Parte 23 - Il patto con Ecate
Giacinto corse lungo il corridoio fino a raggiungere il cortile. Vide sua sorella con una fiaccola in mano che lo aspettava. Cercò di non darle a vedere la sua agitazione causata dall'incontro con Zefiro. Da quando Apollo era entrato nella sua vita tutto era un disastro.
«Così ci vedranno», la rimproverò.
Sua sorella si coprì il capo con un mantello. «Tutti dormono. Ho intravisto una luce rossastra sulle scale».
«Non era niente», la liquidò lui. Fece un respiro profondo. Si udì lo stridio di un uccello notturno. «Sei sicura di quello che stiamo per fare?»
«Argalo ha bisogno di un erede e io ho bisogno di diventare sacerdotessa. Non possiamo scegliere tra le due cose. Se Apollo non vuole darci una mano, ci sono altri dèi da pregare».
Ma tu non vuoi pregare, avrebbe dovuto ricordarle. Il suo piano somigliava a un inganno.
«Hai degli scrupoli?», gli domandò lei. «Apollo non se ne è fatto con te».
Giacinto inspirò a fondo. Gli ultimi tempi erano stati per lui una scia di decisioni sbagliate. Se erano il Fato e le Parche a decidere della vita degli uomini, ne aveva davvero la colpa?
Seguì sua sorella. Nella notte di luna nuova la sua fiaccola era l'unica via di luce da seguire. Uscirono da un ingresso secondario del palazzo e si ritrovarono nelle strade di Sparta, silenziose se non per l'eco dei rumori che animavano le foreste e i boschi sui monti.
Il fiume Eurota scorreva come un nastro scuro a tagliare la città. Attraversarono il ponte di pietra, i tempietti sulla via che servivano alla devozione popolare. Salirono sul pendio del monte, fino a raggiungere lo spiazzo sopraelevato dell'acropoli. Sparta, che sotto la luce del sole sarebbe apparsa nello splendore dei suoi tetti e delle sue mura, adesso si rivelava come un agglomerato indefinito, un grosso grumo di sangue scuro.
I piedi avvolti tra i sandali incontrarono le piante del sottobosco, le foglie dure e frastagliate, quelle più morbide che gli solleticavano le caviglie.
Nei pressi del tempio di Kore o nella foresta, Polibea sperava di trovare la dea che avrebbe potuto aiutarla.
«E se non ci fosse?», disse Giacinto. «Dovresti pregare Artemide, lei forse potrebbe ancora farti diventare sacerdotessa».
Polibea si liberò del mantello sul capo, le ciocche nere di capelli le sfuggirono dall'acconciatura sulla nuca. «Questo significherebbe lasciare la nostra famiglia nel caos. I nostri fratelli potrebbero iniziare una guerra per guadagnarsi il trono. Cinorta che ha un erede potrebbe volere il potere per sé».
«Nostro padre non gli permetterebbe di scavalcare Argalo».
Polibea gli rivolse uno sguardo di sbieco. «Cinorta non chiede permesso. Puoi ancora tirarti indietro».
«Non ti lascio da sola». Forse se non avesse ceduto alle lusinghe di Apollo non sarebbero stati in quella situazione. Sua sorella fu abbastanza comprensiva da non fargli domande.
Le foglie crepitarono sotto i loro passi. La notte era fresca, nell'aria si coglieva una traccia flebile del calore del giorno appena trascorso. Sulle loro teste brillavano le costellazioni. Ognuna di loro aveva una storia, molte erano state oggetti o uomini. Il Fato aveva deciso per loro la vita immortale degli astri, fredda, immota e perfetta. Né sulla terra né sull'Olimpo. Incastonate per sempre nella volta celeste, oggetto dell'ammirazione degli uomini, sacre senza essere divinità.
Apollo, quando gli allenamenti finivano tardi e loro si sdraiavano a terra a fissare il cielo, confortati dalla brezza fresca della sera, gli raccontava la storia di quelle stelle prima che diventassero tali, quando avevano ancora carne e sangue.
Giacinto deglutì. I ricordi lo tormentavano, sarebbero stata la cosa più difficile da cui liberarsi. Forse era per questo che Orfeo aveva avuto il coraggio di scendere nell'Ade per riavere indietro Euridice. Forse era per questo che, alla fine, non aveva avuto la forza di non voltarsi. Doveva guardare in faccia il suo ricordo, impossibile da lasciare andare anche a costo di perdere la felicità.
