29. QUESTIONE DI SORRISI

QUESTIONE DI SORRISI















Era una giornata come tante all'ospedale, ma ogni volta che lasciavo il reparto pediatrico, quel posto mi sembrava trasformato. Avevo appena concluso l'ultimo giro tra i bambini, e un velo di malinconia mi avvolgeva, morbido e insistente. Mi girai per un attimo a guardare l'ingresso del reparto, quasi che trattenere quella vista potesse alleviare il senso di vuoto che mi portavo via. Ero lì, come sempre, a raccontare barzellette assurde e a fare giochi di prestigio semplici, ma non appena vedevo i loro volti illuminarsi, i loro occhi ridere prima ancora che lo facessero le loro labbra, ogni trucco e ogni battuta, per quanto ridicola, assumevano un significato tutto nuovo.

C'erano bambini che ridevano con una risata contagiosa, una di quelle che rimbalzano lungo i corridoi come un'eco di felicità che tenta di farsi spazio tra le mura dell'ospedale, e altri che restavano in silenzio, con un sorriso appena accennato, ma intenso. E in quelle risposte mi sembrava di trovare un senso più profondo, quasi che quei piccoli pazienti avessero un tipo di magia propria, qualcosa che andava oltre le parole e i gesti. Non era facile spiegare come facessero a rendere leggero anche il peso di quel luogo, e a far sembrare ogni sforzo naturale, quasi automatico.

Ma ogni volta che uscivo, quando le risate si affievolivano e il silenzio del corridoio tornava a dominare, era come se stessi lasciando una parte di me lì dentro. Sentivo la differenza, quel passaggio tra il calore che mi davano loro e la realtà fredda che mi aspettava fuori.

Quella settimana, avevo finalmente preso la decisione di ridurre le ore al pub. Era una scelta che mi pesava, anche se sapevo che dovevo farla: gli esami erano vicini, e non potevo più permettermi di rimandare lo studio. Ogni giorno mi ripetevo che, in qualche modo, avrei trovato il tempo per tutto, ma la verità era che la vita mi scorreva tra le dita: il lavoro, la terapia del sorriso, i libri ammucchiati nella stanza e lasciati lì a prendere polvere. E così, con un senso di fallimento che mi stringeva lo stomaco, ero andato da Doc per chiedere più riposo.

Doc, che di solito era di molte parole, aveva ascoltato la mia richiesta con un'espressione seria e compassionevole, poi aveva annuito. Mi aveva concesso un giorno in più di riposo e si era mostrato comprensivo, più di quanto mi aspettassi da un capo. Aveva detto che capiva quanto fosse importante che mi preparassi per gli esami, e che aveva apprezzato davvero il mio impegno per la terapia del sorriso. «Sei un bravo ragazzo, Samuel» aveva aggiunto alla fine, prima di riprendere il lavoro in cucina. E mentre me lo diceva, provavo una strana sensazione, come se una parte di me stesse deludendo qualcuno, o forse me stesso.

Tuttavia, anche con quel giorno in più di riposo, ogni volta che lasciavo il reparto pediatrico sentivo un peso. Sapevo che in quel momento, in qualche stanza di quell'ospedale, c'era un bambino che aspettava il mio arrivo, che magari guardava l'orologio chiedendosi dove fossi. Era una sensazione difficile da spiegare, una sorta di richiamo che mi rendeva difficile staccarmi da loro, quasi come se ogni minuto che non passavo lì fosse un'occasione mancata, per me e per loro. E, alla fine, l'idea di ridurre anche solo un po' quel tempo mi dava una specie di rimorso che non riuscivo a scacciare.

Ero sempre diviso tra il senso del dovere per i miei studi e la promessa che avevo fatto a quei bambini, una promessa silenziosa che si rinnovava ogni volta che vedevo un sorriso farsi largo sul loro volto, anche solo per qualche istante. E sapevo che sarebbe stato difficile fare una scelta senza sentirmi, in qualche modo, in debito con entrambi.

