26. IO SONO UN GUERRIERO
IO SONO UN GUERRIERO
Il Natale era alle porte e mi resi conto che l'appartamento era completamente vuoto.
Earl e Jad erano già partiti per le loro rispettive città, e il silenzio, di solito impensabile in quel dormitorio sempre pieno di vita, ora mi avvolgeva. Era strano non avere nessuno nei corridoi, nessun passo affrettato o risata soffocata tra le pareti. Persino i rumori di fondo, il chiacchiericcio costante e le note di qualche chitarra alla finestra erano assenti. Pochi ragazzi erano rimasti, e si vociferava di una cena tra di noi, un tentativo forse un po' forzato di mantenere viva la magia del Natale. Accettai l'invito, ma solo per il giorno prima: avevo già il pranzo del 25 libero per trascorrerlo all'ospedale.
Era strano ammetterlo, ma ormai l'ospedale era diventato per me più familiare dell'università. Lì, tra quelle corsie in cui avevo imparato a muovermi quasi come fossi uno del personale, avevo scoperto un nuovo senso di scopo. Per quanto amassi l'astronomia, quella realtà così lontana e immensa, il desiderio di raggiungere le stelle, persino l'idea di camminare sulla Luna... Ecco, quei sogni erano ancora lì, ma sentivo che negli ultimi tempi avevo trovato qualcosa di altrettanto luminoso, anche se a prima vista meno ambizioso.
Le stelle mi riempivano gli occhi di sogni, di speranza; erano il mio modo di sfuggire al peso delle cose terrene. Eppure, quei bambini in ospedale, con i loro sorrisi e il coraggio che mostravano ogni giorno, riuscivano a darmi la stessa, identica forza. L'astronomia era la mia passione, un sogno che forse un giorno avrei potuto trasformare in realtà. Ma quei bambini mi ricordavano la bellezza della realtà quotidiana, della cura e della dedizione verso gli altri, cose che, in fondo, erano altrettanto meravigliose.
Quel Natale era diverso da tutti quelli passati, e il pensiero che stavo per festeggiarlo con loro mi dava un senso di appartenenza che non mi sarei mai aspettato. Non c'erano luci scintillanti né pacchi regalo ad aspettarmi, ma, per la prima volta, avvertivo il calore di un legame autentico, qualcosa che non si accendeva e spegneva con le festività ma che sarebbe rimasto.
La sera della vigilia era stata decisamente diversa dal solito: niente caos da dormitorio, niente grida e battute a gran voce per le scale. Eravamo stati solo in pochi, quelli rimasti in città, e avevamo deciso di uscire a mangiare una pizza insieme. Non era certo un pasto tipicamente natalizio, ma c'era qualcosa di speciale nell'averlo condiviso.
Ci eravamo trovati in quella pizzeria affollata e chiassosa, l'unico posto che aveva ancora spazio per un gruppo di universitari rimasti a corto di alternative natalizie. L'atmosfera era informale, e forse era proprio quello che serviva: un momento semplice, senza la solennità delle tradizioni o il peso delle formalità. Ridendo, chiacchierando, ognuno di noi si era lasciato andare ai racconti dell'anno passato, dai piccoli drammi delle lezioni agli aneddoti delle serate trascorse insieme.
Prima che i ragazzi partissero, ci eravamo scambiati i famosi regali obbligatori. A me era capitato di farlo a Zeppelin, quindi in onore al suo nome gli regalai due cd della band sua omonima, giusto per fargli fare un po' di cultura. Anche perché si era parlato di non acquistare niente di costoso: infatti, li avevo trovati in offerta; tuttavia, in un modo o nell'altro, avevano un significato speciale per ciascuno di noi.
A Travis, per esempio, era toccato il mio regalo, infatti mi ritrovai con un paio di cuffiette nuove sapendo la mia passione per la musica e che mi si erano rotte da un paio di settimane.
La parte migliore, però, era stata quando avevamo deciso di portarli con noi in pizzeria e di scartarli tutti insieme, lì al tavolo. Non potrò mai dimenticare l'espressione sorpresa – e forse un po' affranta – dei camerieri quando, alla fine della cena, avevano visto la montagna di carta da regalo che avevamo abbandonato. Pacchetti, nastri e fiocchi si erano sparpagliati sul piano come se avessimo portato un pezzetto di festa nel locale. Era il nostro modo di sentirci a casa anche fuori dalle solite mura.
