25. HO HO HO

HO HO HO

















Era dicembre e San Francisco si era trasformata in un luogo incantato, avvolto da una magica atmosfera natalizia. Le strade erano piene di luci scintillanti che danzavano al ritmo del vento, creando un cielo di stelle artificiali che brillavano sopra le teste delle persone in festa.

Ogni angolo della città sembrava essere esploso in un caleidoscopio di decorazioni vivaci e luminose. Renne di legno dalle forme allegre erano appese a ogni finestra, con nasi rossi dipinti a mano e corna che brillavano alla luce soffusa dei lampioni. Lunghe catene di luci multicolori si intrecciavano attorno ai pali della strada, disegnando un percorso luccicante che guidava l'occhio tra un edificio e l'altro, come se tutta la città fosse un'enorme sala da ballo illuminata.

Nell'aria, il profumo dolce di biscotti alla cannella e torte appena sfornate si mescolava con quello pungente del vin brulé, creando una sinfonia olfattiva che era quasi impossibile ignorare, riportandomi all'Italia, ai banchetti natalizi e ai bicchieri caldi di vino e tè. Il profumo sembrava scivolare attraverso le vie, sospingendo chiunque a fermarsi e lasciarsi avvolgere da quell'atmosfera festosa e accogliente.

Per la prima volta, osservando le case e le vetrine dei negozi, sentivo di poter davvero apprezzare la "competizione natalizia" in tutta la sua gloria americana. I balconi erano animati da statuette di Babbo Natale, posizionate in modo che sembrassero arrampicarsi, con sacchi di regali sulle spalle e corde rosse intrecciate come se stessero scalando per consegnare i loro doni. Cornicioni e tetti erano avvolti in file e file di luci che pulsavano in un ritmo lento e rilassante, mentre porte e finestre erano impreziosite da palline di Natale colorate, come gigantesche perle che riflettevano le luci circostanti. Ghirlande rigogliose, adornate di nastri rossi e piccole pigne, pendevano con orgoglio da ogni porta, completando quella cornice di gioia contagiosa che si poteva solo respirare in pieno.

Io, Earl e Jared eravamo appena usciti da un supermercato affollato, le mani piene di borse cariche di provviste per una cena che avevamo in programma. L'uscita dal negozio era stata come un tuffo in un mondo di caos: persone che correvano, carrelli pieni di articoli natalizi, e un'enorme coda alla cassa, dove le casse risuonavano di risate e chiacchiere.

Earl, con la sua consueta energia contagiosa, si girò verso di me mentre camminavamo lungo il marciapiede decorato di luci. La sua faccia rifletteva l'eccitazione delle festività imminenti.

«Sapete, fratelli, quest'anno passerò il Natale a Chicago. Ho trovato un volo super conveniente!», dichiarò, il suo sorriso così ampio che sembrava illuminare anche il grigiore del cielo invernale.

Ridacchiammo dalla sua reazione e gli demmo corda.

«Ah, davvero?», risposi, e per un attimo cercai di nascondere un filo di invidia che si stava insinuando in me. Io con la mia famiglia festeggiavamo il Natale sempre con i Willoughby, mentre in Italia ero sempre con Laretta; a mamma non piacevano le festività, per non dire che le odiava, mia sorella invece era una musona alla ricerca di compagnie varie per Milano, feste per chi non credeva in questa festività e trascorreva spesso le vacanze in vari paesi europei. «E che programmi hai in mente?»

«Ho intenzione di portare i regali a casa dei miei e, naturalmente, di festeggiare con la mia famiglia. I miei gemelli purtroppo mi staranno appiccicati al culo, ma comunque... ho già preso per loro i biglietti per i Chicago Bulls a gennaio, magari verranno più tardi a San Francisco e me ne starò un po' in pace.» ridacchiò furbo. «E voi? Te, Samuel, torni in Italia per le feste?»

Scossi la testa, una leggera malinconia avvolse il mio cuore. «No, non credo. Vedo un po' come vanno le cose qui. Non mi dispiacerebbe non esserci per i bambini nel periodo natalizio. Vorrei star loro vicino, farli sorridere.»

Mentre parlavo, il ricordo dei volti dei bambini in ospedale tornava prepotente, e la mia determinazione a rimanere qui si faceva più forte. Non potevo lasciarli soli durante un periodo così speciale, avevano bisogno di sorrisi e ilarità.