Stavo per uscire dall'ospedale, preparato per affrontare il fresco della sera. Avevo infilato una giacca pesante sopra la felpa, memore di come il freddo di San Francisco sapesse farsi sentire appena calato il sole. Durante il giorno, con i suoi quindici gradi col bel tempo, la città sembrava accogliente, quasi mite; però di notte, come sempre, il clima cambiava in un istante. L'umidità che saliva dall'oceano ti entrava nelle ossa e la brezza portava con sé quell'aria pungente tipica delle giornate piovose come questa. Mi strinsi nel colletto della giacca e mi diressi verso l'uscita, pensando già al calore dell'appartamento.

Salutai la segretaria e appena mi voltai, nel corridoio di fianco notai la figura familiare di Kayla. Era seduta su una delle sedie allineate lungo la parete, appena fuori dalla stanza del primario, come se attendesse da un'eternità. Le mani, delicate e affusolate, erano poggiate sul grembo, intrecciate in un gesto che trasmetteva una tensione trattenuta nell'animo e visibile a causa del Parkinson. Aveva degli spasmi che non controllava, però talmente era assorta che non ci badava nemmeno. I suoi occhi non guardavano nulla di preciso, persi verso un punto indefinito del corridoio, come se quel silenzio freddo fosse l'unica cosa capace di comprenderla.

Mi fermai, rimanendo in disparte.

C'era qualcosa di diverso in lei che mi colpì immediatamente. La sua postura sembrava afflosciata sotto il peso di un fardello invisibile, come se ogni muscolo del corpo stesse cedendo. Le spalle, di solito così aperte e piene di quella grazia spontanea che la caratterizzava, erano ora leggermente incurvate, come se lo sforzo di mantenere la compostezza le avesse tolto ogni energia. Perfino il suo viso, illuminato da un pallore insolito, era segnato da un'espressione di stanchezza profonda, più intensa di qualsiasi affaticamento che avessi visto su di lei prima d'ora. La pelle sembrava quasi trasparente sotto la luce fredda e intorno agli occhi notai lievi ombre scure, che raccontavano le notti insonni e la preoccupazione che l'avevano accompagnata. Le iridi cupe come un mare in tempesta.

Per un istante, rimasi in bilico tra il desiderio di raggiungerla e la paura di disturbarla.

Dopodiché decisi di avvicinarmi piano, non volendo interrompere quel momento. Lei alzò lo sguardo e un sorriso accennato le comparve sul viso appena mi riconobbe. «Ehi, ciao.» dissi, cercando di mantenere il tono leggero.

«Ciao, Samuel» rispose, la sua voce un po' più bassa del solito. «Finito il turno tra i bambini, suppongo.»

Annuii, ma mi sentii quasi costretto ad aggiungere: «Sì, anche se dovrò prendermi una pausa. Gli esami sono alle porte, e il lavoro e tutto il resto... Insomma, devo concentrarmi un po' di più su quel lato.» Feci una pausa e la osservai più attentamente. Non comprendevo se mi volesse ascoltare, se fossi almeno un po' di compagnia, oppure se fosse passiva al mio saluto, come se non le importasse nulla di avere un minimo di compagnia. «Ma tu invece, cosa mi racconti? Sei qui per una visita?»

Kayla annuì piano, distogliendo lo sguardo. «Già. Solo una delle tante, ultimamente.» La sua voce si fece più debole e un po' esitante, come se non volesse darmi troppe informazioni. «La situazione... be', sta diventando un po' più complicata del previsto. I medici pensano che il problema cardiaco possa essere peggiorato, e questo, sommato al Parkinson, sta iniziando a influire su tutto il resto.»

Sentii una fitta al petto, una stretta improvvisa che mi costrinse a deglutire.

