Stagione di Semina
Avvicino la fiammella al camino della pipa.
Tiro e il sapore forte del tabacco seccato a fuoco mi prende la bocca.
Che tranquillità! Passerei il resto dei miei giorni col culo sul carretto, davanti a falò scoppiettanti come questo, anche se il freddo t'afferra ancora per gli zebedei.
L'aria sa di tabacco e di carne messa ad abbrustolire, l'unico suono è il canto un po' rompicoglioni delle cicale e quello già più bello dei gufi.
La campagna di notte è un posto magico, altroché! Soprattutto stasera, con tutti 'sti falò che bruciano in lontananza come tante lucciole.
Non ci avresti dato un soldo bucato a questo marzo: il giorno della Candelora c'era un sole malato che sembrava una presa per il culo e che prometteva ancora mesi di gelo.
"Madòna Candlóra, che neva o che pióva, da l'invéran a sem fòra; e se sta e' sulatël, un gni è incora un msarël," diceva il mio vecchio, e c'aveva ragione. Infatti se non era per il fuoco col cavolo che me ne stavo qua fuori, c'è quel freschino bastardo che ti entra sotto la maglia di lana e ti ciuccia le ossa come fossero ossibuchi.
Vedere la campagna illuminata così, però, ti fa quasi sperare che la messe sarà abbondante, ti fa quasi credere che sarà un anno buono, se alla Signora piacerà.
Butto fuori il fumo e attraverso la nuvola m'accorgo di qualcosa che si muove contro il muro della masseria.
Mi giro di scatto e già accarezzo la canna gelida della doppietta, ma è solo Tommasino.
Se ne sta sull'uscio con la mantella di lana sulle spalle, ciondolante dal sonno, come indeciso se far un passo avanti o scappare di nuovo sotto le coperte.
Si strofina un occhio cisposo con le nocche e le lingue di fuoco del falò si riflettono nell'altro, spalancato.
Mollo lo schioppo e alzo una mano. «Ohi Tommasino.»
Come s'è fatto grande, mamma mia! Me lo ricordo che gli avevo regalato un pupazzo di scampoli di stoffa imbottito di barbe di granturco, e come ci si divertiva!
Saranno stati nove, dieci anni fa, ormai. I falò di marzo si prestano anche a 'sto tipo di pensieri un po' tristi, gli ultimi, prima della primavera. «Che c'hai, hai fatto un brutto sogno?»
L'ometto fa di sì con la testa, con un broncio sulle labbra che sembra abbia ciucciato un limone.
Batto la mano sulla tavola del carretto al mio fianco, i calli fanno un rumore di pietre contro al legno. «Vieni qui, fatti vicino.»
Strascica i calzettoni sull'erba e si fa dappresso, senza degnami neanche di un'occhiata tanto è preso dalle lingue di fuoco del falò, dal suo scoppiettare allegro e dal fumo scuro che si alza assieme ai cento altri sparpagliati per la campagna.
Mi viene vicino vicino e strofina il braccio contro al mio, fa un saltello ed eccolo seduto sul carretto, che scricchiola.
Aspiro fumo acre dalla pipa, un pezzetto di tabacco mi arriva fin in bocca.
Lo mastico e lo sputo sull'erba.
Stiamo in silenzio a guardare il fuoco, una danza elegante e ripetitiva da farti diventar scemo, ma da cui non riesci a staccare gli occhi.
«Nonno,» mi fa, e tira su col naso. «Come si ammazza una strega?»
Ciuccio il bocchino della pipa e sorrido. Ragazzo intelligente. Per un po' ho avuto paura che tutti quei libri lo facessero venir citrullo, invece so che il podere sarà in buone mani.
Gli lancio uno sguardo col sopracciglio alzato, ma in realtà mi fa piacere spiegargli queste cose. Prima le impara, prima diventa uomo.
«Dapprincipio bisogna che la riconosci. Mica è facile eh!»
Non è facile per un corno! Butto fuori il fumo e gli punto il bocchino contro alla faccia.
«Le streghe, quelle vere, non sono mica come nelle favole, tutte vecchie, brutte e colle verruche sul naso. Anzi! Di solito sono ragazze bellissime.» Sorrido e schiocco le labbra come se avessi appena masticato un pezzetto di castagnaccio. «Dei bocconcini per gli scemi che non se n'accorgono!»
