L'Amuleto

Esco nella pioggia e l'Ombra mi segue.

Il marciapiede bagnato riflette le luci spettrali dei lampioni al neon, il freddo penetra dentro alle ossa.
Allungo il passo. Le foglie marce si spiaccicano sotto alle suole delle scarpe con un rumore viscido simile a un rigurgito di sangue.
Per quanto provi a scacciare il ricordo di Max che annaspa, nel tentativo di rimanere aggrappato alla vita, la macabra immagine trova sempre il modo di tornare.
Asciugo le lacrime di pioggia con la manica del cappotto.

L'Ombra è a una ventina di passi da me: le gocce deviano attorno al suo corpo tanto slanciato da risultare caricaturale e mi permettono di distinguerlo dal buio.
I pozzi di tenebra che ha per occhi lasciano fuoriuscire un bagliore dorato. Si illuminano ogni volta che si avvicina a noi, come se rilevasse la nostra presenza e ci salutasse beffardo: quando ha affondato gli artigli nel ventre di Max e gli ha aperto la pancia, come fosse una bambola di stoffa, le due cavità lampeggiavano con la frenesia di un orgasmo.
Affondo le mani nelle tasche e imbocco il vicolo a sinistra.

Scendo dal marciapiede, la scarpa da ginnastica affonda in una pozzanghera melmosa.
Ignoro il freddo, continuo a muovermi: non saprei dire se lo scalpiccio che proviene dalle mie spalle sia dovuto alla pioggia che batte sui bidoni della spazzatura, alla corsa scoordinata della creatura o ai miei stessi passi.
Non ha importanza. Se mi fermo sono finito.
Le dita della mano destra sfiorano il bordo liscio e stranamente caldo del frammento d'ambra che conservo in tasca. Lo faccio scivolare verso il palmo e lo stringo con tutte le mie forze.

Mi fermo davanti alla porta a vetri del palazzo, la spalanco e mi getto dentro.
Non perdo tempo ad aspettare che si richiuda alle mie spalle, né a cercare l'interruttore della luce: mi precipito su per le scale, le suole bagnate battono un ritmo disperato sui gradini di marmo.
Un ronzio mi accompagna per tutta la salita, come se uno sciame di mosche si stesse avvicinando.
È un suono che ho imparato a conoscere fin troppo bene.

Raggiungo il pianerottolo e mi volto di scatto: nell'oscurità delle scale, due globi incandescenti ardono a intermittenza, pregustando un nuovo orgasmo di morte.
La loro luce è gelida, incapace di diradare la tenebra che mi circonda.
Estraggo il frammento d'ambra dalla tasca e lo alzo: la superficie della pietra scotta tra le dita e sprigiona un bagliore color miele.
Contraggo i muscoli della gola per far uscire una voce roca e vibrante, come Genny mi ha insegnato a fare. «Apo pantos kakodaimonos!»

Le parole grattano l'ugola e il palato, e fanno vibrare il frammento d'ambra che stringo in pugno.
Le orbite della creatura perdono luminosità, sfarfallano come se sbattesse palpebre che non possiede.
Un ronzio rabbioso e l'ombra viene risucchiata dalla tromba delle scale, in una folata di vento gelido.
L'ambra smette di diffondere il suo tenue chiarore e il silenzio precipita su di me, interrotto solo dal battere incessante della pioggia contro le mura del condominio.
Riprendo a correre e restituisco il prezioso amuleto al fondo della tasca.

Il cuore non ha mai smesso di pulsarmi nelle tempie: mi accorgo solo ora del tremolio che si è impossessato delle mani, del fiato pesante e delle gocce di sudore gelido che mi scivolano lungo al collo, facendo a gara con quelle che la pioggia mi ha lasciato addosso.
Imbocco il corridoio e accosto la terza porta sulla destra.
Non ho bisogno di leggere il numero o il cognome sul campanello: li conosco a memoria.

