Parte 15 - L'Olimpo
Fitte nubi cingevano la vetta dell'Olimpo. Sui pendii a cui gli uomini potevano arrivare si ammassavano querce e abeti, piante aromatiche e fiori selvatici. Nella valle di Tempe su cui si affacciava parte del monte correva placido il fiume Penèo, un nastro azzurro che con il suo gorgoglio ispirava i poeti e lusingava le Muse.
Nelle vicinanze gli uomini avevano dedicato un tempio ad Apollo, in cui raccoglievano l'alloro con cui avrebbero incoronato i vincitori dei Giochi.
Il dio oltrepassò lo strato spesso di nubi. Sulla cima del monte nessun vento molesto entrava. Persino Zefiro, Borea e gli altri dovevano tenere ferme le ali. Nessuna nuvola sporcava il colore limpido del cielo. Né neve né pioggia bagnavano le colonne e i portici. Non faceva mai troppo freddo né troppo caldo.
Le scalinate di marmo conducevano alle dimore che ogni dio aveva per sé. L'oro della dimora di Zeus baluginava, accarezzato da una luce eterna. Petali di rose profumate erano sparsi lungo i sentieri e le scale. Acqua limpida zampillava nelle fontane. Ogni arredo era istoriato, cesellato finemente, frutto del lavoro di Efesto.
Tutto era perfetto, tanto che nessun mortale avrebbe potuto mai riprodurlo. Qualche volta gli dèi si riunivano per leggere le poesie degli uomini, per ascoltare i racconti degli aedi. Ridevano quando sbagliavano a descrivere un tripode o un calice. Gli uomini non avevano idea di nulla, se non della loro fragile carne mortale.
Nei pressi della sua dimora aleggiava il profumo di alloro, la musica lieve di una delle Muse. Tutta quella perfezione ultimamente lo annoiava. Durante i concili degli dèi e le discussioni su come dovesse andare questa o quella guerra, su come dovesse essere punito questo o quell'umano, la sua mente vagava e si fermava sempre sul volto di Giacinto e sulle ore che avevano trascorso insieme. Poi il petto gli pungeva, come se qualcuno ci avesse conficcato una spina e soltanto un rito sacro potesse strapparla via. In quei momenti gli veniva voglia di correre dalla Pizia, di chiedere a lei, sacerdotessa mortale, aiuto per capire cosa gli stesse accadendo.
Si costrinse a pensare ad altro, a una ninfa che aveva visto bagnarsi nel fiume, a una bella seguace di sua sorella, che, se avesse potuto leggere nei suoi pensieri, sarebbe andata su tutte le furie. Nulla lo distraeva. Persino Acacallide, la splendida principessa figlia di Pasifae, adesso non gli suscitava che un tiepido desiderio.
Si affrettò verso la dimora di Zeus. Lo attendeva una riunione noiosa con gli altri.
Quando entrò nel tempio schioccò le dita. Ganimede, il coppiere degli dèi, gli versò l'ambrosia in una coppa dorata, anche quella frutto della fucina di Efesto. Apollo lasciò che il liquido gli bagnasse le labbra, che gli ricordasse la dolcezza di essere un dio.
Afrodite si stava già lamentando della bellezza di una ragazza mortale, Atena cercava di farle capire che non potevano perseguitare tutte le donne per colpa delle sue insicurezze. Efesto bofonchiò qualcosa su come sua moglie non fosse per niente insicura quando si trattava di concedersi agli altri dèi.
Apollo avvertì un senso di nausea. Ganimede serviva tutti in silenzio, rassegnato alla sua sorte. Zeus lo aveva rapito, e aveva ottenuto con la forza quello che il giovane forse non gli avrebbe mai dato. Un pensiero oscuro gli fece mordere le labbra. Sarebbe stato facile fare la stessa cosa con Giacinto, prendersi con la forza quello che desiderava da quando aveva incrociato il suo sguardo ai Giochi Pitici. Era l'unico mortale bello quanto un dio.
Bevve un altro sorso. Non lo avrebbe mai fatto. Quando aveva rincorso Dafne era stato vittima di un capriccio di Eros, adesso non avrebbe avuto nessuna giustificazione. Non voleva obbligare Giacinto a fare nulla, e sapeva che soddisfare quel desiderio non gli sarebbe bastato. Voleva qualcos'altro. Quella cosa per cui i poeti scrivevano milioni di parole, per cui i musici muovevano le dita sulla cetra, per cui le labbra e le corde vocali vibravano in un canto struggente.
Un fruscio lo riscosse, sulla pelle avvertì lo stesso freddo spiacevole che lo aveva colpito dopo il bagno nel ruscello con Giacinto. Lo riconobbe prima ancora di sollevare lo sguardo dalla sua coppa.
Zefiro si portava addosso sempre l'odore del tramonto, del mare che si faceva freddo. Un odore pungente e salmastro, che in quel momento trovò insopportabile.
«Perché ti sei messo qui davanti? Lì c'è posto». Apollo gli indicò la mensa a cui sedevano gli altri dèi.
Lui, invece, era rimasto in piedi a osservare il consesso divino. Alle sue spalle un bassorilievo dorato su cui erano incise le imprese di Eracle, emanava guizzi di luce. Nell'Olimpo non doveva esserci nessun riferimento a qualcosa che non fosse divino, ma Zeus aveva fatto un'eccezione per suo figlio, un semidio.
Gli dèi stabilivano le regole e le eccezioni, fino a quando non si scontravano con il volere più alto e inintelligibile del Fato.
