi raggi rosati di Elio. «Dovessi abbandonare l'Olimpo, veglierò su di te».
Hybris, pensò ancora lui. Eppure, non riuscì a sottrarsi al suo invito.
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