Batto con il palmo aperto sul legno, lascio impronte bagnate sulla porta.
Il ronzio sommesso e minaccioso proviene dalla tromba delle scale.
Batto più forte, senza fermarmi e ignorando il palmo intorpidito dal freddo e dai colpi.
«Chi è?» La voce di Genny è squillante, allarmata.
«Matteo. Apri!»
«Come so che sei davvero tu?»
Ma se sei stata tu a chiamarmi! Batto con più insistenza. «Apri questa cazzo di porta, maledizione!»
Un concerto di catenacci e chiavistelli mi raggiunge da oltre il legno.
Smetto di bussare, stringo le dita contro il palmo e le distendo di nuovo.
Oltre la pioggia e il cingolare dei dispositivi di sicurezza di Eugenia, lo sciame di mosche sembra più vicino e incazzato.
Tiro un pugno alla porta. «È qui! Sta arrivando, sbrigati!»

Un ultimo clank e gli occhi verdi di Eugenia prendono il posto delle venature del rovere.
Poso i palmi bagnati sulle sue tette e spingo, senza tante cerimonie.
Indietreggia di qualche passo ed entro. Sbatto la porta e inizio a tirare tutti i catenacci che vedo.
Il ronzio mi riempie ancora le orecchie, come se avessi un calabrone spinto sul fondo del condotto uditivo. «E dammi una mano, accidenti!»
Genny si materializza al mio fianco, più bassa di una ventina di centimetri, e armeggia con i chiavistelli della metà inferiore della porta.

TUMP! Un colpo improvviso, il rovere vibra sotto alle nostre mani, i catenacci sembrano sul punto si saltare.
Genny balza indietro, come se si fosse appena scottata, e preme le mani sulle labbra. «Cazzo!»
Faccio un passo indietro e mi giro verso di lei. Le pupille sono ridotte a due spilli nel mare di giada delle iridi, rese ancora più grandi dalle lenti spesse.
La felpa grigia ha due macchie più scure all'altezza dei seni, e hanno la forma delle mie mani.
«"Cazzo" lo dico io, cazzo! Che cosa aspettavi a farmi entrare? Che finissi con le budella a terra o con la testa staccata?»
Le mani mi tremano ancora. Non riesco a controllarle, le infilo nelle tasche della giacca. Le dita della destra accarezzano l'ambra.
Dall'esterno non proviene più alcun suono.
Eugenia apre la bocca e la richiude. Abbassa il volto: i capelli castano scuro sono radi, riuniti in ciocche unte, e lasciano intravedere il bianco della pelle.
Sembra esausta, proprio come me.

«Poteva aver assunto la tua forma. Dobbiamo essere prudenti, non possiamo più permetterci errori.»
«Ma quando mai ha assunto un'altra forma? È sempre stato uno stronzissimo spilungone nero coi fari al posto degli occhi!»
Scuote la testa, come di fronte a un bambino incapace di imparare una semplicissima lezione. «Si sta evolvendo. Sta capendo come ci muoviamo, e che conoscenze abbiamo a disposizione per contrastarlo.»
Rialza gli occhi sul mio viso. Profonde occhiaie gettano ombre su un volto altrimenti giovane e bello, rotondo, ingabbiato nella montatura degli enormi occhiali.
Incrocia le braccia al petto e mi volta le spalle. «Dobbiamo essere prudenti.»

Raggiunge il centro dell'appartamento illuminato dalla luce calda e soffusa delle candele disposte a terra. I piedi nudi lasciano una scia di impronte sulla moquette azzurra solcata dalle linee dei sigilli di protezione.
Mi ricordo di essere bagnato fradicio e ho l'impulso di togliermi le scarpe per non inzaccherare ovunque.
Poi mi ricordo in che cazzo di situazione siamo.
Un sorriso di amara disperazione mi si dipinge sulle labbra. «Merda, Genny. Se usciamo vivi da questa storia, giuro che t'ammazzo.»