Dopo aver realizzato il disastro, ci eravamo guardati con sguardi complici e, soffocando le risate, ci eravamo affrettati a pagare il conto prima che qualcuno si lamentasse davvero. Avevamo lasciato una mancia generosa, sperando che almeno servisse ad alleggerire il loro lavoro, e ci eravamo allontanati nella notte gelida, con il naso rosso dal freddo e la pancia piena di pizza e risate.
Quando gli altri avevano proposto di continuare la serata in un locale, avevo declinato. Ero stanco, sì, ma c'era anche altro. Sapevo che mi aspettava una giornata in ospedale, una giornata in cui ogni sorriso che avrei donato avrebbe avuto un peso diverso, più profondo, e volevo essere pronto, carico di quell'energia sincera che i bambini meritavano.
Ripensai a come ero cambiato da quando ero arrivato in America.
All'inizio, ogni uscita era una nuova occasione per cercare qualcosa – qualcuno, piuttosto – con cui distrarmi, passare il tempo, perdermi per qualche ora. Erano tempi in cui assecondavo le bravate di Earl, le sue storie improbabili che puntualmente finivano per strapparmi qualche risata. Ricordo ancora quella sera in cui si era vantato di aver conquistato Beyoncé - direi molto falsa dopo averla guardata meglio - e insisteva sempre a ricordarmi le "chiappe da negra", come le definiva con una risata sguaiata. E io ridevo, ridevo a crepapelle, pensando fosse tutto parte di quel "gioco" universitario.
Ma ora, col tempo, avevo capito che non ero più quella persona. Avevo iniziato a vedere le cose in modo diverso, a vivere diversamente. Il mio vero cambiamento era cominciato quando avevo conosciuto Kayla, riflessi, ma a dire il vero la maggior parte l'aveva fatto il reparto di clownterapia, mi resi conto. La vita in ospedale, quei piccoli guerrieri che mi aspettavano ogni settimana con un sorriso, mi avevano mostrato un mondo che non avevo mai visto prima. Quel mondo, dove ogni sorriso valeva come una vittoria, dove una risata era un premio da proteggere, aveva dato un senso a qualcosa che prima non sapevo di desiderare.
Non mi pentivo di nulla; anzi, ogni volta che entravo in reparto mi sentivo come se stessi finalmente scoprendo chi ero davvero. Quei momenti mi avevano dato qualcosa di molto più prezioso di qualsiasi altra cosa provata in passato. Mi sentivo libero, davvero, come se avessi lasciato alle spalle quel Samuel in cerca di distrazioni e avessi trovato una nuova versione di me stesso che, tutto sommato, non mi dispiaceva affatto.
Era un cambiamento sottile ma profondo, come se mi fossi costruito pezzo dopo pezzo senza neanche accorgermene. E mentre camminavo verso l'appartamento vuoto, già sapevo che passare il giorno di Natale con loro, in ospedale, sarebbe stato il modo perfetto per celebrare. Non era solo il Natale, ma una nuova vita, una nuova famiglia, e il calore che provavo non aveva nulla a che vedere con i doni o le decorazioni. Ero a mio agio, finalmente, e non sentivo alcun bisogno di guardarmi indietro.
*
Quando entrai nella mensa dell'ospedale, il rumore di risate e chiacchiericcio si affievolì per un istante, come se tutti avessero percepito il mio arrivo. Un attimo dopo, un gruppo di bambini si alzò di scatto dai loro posti e mi corse incontro, abbracciandomi uno dopo l'altro, riempiendomi di sorrisi e sguardi caldi, e in quel momento capii che quei piccoli gesti, quegli abbracci fragili ma sinceri, erano per me il vero senso del Natale. Era come se ogni abbraccio mi trasmettesse una piccola fiamma di calore, un'onda di affetto puro e genuino che riempiva il cuore. Quegli occhi brillanti mi ricordavano che stavo facendo qualcosa di buono, di significativo; non c'era premio migliore di quei sorrisi spontanei e di quella piccola folla che, in qualche modo, mi vedeva come una parte di sé.