Stacca gli occhi dal fuoco e mi guarda, ha l'aria di uno che non ha capito. «Ma le belle ragazze sono tante!»
Abbassa lo sguardo come se avesse detto un'eresia.
Io ridacchio. Lo so che sta venendo su sano, e l'ho visto come guarda la Nora, il birbante: ha due occhi fuori dalle orbite che neanche davanti a un bombolone alla crema. È anche ora che si svegli, io alla sua età già peccavo come un cardinale.
C'è buio anche davanti al falò, ma potrei giurare di aver visto le sue guanciotte farsi tutte rosse nel sentirmi ridere.
Alza le mani e balbetta un poco. «Voglio dire... come fate a capire che una è una strega?»
Scrollo le spalle e mi ricaccio la pipa in bocca. «Lo capisci e basta, se c'hai un po' di sale in zucca e il sangue non ti è andato tutto giù al batacchio.»
Ma come fai a ficcarlo in testa a un ragazzino che ha appena iniziato a veder le donne? Come gli fai capire che il diavolo è sempre in agguato e pronto a fregarti, che conosce benissimo tutti i tuoi peccatucci e che userà proprio quelli per avvicinarsi a te da dietro, gatton gattoni, finché non te lo avrà spinto ben su per il culo?
Tommasino tiene la fronte aggrottata, gli occhi schizzano a destra e a manca impazziti come olive che rotolano giù dal pendio.
Tengo la pipa stretta tra i denti e mi abbasso verso il pupo.
Parlo sottovoce perché certi discorsi è meglio farli di nascosto, specie quando sei circondato dal buio. «In 'sto periodo bisogna stare attenti. Gli ultimi di febbraio e i primi di marzo sono i giorni della canucéra, e anche quando sarai grande, puoi scommetterci un occhio, ci sarà un momento in cui tutto andrà in malora.»
Ha visto il trambusto che c'è stato oggi, sennò non mi chiedeva mica delle streghe, proprio stanotte. E la canucéra è la strega peggiore di tutte. Se vedi una femmina che fila la lana mentre succedono disgrazie, puoi star tranquillo che è colpa sua.
Sorrido, gli appoggio una mano sulla spalla e stringo.
Muscoli forti, proprio come quelli del nonno. «Ecco perché da una settimana non stiamo mica lavorando. La vite avrebbe anche bisogno di una bella tosata, ma niente, si aspetta San Giuseppe. Sennò stai pur certo che ti ficchi le forbici in mano.»
Tommasino fa di sì tutto convinto, col sorriso di uno che finalmente ci ha capito qualcosa. «Ieri l'altro cercavo una mela per far merenda e la frutta era tutta marcia.» Tira fuori la mano da sotto la mantella e fa un cerchio con le dita grosso come una nespola. «C'erano dei mosconi grandi così, e una puzza acida schifosa.»
Un po' schizzinoso, il ragazzo.
Gli tiro una pacca sulla schiena. Forse ho esagerato perché spalanca gli occhi e corre con la mano al legno del carretto per non volare giù. Inizia a tossicchiare come un tisico.
Schizzinoso e anche un po' pappamolla, ma ci si può lavorare. «Vedi che non sono balle quelle che ti dico? Ma non è il peggio.»
Il signorino si schiarisce la gola e mi guarda con due occhi grandi grandi, il sonno se l'è lasciato tutto dietro, ormai.
Non vede l'ora di sapere la storia, e io mi godo 'sto momento di attesa, con lui che pende dalle mie labbra come un mezzo toscano smangiucchiato.
Aspiro una lunga boccata dalla pipa.
Tengo il fumo forte tra le guance e sposto gli occhi verso la distesa di falò che illumina le colline come un albero di Natale.
Butto fuori il fumo grigiastro, lo guardo salire in ghirigori e andarsi a unire con quello nero del fuoco.
Tommasino si agita sul carretto, e m'accorgo che non mi ha staccato gli occhi da dosso.
Tolgo la pipa dalle labbra e faccio la voce di quando ci raccontavo le favole, una decina d'anni fa. «Stamattina stavo nei campi a veder se il freddo becco non si era già portato via qualche gemma. A un certo punto sento il Gianni gridare come un pazzo.»