Il dio del vento fece un cenno a Ganimede, e quello corse a riempirgli la coppa di ambrosia. L'eterna luce dell'Olimpo accarezzava le sfumature rosate e cremisi delle ali di Zefiro, i suoi capelli di ossidiana, che ricordavano il buio dopo il tramonto. A Ponente il viaggio del carro del sole si concludeva e qualche volta Apollo aveva l'impressione che, se avesse potuto, Zefiro avrebbe risucchiato per sempre la sua luce.
«Ti fai spesso delle illusioni, Apollo», disse il giovane vento. Il suo tono di voce era sempre un sussurro, quasi inaudibile. Arrivava alle spalle all'improvviso e, a eccezione di quando aveva sospinto la conchiglia di Afrodite, aveva accessi di violenza, scaricava la pioggia e lasciava un brivido sulla pelle di chi aveva avuto la sfortuna di incontralo. Le labbra parevano perennemente atteggiate in un bacio, a causa del movimento consueto con cui soffiava l'aria.
«Parla chiaro», disse lui spazientito. Non aveva dimenticato il modo in cui si era insinuato tra lui e Giacinto, lo sguardo spaurito sul viso del giovane.
Zefiro strinse gli occhi celesti dalla forma allungata. Era più basso di lui e lo guardava dall'alto in basso. La pelle pallida di chi non vede mai il sole. «Non ti è bastato quello che è accaduto con Dafne?»
Apollo gli si avvicinò con un balzo. «Continuo a non capire».
Il vocio degli altri dèi continuava sommesso, come il mormorio infinito delle onde del mare che all'improvviso si rianima con la tempesta. Artemide era arrivata in quel momento. Gli rivolse uno sguardo d'intesa, ma lui le fece un gesto con la mano. Se la cavava da solo.
«Ti ho visto mentre ti allenavi con Giacinto nel bosco. Non otterrai niente da lui. Inoltre, arrivi tardi». Un sorriso piegò le labbra di Zefiro, rosse come il tramonto. «È da tempo che io gli faccio compagnia».
«Lui non ti conosce».
La risata di Zefiro riecheggiò nella sala. «Ti ha detto questo? Forse aveva paura della tua furia. Tu sei il dio sterminatore, capace di uccidere con le tue frecce molti uomini in un colpo solo, e per causa tua sua sorella Dafne ha perso il suo aspetto umano. C'è da capirlo».
Apollo strinse la coppa tra le dita. «Devi lasciarlo in pace».
«Come ti ho detto: arrivi tardi. Non sai quante volte ho accarezzato il suo viso, mi sono insinuato sotto la sua tunica, ne ho gonfiato la stoffa e ne ho sfiorato le carni. Sì, all'inizio si lamentano tutti, tremano, ma a me non possono sfuggire a anche lui...»
Apollo scagliò la sua coppa sulla parete. L'ambrosia sporcò il bassorilievo di Eracle e i piedi di Zefiro.
«Non lo avrai mai», gli sputò addosso.
La risata di Zefiro lo inseguì sotto il colonnato, lungo la scalinata. Gli altri dèi mormorarono, Efesto si lamentava, stanco di riparare i manufatti che gli altri rompevano. E lui fu preso ancora dall'inquietudine, dalla sensazione di una profezia che ancora non conosceva e a cui non poteva sfuggire.
Lasciò l'Olimpo, nonostante le proteste di suo padre, che lo rimproverava di trascurare i suoi doveri per rincorrere un mortale, e quelle di Ermes, che gli portava il messaggio infuriato di Pasifae. Apollo aveva usato sua figlia e adesso l'aveva dimenticata in favore di un giovane mortale.
Attraversò ancora la valle di Tempe, e veloce arrivò a Sparta in una soleggiata mattina estiva. I mercati pullulavano di confusione, le stoa si affollavano di voci e odori, tutto così pungente rispetto alla placida serenità della sua dimora.
Passò oltre i templi disseminati lungo la via principale, le grandi statue di bronzo che l'adornavano, l'ippodromo. Giacinto lo aspettava su una collina che dominava la città, dove erano situati i templi dedicati a Zeus e a Elio.
Sparta adesso si stendeva ai suoi piedi, tagliata dalla scia azzurra del fiume Eurota, rilucente al sole. A sud si ergevano le caserme dove i soldati si allenavano, dove per tanto tempo Giacinto era stato chiuso con gli altri ragazzi. Apollo lo vide da lontano, il volto diretto al tempio di Zeus, con il frontone rosso e le quattro colonne candide, come se gli stesse rivolgendo un'invocazione.
Zefiro doveva aver mentito. Non valeva la pena neanche di domandargli una spiegazione. Si fermò sotto un ulivo. La voce di Giacinto si mescolava a quella di un altro uomo, dal fisico asciutto. Un musico, a giudicare dalla cetra che portava con sé. Uno strumento semplice, che non apparteneva a una divinità.
Apollo rimase in attesa. Le prime note si levarono nell'aria, ma Giacinto scosse la testa.
L'uomo dagli occhi grigi schiuse le labbra. «Perché no?»
«Va' via. Devo allenarmi adesso», disse Giacinto in tono infastidito.
L'altro gli voltò le spalle e scomparve tra gli ulivi e i pini della collina.
«Sono in ritardo», disse Apollo.
Giacinto si voltò di scatto. All'espressione sorpresa seguì un sorriso. «Gli dèi non sono mai in ritardo».
Non può raccontarmi bugie. È troppo limpido.
Apollo gli porse una mano. «Chi era quel tipo?»
«Non lo conosco».
«Ho preparato qualcosa per te nella foresta».
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