Siede alla scrivania, come in trance. Sulla superficie di legno sono ammonticchiati almeno una ventina di volumi dall'aria antica, il taglio delle pagine è ingiallito e gli angoli delle copertine sono sbrecciati. È il suo habitat naturale, quello: un mondo di carta e inchiostro, di informazioni e formule magiche, l'unico in cui sembri davvero felice. È solo grazie ai suoi insegnamenti se sono ancora vivo, e il frammento d'ambra che stringo in pungo me lo ricorda.
Accosto la scrivania, sbircio sigilli e pentacoli di cui non conosco il significato e addolcisco il tono della voce. «Sonia deve ancora arrivare?»
Volta la pagina, la carta antica emette un crepitio simile a quello del fuoco di un caminetto. «È di là, sentiva il bisogno di farsi un bagno caldo.»
«In questa situazione? Non ci voglio credere.»
Mi avvicino alla porta del bagno e batto un colpo sul compensato bianco. «Sonia! Sonia, muovi il cu—»

BLAM!
Il colpo secco mi coglie alla sprovvista, sussulto.
Mi guardo attorno: Genny è dritta sulla sedia, con le gambe incrociate sotto al tavolo e i palmi delle mani premuti sui braccioli, pronta a scattare in piedi. Proveniva dagli scuri chiusi della finestra.
Le fiamme delle candele tremano e rendono le ombre più lunghe e minacciose.
Ingoio, ma ho la gola secca. «Sbrighiamoci.»

Il petto di Genny si alza e abbassa in modo frenetico. Mi rivolge uno sguardo carico di paura, sistema gli occhiali sulla radice del naso e annuisce, a labbra strette.
Mi avvicino e incrocio le braccia al petto. I vestiti fradici aderiscono al mio corpo e contribuiscono a farmi rabbrividire. «Hai detto di aver trovato un modo per respingerlo nel buco di culo da cui è venuto, giusto?»
Si stringe nelle spalle. «Più che altro, per riportarlo nella sua dimensione. La scatola non era la sua dimora originale, è stato intrappolato lì da qualcun altro—
«e con il rituale lo abbiamo liberato. Ce le hai già spiegate queste cose, non mi interessano i dettagli tecnici.»
«Dovrai conoscerli, se vuoi che funzioni.»
Mi passo una mano sul volto bagnato e sospiro. «Va bene, va bene, ma ti prego, sbrigati.»

Dagli scuri oltre le tende a rullo proviene un bussare continuo, insistente, più violento ad ogni battito. Il ronzio che lo accompagna fa pensare a un migliaio di mosche che sbatte contro gli assi di legno, con la testardaggine e l'insistenza tipiche degli insetti.
Se Eugenia deve tenere una lezione, che sia rapida. E che la tenga una sola volta per tutti.
Batto il pugno contro la porta del bagno. «SONIA! MUOVITI, CAZZO!»
«Lasciala perdere, tanto non ci ha mai capito niente di magia. Stai attento tu, piuttosto.» La mia nuova maestra ruota sulla sedia, accavalla le gambe e posa le spalle allo schienale. La posa elegante e quasi regale che assume è tradita dalla fronte ancora corrucciata, dalla rigidità dei muscoli pronti a scattare alla minima avvisaglia di pericolo.
Lancia uno sguardo carico di apprensione al librone aperto sulla scrivania. «Tra tutti gli amuleti che abbiamo provato ad utilizzare contro l'Errante, l'ambra è l'unico che l'abbia rallentato. Sai dirmi il perché?»