Faccio una pausa, che lo vedo già sconvolto. Il Gianni non è uno che perde la pazienza: è un sant'uomo, sempre calmo anche quando le cavallette ci mangiano tutto il raccolto. Al massimo lo vedi serio, un po' ammosciato, ma mai che gli scappi una bestemmia.
Mi porto la pipa alla guancia e la pigio forte. Il calore del camino fa piacere con 'sti ultimi freddi. «Ci vado appresso e che vedo? È lì che si tiene la faccia colla mano coperta di sangue. "Luciano," mi fa, "quella disgraziata della Linda m'ha accoltellato col rasoio!". Ma mica lo ha detto così eh! Parlava tutto strascinato e sputacchiava rosso che neanche una bottiglia di lambrusco.»
Il pupo spalanca la bocca tutto sorpreso. «Linda? Sua figlia?»
«Proprio lei. La siamo andati a cercare assieme, la disgraziata: se ne stava rannicchiata nella stalla, col rasoio lordo di sangue ancora in mano e le tettine scoperte che dal freddo puntavano dritte come baionette.»
Che impressione m'ha fatto! E pensare che io l'ho vista nascere, quella creaturina, appena una dozzina di anni fa.
Tommasino stringe le labbra e tira indietro la testa, come se gli avessi mollato un cazzotto sul muso.
Lo vedo che non sa dove guardare e che torna a farsi rosso, il mascalzone.
Tira un sospiro che sibila tra i denti, m'immagino che si stia ancora figurando i capezzolini della Linda.
Mi guarda corrucciato. «Perché l'ha fatto?»
«È ammattita, per forza c'è di mezzo qualche demone che l'ha presa. È sempre così quando la gente inizia a comportarsi strano.»
Faccio di sì con la testa e batto l'indice della mano libera sulla coscia. È tanto ovvio che non so come spiegarlo più semplice di così. Soprattutto in 'sti giorni, se uno va fuori di zucca puoi scommetterci i coglioni che c'è di mezzo lo zampino del demonio, o almeno un malocchio, che poi è la stessa cosa.
«Lei ha iniziato a dir su che il Gianni le fa fare robe strane, che tutti i giorni la spoglia giù nuda e la fa ragliare come un asino a quattro zampe mentre le tira pedate sul culo. S'é anche strappata dal petto il vestito buono per farci credere alle sue balle.»
Batto il cannello della pipa contro il palmo della mano e ci ripenso ancora, alle parole dell'indemoniata.
Figurati se il Gianni fa una roba così. Ma comunque quel che succede a casa sua sono fatti suoi e basta, se ha bisogno di un po' di divertimento dopo che la Sandra è morta che gli vuoi dire, povero cristo?
Lancio uno sguardo a Tommasino di nascosto, per cercare di capire che idea s'è fatta, che i ragazzini certe volte ci vedono anche più lungo di noi vecchi.
Mi sembra solo stupito, però, e tanto preso dalla storia che le mosche rischiano di finirci in bocca.
Allargo le braccia. «Allora l'abbiamo presa e l'abbiamo portata fuori nel campo. Poverina, scalciava come un mulo per davvero, chissà che demonio c'aveva in corpo.»
La gamba mi fa ancora un po' male, che mi è arrivato un calcione della miseria.
«Urlava e piangeva tanto forte che è venuto anche il Remigio, e si è portato dietro la caveja dei suoi bisnonni, che c'ha gli stemmi della croce e della colomba in cima.»
Tommasino si sistema meglio sul carretto.
È tanto curvo verso di me che a momenti casca giù, con mezzo sedere sul legno e mezzo fuori.
Guardo lontano, oltre il fumo scuro che sale dal falò. «Mentre la tenevamo ferma e il Gianni la batteva per farle uscire la belva da dentro, che cosa mi vedo? Lo immagini?»
Ce l'ho davanti agli occhi come fosse adesso.
Non aspetto che il pupo provi a rispondere. «Sotto il porticato c'era questa ragazza che filava e filava, tutta vestita di bianco. Dalla cuffia non usciva neanche un ciuffo di capelli, proprio una pia donna, avresti detto.»
«Chi era nonno? La Nora?»
Gli dò uno spintone che a momenti lo faccio volar giù davvero. «Ma va', te e la Nora! Non fai che pensare alla Nora, mascalzone!»