Un latrato ruppe l'aria crepitante della foresta. Il tempio di Kore era rischiarato dal fuoco di un braciere, le ombre rossastre delle fiamme si allungavano sulle colonne di pietra, sul frontone decorato da bassorilievi.
Giacinto la sentì prima di vederla. Le divinità si annunciavano con una vibrazione dell'aria, come se l'icore che scorreva nelle loro vene emanasse un'energia che nemmeno il loro corpo poteva contenere.
I passi di Ecate scricchiolarono sull'erba. La dea, avvolta da una tunica nera, camminava costeggiando il tempio. Le fiamme rischiararono di riflessi rubino i suoi capelli corvini, che le scendevano lunghi sulle spalle fino a sfiorarle la vita, cinta da una fascia color zafferano.
Si chinava verso i cespugli che la interessavano e le sue dita sfioravano le foglie, ne tracciavano i contorni, ne saggiavano la consistenza. Sotto il braccio portava un cesto di vimini e un cane nero la seguiva scodinzolando. Alle sue spalle si levava una nuvola di vapore. Da lontano, significava il suo nome, e lei sembrava venire da un altro mondo.
Sollevò la testa e un luccichio di sorpresa le brillò nello sguardo lucido e nero. «I sacrifici a Kore non le sono dovuti nella notte di luna nuova».
Polibea si fece avanti, abbassò la testa. «Cerchiamo te, dea dell'oscurità, della luna e della notte».
«Dea di molte altre cose. Fatevi guardare». Ecate sorrise, le labbra come petali di rosa rossa bagnati lasciarono intravedere i suoi denti.
Giacinto e sua sorella rimasero fermi, mentre la dea camminò attorno a loro, seguita dal fedele cane. «Tu». Indicò Giacinto. «Sei il giovane amante di Apollo».
«Non sono il suo amante», sibilò lui.
Ecate si fermò. Il cane ai suoi piedi digrignò i denti ed emise un mugolio rabbioso. «Non rinnegare l'amore di un dio. Voi uomini... Tanti anni e non avete ancora capito come funziona».
Giacinto strinse i pugni. Aveva capito come funzionava, ma questo non voleva dire che dovesse accettarlo. Gli dèi cercavano un diversivo per combattere la noia, e lui era stato un illuso a pensare, anche per una manciata di momenti, il contrario. Sulla pelle sentì il calore causato dagli sguardi della dea. Anche questo aveva capito: che lo sguardo di un dio non era come quello degli uomini, che ognuno di essi causava una reazione diversa – che fosse il gelo o il calore – sulla fragile pelle mortale.
«E tu?», disse, questa volta osservando Polibea.
«Lei è mia sorella». Giacinto le mise una mano sul ventre.
«Puoi lasciarla parlare. Vi vantate del fatto che a Sparta le donne siano più libere». Ecate accarezzò il suo cane. Al suo tocco l'animale si alzò scodinzolando.
Polibea si strinse il mantello sul petto, con l'altra mano era ancora impegnata reggere la torcia. «Dea, sono qui per chiederti aiuto. Il dio Apollo per volontà di sua sorella Artemide ci impone di scegliere tra due favori che ho domandato umilmente agli dèi».
«Sarebbero?» Ecate riprese a camminare in cerchio attorno a loro.
«Vorrei diventare sacerdotessa di Artemide, fuggire il matrimonio e la prole. La sposa di mio fratello, invece, ha bisogno di un figlio che non arriva. Non posso scegliere tra questi due favori, perché rinunciare al primo vorrebbe dire condannarmi all'infelicità, ma rinunciare al secondo significa gettare la mia famiglia in una lotta fratricida. Se Argalo avesse un figlio, la sua posizione sul trono sarebbe stabile e Cinorta non potrebbe insidiarlo».
Una civetta squittì, seguita da un stridio lontano e da un latrato. Suoni che Giacinto aveva sentito spesso, ma che quella notte parevano venire da lontano, da un mondo che era precluso ai vivi.
«Dimmi la tua richiesta», disse Ecate, un tono di comando nella voce.
Polibea deglutì, la fiaccola nella sua mano tremò. Giacinto ebbe l'istinto di prenderla per un braccio e fuggire. Apollo gli era sembrato spaventoso a volte, ma la dea che accompagnava le anime negli inferi nascondeva ombre insondabili.
«Chiederò ad Artemide di diventare sacerdotessa, ma a te, dea, chiedo una pozione che permetta di rendere la sposa di Argalo fertile».
«Tu sei d'accordo?», domandò Ecate a Giacinto.