Mi gratto la testa. Non ci capisco niente di magia naturale. «Avevi detto che è la pietra utilizzata per scacciare gli incubi.»
«Sì, ma quello non è un incubo. Lo abbiamo visto all'opera, è... piuttosto reale
Le immagini degli ultimi istanti di vita di Luca e Max mi scorrono davanti agli occhi: Luca rimane a bocca aperta, mezzo volto staccato in un morso fulmineo, carne viva e palpitante di sangue con ancora parte del globo oculare a colare lungo i fasci muscolari come albume d'uovo; Max siede per terra con le spalle al muro, le mani lorde di sangue lavorano senza sosta per recuperare brandelli del suo intestino e premerli contro lo squarcio che ha sulla pancia mentre il sangue gli invade la bocca e gorgoglia in un lamento sommesso, prima di affogarlo.
Stropiccio le palpebre con le dita bagnate. «Sì... immagino di sì.»

Eugenia continua, imperturbabile. «Hai mai sentito parlare di Ermete Trismegisto?»
Stringo forte la radice del naso tra pollice e indice. «Ti prego, ti prego, arriva al punto.»
Finge di non avermi sentito. «Ermete Trismegisto aveva intuito che, in magia, "ciò che è in alto è come ciò che è in basso". Il Macrocosmo rispecchia gli eventi del Microcosmo, ciò che avviene nella realtà non è che una proiezione di ciò che avviene nel nostro mondo interiore.»
Macro che? Perché diavolo deve sempre farla così complicata?
Il ronzio sembra aver superato gli scuri ed essere penetrato nella stanza: è come se migliaia di mosche invisibili ci volassero attorno, troppo lontane per essere acchiappate ma abbastanza fastidiose da poter essere certi della loro presenza.
Mi impongo un profondo respiro. «Vuoi dire che quel... coso è solo frutto della nostra immaginazione?»

Eugenia scrolla le spalle con stizza, come di fronte a un alunno svogliato. «Voglio dire che tutto ciò che succede è una proiezione della nostra coscienza. Diamine, hai mai visto Matrix? Il mondo esiste perché noi lo percepiamo come tale. È risaputo che esistono frequenze sonore che non udiamo, e spettri della luce che non riusciamo a vedere. Per questo i gatti, che percepiscono un range di stimoli più ampio del nostro, sono ottimi acchiappafantasmi.»
«Per amor di dio, che cazzo c'entrano adesso i gatti?»
«I gatti c'entrano sempre.» Mi rivolge un mezzo sorriso, ma tiene le mani unite in grembo, a torturarsi l'un l'altra.
La osservo a bocca aperta, incapace di credere che sia in grado di scherzare in questo momento. Gli occhi bruciano per la stanchezza e la frustrazione.

L'ilarità muore sulle sue labbra di fronte alla mia freddezza. Sospira e si sporge verso di me. «Ascolta, te la faccio il più semplice possibile. Quel coso, come lo chiami tu, proviene da una realtà sovrapposta alla nostra, che la compenetra ma che non siamo normalmente in grado di percepire. Il rituale a cui abbiamo preso parte ci ha solo dato i mezzi per percepirlo su questo piano della realtà. È come se, ad un certo punto, avessimo acquisito i sensi di un gatto nei confronti di certe creature.»
Mi scappa un sorriso. «Gran bel regalo del cazzo.»
Mi agita una mano davanti alla faccia, come per scacciare un insetto. «Stammi a sentire. Sappiamo che non si tratta di un demone, o l'agata l'avrebbe respinto. Ha funzionato solo l'ambra.»

Mi fissa con occhi spalancati e un indice premuto contro il palmo destro. Si aspetta che continui il suo ragionamento? No, perché sto brancolando nel buio e non ho la più pallida idea di dove voglia andare a parare. Devo sembrare anche un discreto idiota, in questo momento, con la bocca aperta e lo sguardo perso nel vuoto.
Per fortuna, inclina la testa e sposta l'attenzione oltre la mia spalla, come per ritrovare a mezz'aria il filo dei propri pensieri. «Questo mi ha fatto pensare. La tradizione ritiene che l'ambra scacci gli incubi perché ne condivide l'origine, per così dire: come i brutti sogni provengono dalla nostra mente, così l'ambra non è altro che resina che sgorga da alcuni alberi e che, con il tempo, si fossilizza e solidifica.»
Si volta verso la scrivania e inizia a sfogliare freneticamente le pagine del librone.
Allungo il collo: si sofferma su una facciata piena di ghirigori, riesco solo a riconoscere due stelle a cinque punte sovrapposte e un ragno dall'addome color miele.
Batte l'indice proprio sull'aracnide, come se questo confermasse la sua teoria.