Rido e scuoto la testa. Facile ridere adesso che il pericolo è passato. «No ti dico che non l'avevo mai vista, e già questo è strano. Poi mi sono accorto che mentre la Linda si prendeva le sue belle mazzate questa ci guardava di tanto in tanto, veloce perché non ci accorgessimo, e sorrideva.»
Sbatto la pipa sull'altra mano per dar forza a questo fatto, che proprio mi aveva convinto. «Capito? Sorrideva, la disgraziata! Io l'ho visto subito, l'ho indicata a dito e ho urlato: "La canucéra! La canucéra!"»
Tommasino ha il guardafisso. Non sposta più gli occhi sul fuoco, sono io il suo falò, adesso. Muovo la pipa nell'aria. «Se vedevi che paura che aveva! Ma io e Remigio siamo corsi e l'abbiamo presa per le braccia, così non scappava più.»
Il pupo alza un sopracciglio. «Era lei la strega?»
«Ma sì, ti dico! Ricordati sempre che, se qualcosa va male, c'è lo zampino del diavolo. A volte anche la coda e tutto il forcone. Le streghe sono le baldracche del demonio, è attraverso di loro che fa la malora!»
«E quindi eravate sicuri che fosse proprio lei? La canocchiaia?»
«Sì! Conta che come ha visto avvicinare Remigio di gran carriera con la caveja e gli stemmi santi ha lasciato cascare la lana e tutto e ha iniziato a urlare come un'attricetta con l'esperienza.»
Faccio la voce acuta per imitarla uguale. «"Non ho fatto niente! Che volete da me, sono venuta qui dalla città! Che volete?"»
Rido e scuoto la testa. Credeva di fregarci con la commedia, la furba! «Come no, come no! Aveva la paura disegnata nelle palle degli occhi, te lo dico io!»
Infilo il bocchino tra le labbra e ciuccio.
Mi viene in bocca un'acquetta che sa di acido e di tabacco bagnato. S'è spenta la pipa, a furia di parlare.
Cerco lo scovolino nel taschino del gilet e mi spingo verso il pupo. «Adesso ti insegno una cosa che non s'impara mica sui libri che leggi te: le streghe fanno le loro magie con le mani. Muovono le ditina nell'aria, come se stessero tessendo. Quindi la prima cosa che devi fare se ne becchi una è spezzarci le dita.»
Il pappamolla fa una smorfia.
Tiro fuori lo scovolino e lo adopero per spingere il tabacco bruciacchiato sul fondo del camino. «Gianni lo sapeva, e infatti ha mandato subito la Linda a prendere il correggiato per battere il grano. Ci ha messo una vita perché era mezza zoppa, ma noi abbiamo tenuto la canucéra stretta stretta come una trota che rischia di sgusciare via e tornare in acqua.»
E Dio sa se non c'ha provato a scappare, la baldracca! Ma niente da fare, ormai l'avevamo presa.
Dò qualche tiro alla pipa adesso che il trinciato è più compatto, ma niente: ancora sapore di schifo.
Infilo la mano nella tasca dei pantaloni e sento la scatola di cerini. «È qui che si vede se sei un vero uomo, Tommasino. Perché la megera era proprio bella! Remigio le ha tolto la cuffia e il vestitino da novizia che si era messa per offendere ancora di più nostro Signore.»
Sto zitto, perché so che il pupo muore dalla voglia di sapere.
Invece di dargli il resto della storia, gli passo la pipa.
La prende, la guarda, ci dà una sniffata e storce la bocca. Un poco schizzinoso, come dicevo.
Tiro fuori un cerino, lo accendo e rimetto via la scatoletta.
Tommasino alza le mani con la pipa sopra, sembra il prete che a messa alza il calice col sangue di Cristo, ma anziché la redenzione aspetta la fine della storia.
La prendo per il camino di pannocchia, la caccio in bocca e avvicino la fiammella.
Aspiro piccole boccate e il sapore buono del fumo mi torna sulla lingua.
Schiocco le labbra. «Dov'ero arrivato?»
«A Remigio che le ha tolto il vestito.»
Sorrido dietro la pipa. «Ah, già! Dovevi vedere che capelli lunghi del colore del grano maturo, che nasino all'insù da morderlo tutto, e che forme sode! Bianca come il latte, da far perdere la testa anche al vescovo.»