«Non abbiamo altra scelta», rispose lui.
Apollo non aveva voluto aiutarli e adesso se la dovevano cavare in un modo o nell'altro. Tornava solo, come lo era stato quando tutta quella storia era iniziata. Una parte di lui desiderò che la luce splendente e dorata del giorno lo investisse, che Apollo comparisse e gli dicesse che aveva sbagliato con Tamiri, che avrebbe ottenuto da Artemide ciò di cui lui e Polibea avevano bisogno. L'unica luce a rischiarare la notte rimaneva quella della fiaccola di Polibea e del braciere davanti al tempio.
«Siete coraggiosi a sfidare gli dèi». Ecate si fermò di fronte a loro. «Se vi aiuto dovrete ringraziarmi come si deve».
«Cento animali ti sacrificherò», le promise Polibea.
Ecate annuì, un sorriso le piegò le labbra. Lentamente, seguita dal cane e dai latrati di animali invisibili, si avvicinò a una quercia imponente, ne accarezzò il tronco. «Avevo proprio voglia di donare agli uomini una pozione. Artemide è come suo fratello, non pensa che a se stessa, eppure tutti la celebrano. Anche tu, Polibea».
Sua sorella sussultò al tono di sottile rimprovero della dea.
«Qualcuno tra gli aedi dice che il mio nome deriva da desiderio. Esaudirò il vostro». Ecate immerse le dita nella sua cesta. «Avvicinati, Polibea, e apri i tuoi palmi». Aspettò che la giovane eseguisse l'ordine e poi le riversò sulle mani una manciata di semi di coriandolo. Un profumo fresco di erba e limone si diffuse nell'aria. «Raccoglierai le ortiche e le pesterai, le unirai ai semi e mescolerai tutto con farina di orzo. Mentre lo farai, invocherai il mio nome e il favore che ti concedo. Tutto questo prima che la luna inizi a crescere in cielo. Quest'impasto fallo mangiare alla sposa di Argalo prima che si unisca al suo sposo».
Polibea chiuse i pugni, trattenendo quei semi come fossero polvere d'oro. «Farò tutto come mi hai detto, e ti ringrazierò con un sacrificio adeguato».
Il cane ai piedi di Ecate emise un latrato soddisfatto. La dea si avvicinò a Giacinto, la lunga tunica frusciante tra le caviglie. Gli rivolse ancora uno sguardo penetrante. «Siete sicuri di voler ingannare gli dèi? A me non importa, io stessa per loro sono un inganno: mi muovo tra i vivi e i morti, lo stesso Zeus mi teme, ma voi non siete che umani».
Giacinto si lanciò uno sguardo di intesa con sua sorella. «Chiedere aiuto a te non è un inganno».
«Artemide è molto suscettibile». Ecate rise. Il suo petto vibrò di un suono cupo, e a Giacinto venne in mente la risata cristallina di Apollo, limpida come la sorgente argentina dove erano soliti riposarsi. Poi fu il lamento gutturale e straziante di Tamiri a cancellare il ricordo d'amore.
Ecate si fece seria. Un altro latrato, altri stridii di uccelli che si nascondevano tra le fronde della quercia ruppero l'aria. «Sei molto bello».
Giacinto aveva sentito quella frase un migliaio di volte, venata da lussuria, desiderio, orgoglio. Mai si era impastata alla malinconia, alla dolcezza di una pena condivisa. Suonava come una profezia, un dolore che avrebbe dovuto affrontare.
«Capisco perché tu abbia attirato l'attenzione di molti dèi, ma un uomo e un dio non fanno una coppia felice. Raramente ho visto il superbo dio della musica soffrire per amore. Più soffre e più diventa capriccioso».
«Vorrei che non facesse male a nessuno».
«Ho saputo di Tamiri. Sono state le Muse, ma è lui che le ha avvisate. Un dio come Apollo non puoi controllarlo. Io sono ombra e oscurità, tutti sanno quello che possono aspettarsi da me. Lui è luce, che si fa buio all'improvviso».
Buio e luce. Freddo e calore. Melodia e urla. Amore e abbandono.
Apollo gli aveva già mostrato tutto e a lui era rimasto un cuore spezzato.
Ecate si rivolse a sua sorella. «Ricordati, la pozione puoi farla solo durante la luna nuova», disse. Fece un cenno al suo cane e si voltò. Si inoltrò verso la foresta, seguita dall'animale fedele e da una nuvola nebbiosa che le lambiva i talloni.
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