Di colpo, tutte le cose di cui mi ero lamentato così spesso – lo studio, il lavoro, gli esami – sembrarono svanire in secondo piano, riducendosi a problemi quasi insignificanti. Mi sentii uno sciocco a pensarci. Tutte quelle volte in cui mi ero lamentato con chiunque volesse ascoltarmi, tutte le notti passate a rimuginare sulle scadenze e sulle ore al pub, mi sembravano adesso il lamento di un privilegiato. Un pensiero futile di fronte a quello che stava passando Kayla.

«Mi dispiace sentirlo,» mormorai, mantenendo il tono il più sereno possibile, anche se una punta di vergogna mi pizzicava dentro. «Quindi, stai rallentando un po' anche con gli studi,» aggiunsi, consapevole che la mia voce non avrebbe potuto nascondere il dispiacere.

Ero lì, con le mie lamentele per il poco tempo libero e la fatica dello studio, mentre lei, con una calma che non sapevo come sostenesse, affrontava qualcosa che avrebbe tolto il fiato anche a chiunque altro. C'erano le sue analisi, che a quanto pare non davano segni incoraggianti, le visite continue, i risultati altalenanti, ogni progresso inseguito e perso, ogni nuova diagnosi da assorbire. E, per qualche motivo, non si lamentava mai, non faceva pesare tutto ciò agli altri, nemmeno a me.

Avrei voluto farle capire che la ammiravo, ma non riuscivo a trovare le parole giuste, né a superare quel senso d'inadeguatezza che mi faceva sentire in colpa persino a provare compassione per me stesso. Magari era per educazione, o forse per la sensazione che qualsiasi tentativo di paragonare la mia situazione alla sua sarebbe risultato ridicolo. Nulla di quello che avrei detto avrebbe potuto sfiorare, nemmeno lontanamente, il peso di tutto ciò che stava passando Kayla.

La osservai sorridere, tuttavia era intriso di un'amarezza che mi colpì più di quanto avrei voluto. «Sì, ho dovuto rallentare. I medici continuano a dirmi di prendermela con calma, di non avere fretta... solo che, ogni volta che provo a farlo, ho come la sensazione di scivolare via, di perdere qualcosa che non potrò recuperare.» Fece una pausa, abbassando lo sguardo sulle sue mani, rigide, con le dita che si tendevano quasi a fatica. Gli spasmi erano incontrollabili e immedesimarmi in questo era più che difficile. «Di solito, quando ci metti passione, anche i pensieri peggiori sembrano fare meno male. Ma adesso... anche questo non funziona. Mi dicevo che la letteratura, almeno lei, mi sarebbe rimasta vicina. Pensavo di rifugiarmi lì, nei libri... ma ultimamente non riesco nemmeno a tenerne uno in mano. Le dita mi tradiscono, come se volessero ricordarmi che anche questo mi sta scivolando via.»

Sentii un peso che mi bloccava le parole in gola. Avevo capito, in quei mesi di volontariato, che a volte parlare non serve a nulla, che le parole sono un conforto inutile davanti a certe difficoltà e malumori. Così, senza dire niente, le appoggiai una mano sulla spalla, stringendola piano, per ricordarle almeno che non era sola, anche in quel silenzio.

«Senti,» cercai di cambiare tono al discorso, «so che sembra una piccola cosa, però... be', c'è un posto in città in cui ti vorrei portare. È un angolo nascosto, niente di turistico, ma ci vado sempre quando ho bisogno di rilassarmi o di... respirare.» Sorrisi, sperando di sollevarle il morale. «Ti andrebbe una passeggiata, magari quando ti senti meglio?»

Il suo viso sembrò illuminarsi un po', e per un momento rividi la Kayla di sempre. «Mi piacerebbe, sì.» affermò con un sorriso timido. «Tuttavia dubito che ci siano ancora posti segreti in città che non ho già visto.»

Risi, sentendomi un po' meglio nel vederla più raggiante, sorridente. «Non hai idea di quanto San Francisco possa ancora sorprenderti.»

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