Lo vedo che già parte per le sue fantasticherie.
Gli punto il bocchino contro al muso, fili di fumo escono ancora dal camino. «Ma non dovevi pensare agli occhioni azzurri e pieni di lacrime, né al peletto che aveva tra le gambe, in quel momento. Dovevi solo tenerla ferma mentre si dimenava e lasciare che Gianni le colpisse le dita col correggiato.»
Crick crock facevano, come le ossicina di pollo quando ti capitano sotto ai denti.
Aveva dita belle lunghe e affusolate, la stregaccia, e alla fine sembravano piatti di polenta col ragù di coniglio.
Riporto la pipa alla bocca. «Tanto per andare sul sicuro ci ha spezzato anche le ginocchia, così di certo non scappava più. Ma sono più forti del fuoco dell'inferno, 'ste megere, lottano fino all'ultimo! E dato che bisogna controllare per bene dove c'hanno il marchio del diavolo sul corpo, Gianni le ha fatto saltare tutti i denti che poteva, così almeno quando ci infilavi le dita in bocca quella lurida non te le staccava.»
Tommasino aggrotta la fronte. Sembrava che avesse seguito tutto, fino a 'sto punto, ma mi sa che s'è perso un'altra volta.
Si porta le dita alle labbra, come se avesse paura che le parole gli scappano. «Nonno, com'è il marchio del diavolo?»
Alzo le spalle. «Dipende, ma te n'accorgi se Satana ha marchiato una cristiana! È una cicatrice dalla forma strana, di solito, oppure una macchia sulla pelle... ma bisogna cercare bene perché il demonio è furbo e la nasconde! Magari sta sotto la lingua, o in fondo al sedere, chi lo sa!»
La stregaccia ha pensato anche di spaventarci pisciando e cacando come una scrofa, mentre le cercavamo il segno.
Ma figurati se ci fa paura sporcarci, a noi: mi sa che s'era abituata ai perfettini e agli allocchi di città.
«E lo avete trovato?» fa Tommasino, di nuovo tutto piegato verso di me.
Faccio di sì con la testa, tutto contento del successo. «C'aveva un neo nero come la morte nella coscia, proprio attaccato alla fessa. Ma non è importante trovare il marchio, alla fine: è uno scrupolo.»
Scrollo le spalle. Ci sono cose più urgenti che deve imparare. «L'importante è che prima che la ammazzi la porti vicino al pozzo. È al pozzo che ci si libera della iettatura e del malocchio e si scacciano gli spiriti cattivi.»
Punto il cannello della pipa come fosse un indice verso il pozzo, a un dieci metri da noi. Le lingue di fuoco del falò lo illuminano e fanno brillare le macchie di sangue secco sui sassi come se fosse ancora fresco.
Torno a ciucciare la pipa. Tommasino ha lasciato gli occhi incollati a quelle pietre, vedo che li muove come se ne disegnasse il profilo.
Trema un poco, e non so se è per il freddo o per la paura che è tornata.
Fa bene ad avere paura.
Fa bene a essere spaventato, perché il timore porta con sé il rispetto e chi lavora la terra vive di questo: paura e rispetto per la Signora della Messe, e gratitudine, quando ci offre i suoi frutti.
Gli poso una mano sulla spalla.
Sussulta e stacca gli occhi dal pozzo.
«S'è fatto tardi, Tommasino. Torna a letto, dai.»
Mi cerca con lo sguardo: sembra più grande di quando l'ho visto sulla soglia di casa, anche se sono passati solo pochi minuti.
Fa di sì con la testa. «Va bene, nonno. Grazie che mi avete raccontato.»
Salta giù dal carro e si sistema la mantella sulle spalle.
Lo afferro per un braccio prima che mi scappi. «Hai ancora paura della strega, ometto?»
Sposta lo sguardo sul falò.
Lo faccio anche io: il fuoco scoppietta ancora vivace, il fumo nero si alza verso il cielo punteggiato di stelle, il viso carbonizzato mi fissa da orbite vuote e con un sorriso sdentato.
«No. Non più.» L'ometto si avvicina di qualche passo al falò, senza distogliere lo sguardo. «Non fa più paura, quando smette di strillare.»
Un ragazzo così intelligente.
Il podere sarà in buone mani.
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