Mi guardai intorno, sperando di vedere anche Kayla, e mi resi conto che una piccola parte di me contava sul suo sguardo familiare in quella giornata. Evelyn, notando la mia esitazione, si avvicinò con un sorriso gentile e mi spiegò che Kayla era stata fatta rincasare per passare il Natale in famiglia. «Non è necessario che sia qui tutto il giorno, ed era giusto farla tornare a casa,» disse con un cenno comprensivo.
Un po' sorpreso, annuii, tuttavia mi feci distrarre sin da subito dall'aria di festa.
Nella mensa tutto sembrava essere stato preparato con cura per loro: il banchetto era molto più ricco rispetto al classico menù ospedaliero. La tavola era imbandita con piatti che strizzavano l'occhio al Natale – tacchino, purè, verdure colorate, e perfino qualche piccolo dolce natalizio. Non era proprio come la cucina di casa, certo, ma i bambini lo guardavano con occhi grandi, meravigliati, quasi incantati. Li osservavo mentre assaporavano ogni boccone, come fosse un premio, come se per un attimo non fossero più lì, in ospedale, ma in un luogo caldo e accogliente, tra le loro famiglie. Mi emozionava vederli così, per una volta spensierati, a godersi una giornata speciale.
Non passava un minuto in cui non mi trovassi immerso in qualche conversazione: chi mi raccontava di una piccola vittoria della giornata, chi dei piani per l'anno nuovo o di qualche episodio divertente da condividere. Era come tornare indietro a Darwin, con i miei vicini, quando le storie scorrevano come il vino e le risate riempivano la stanza senza sosta. In quelle serate, i piatti restavano lì, mezzi pieni e ormai freddi, perché la gioia di parlare, ridere e scherzare era così intensa che il cibo diventava quasi un contorno, gustato a piccoli bocconi, un morso tra una battuta e un'altra, in un crescendo di confidenze e calore che riempiva molto più dello stomaco.
Poi arrivò il momento dei regali.
Evelyn, che aveva organizzato ogni cosa con meticolosa attenzione, iniziò a distribuire le magliette che avevamo pensato per loro. Ognuno ricevette la sua maglia, con la scritta "Io sono un guerriero" per i maschietti e "Io sono una guerriera" per le bambine. Ogni maglia era arricchita con un disegno che li raffigurava, un'immagine pensata apposta per loro, qualcosa di unico. I bambini ridevano, si guardavano l'un l'altro e si riconoscevano nelle caricature, nei dettagli che li rendevano speciali.
Mentre osservavo tutto, persi la cognizione del tempo.
Mi sembrava che quell'atmosfera fosse perfetta così, e non mi aspettavo davvero altro. Ma Evelyn mi chiamò con un cenno, e notai che i bambini mi guardavano con occhi complici. La dottoranda, trattenendo un sorriso, mi porse un pacchetto piccolo, semplice, avvolto in carta colorata. Mi sorpresi quando mi invitò ad aprirlo, che fosse per me. Ne fui grato e, quando lo aprii, trovai all'interno un piccolo portachiavi. Era fatto a mano, e sopra c'erano incise le iniziali di ciascun bambino, con un minuscolo cuore vicino a ognuna di esse. Accompagnato a esso, un bigliettino di ringraziamento firmato da ciascuno di loro.
Per quanto il portachiavi fosse un oggetto semplice, aveva una forza nel gesto che mi colpì come non mi aspettavo: sapere che erano stati proprio loro a voler organizzare quel regalo, a pensarci e a mettere insieme quelle piccole iniziali, mi lasciò senza parole.
Sentii un nodo alla gola, e cercai di nascondere la commozione che mi stava risalendo. Non era il valore del dono in sé, ma la dolcezza del gesto, l'attenzione che avevano messo nel pensare a me. Erano loro, con le loro piccole mani, le loro idee semplici ma sincere, a regalarmi qualcosa che non avrei mai dimenticato.
Non riuscii a trattenere un sorriso, e cercando di non lasciar trasparire troppo l'emozione, li ringraziai uno per uno, con uno sguardo che spero abbia trasmesso quanto significassero per me.
Era il Natale più vero che avessi mai vissuto.
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