Eugenia è raggiante. «Capisci? Proviene dall'interno dell'albero, è espressione del Microcosmo di un essere vivente. Come in alto così in basso, mi segui?»
«Non proprio. Insomma, abbiamo visto che l'ambra lo infastidisce, ma non lo ferma.»
Annuisce con tanto entusiasmo da far scivolare gli occhialoni sulla punta del naso. «Perché rispecchia la sua natura, ma non del tutto. Anche l'ambra, come l'Errante, è una proiezione del Microcosmo sul Macrocosmo, della realtà interiore su quella esteriore. Solo...»
Abbassa gli occhi e si morde il labbro.
Seguo il suo sguardo: non ha mai smesso di pizzicarsi la pelle con le unghie e i dorsi delle mani sono arrossati, come per tante punture di zanzara.
Qualcosa ronza vicinissimo al mio orecchio, alzo il braccio per scacciarlo.
È sempre più vicino. Lo sento nell'odore di letame dell'aria, nel nodo che mi stringe lo stomaco.

«Solo?,» la incalzo.
«Solo non è frutto dell'uomo.» Alza la testa e mi guarda di nuovo. «Matte, ci serve un'ambra umana
Aggrotto la fronte.
Rimango in silenzio ad ascoltare il suono dell'Errante che si avvicina, che trova il modo di infiltrarsi nell'ultimo luogo sicuro, che aggira le protezioni e i rituali di bando.
Ambra umana? Cerco il senso delle sue parole.
Lo trovo.

«Dov'è Sonia?» La voce mi esce in un sospiro, trema nell'aria e viene sovrastata dal brusio degli insetti, non so più dire se reali o meno.
Eugenia mi fissa, i capelli radi e unti a incorniciare un volto impassibile. «Era l'unico modo.»
Scatto in piedi e mi precipito contro la porta del bagno. Ci sbatto contro i palmi aperti, il boato si diffonde per la stanza, il legno vibra sotto alle mie dita. «SONIA!»
Armeggio con la maniglia, la giro, entro.
«Fidati di me! Perché non vuoi fidarti di me?» La voce di Eugenia si perde alle mie spalle, una cantilena che non ho più intenzione di ascoltare.

La luce gelida del neon ronza, e dà alla stanza da bagno l'aspetto spettrale degli obitori dei film americani.
Nella vasca da bagno, il volto pallido di Sonia galleggia sul filo dell'acqua.
Il braccio destro è proteso oltre il bordo e devo aguzzare la vista per trovare quello che sto cercando: una ferita che percorre l'avambraccio in tutta la sua lunghezza.
A terra non c'è una sola goccia di sangue, l'ambiente è pulito e asettico come una sala operatoria.
«Oddio... oddio Sonia.» Mi avvicino e mi inginocchio, prendo la mano protesa tra le mie.
È più fredda della pioggia che ancora mi ricopre. «Che cosa le hai fatto?»

I passi alle mie spalle sono lenti, metodici, come ogni azione mai compiuta da Eugenia. «Ho prelevato e congelato il suo sangue. Ora abbiamo gli strumenti per fermarlo, Matte... non capisci?»
Capisco solo il pezzo di ghiaccio che stringo tra le mani, la rigidità innaturale delle sue dita, il volto pallido semicoperto da capelli bagnati.
È questo il prezzo da pagare per vincere? Diventare mostri a nostra volta?
Una mosca si posa sul seno immobile e bianchissimo, ancora umido, sopra il livello dell'acqua.
Non ho più il coraggio di scacciarla.

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