Jared, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, si unì alla conversazione. «Io dovrò andare a Los Angeles per qualche giorno. Caleb vuole presentare la nuova fidanzata alla famiglia. Potrebbe essere interessante, ma non so come reagiranno i miei.»

«E come si chiama questa fortunata ragazza?», chiesi, alzando un sopracciglio, curioso di scoprire di più.

«È America, pensavo si fosse capito», rispose con ovvietà, con un sorriso complice che illuminava il suo viso. Evidentemente quella che ai suoi occhi poteva essere una notizia scontata, in verità sconvolse sia me che Earl.

«Fratello, parli sul serio? La bella barista tatuata sta con tuo fratello? Il Bro, ha fatto il colpo! Fagli i miei complimenti... anzi, no. Andiamo al locale e lo facciamo ubriacare così tanto da fargli credere di essere lui il barista», suggerì il chicagoan, entusiasta e con la sua solita risata a mostrare la fila di denti perfettamente bianchi.

«Ecco perché c'erano occhi da cerbiatto l'ultima volta che li abbiamo beccati assieme. Hai capito il cocorito.» intervenni facendomi abbagliare dalla lucentezza della serata.

Mentre camminavamo, i suoni della città si mescolavano con le risate e le voci degli altri, creando un sottofondo vivace. La frenesia del periodo natalizio riempiva le strade, e la magia si respirava in ogni angolo. San Francisco, con le sue strade animate e le decorazioni scintillanti, sembrava avvolgerci in un abbraccio caloroso.

«Però tu non sei di buon umore, dico bene?» domandò Jared, notando la mia espressione seria mentre ci avvicinavamo alla nostra abitazione.

«Solo pensieri...», ribattei, lasciando intendere che c'era di più, ma senza entrare nei dettagli.











*








Quel giorno il centro commerciale era gremito, immerso in un caos festoso e scintillante. Le vetrine erano un trionfo di addobbi: alberi di Natale giganteschi decorati con palline dorate e nastri rossi riempivano ogni angolo, mentre lunghe file di luci illuminavano l'ambiente con una morbida luce calda. Musiche natalizie in sottofondo e il vociare dei bambini rendevano tutto ancora più vivido. Io, Earl e Jared ci siamo mossi tra la folla, cercando di scovare i regali perfetti per le loro famiglie e gli amici del dormitorio. Ci eravamo organizzati coi ragazzi di fare ciascuno un regalo a tutti, pescando da una ciotola un nome e dover fare loro il regalo, che doveva essere tra i 10 e i 20 dollari, così da non essere pieni di aspettative particolari, ma nemmeno essere troppo tirchi o troppo generosi per evitare mali umori. Un qualcosa che non mi aveva entusiasmato, però qui in America questo sentire del Natale è coinvolgente. Anche i negozi stessi, è come se ti invogliassero ad acquistare sempre più tra uno sconto e un'offerta natalizia.

Ogni tanto qualcuno passava con un pacchetto infiocchettato, e in quei momenti mi tornava alla mente la gioia che provavo a scegliere regali simili per i miei cari negli anni passati. Mi piaceva trascorrere quelle festività con Lara; era sempre così entusiasta di preparare un dono speciale per i nonni. Si impegnava talmente tanto da farsi venire il mal di testa, ma la soddisfazione che illuminava il suo viso, quando i nonni strappavano la carta e ammiravano il suo regalo, era impagabile. I loro sguardi pieni di gratitudine e affetto rendevano tutto ancora più significativo, coinvolgendomi sempre più in quella tradizione che non era fatta solo di oggetti, ma di amore e legami profondi.

Mentre esaminavo una mensola piena di giocattoli per i cuginetti di Earl, notai Kayla. Era in compagnia presumo dei suoi genitori, una coppia dall'aria elegante ma semplice, con visi gentili e sorrisi sereni, quasi commoventi nella loro autenticità. Kayla sembrava più composta del solito, come se la loro presenza le desse un senso di tranquillità. Quando i suoi occhi incrociarono i miei, però, sembrò irrigidirsi, quasi impacciata. Le gote diventarono leggermente di porpora, nettamente in contrasto con la sua carnagione chiara. Lasciò i genitori con un breve cenno, dicendo qualcosa come «Scambio due parole con un amico, vi raggiungo subito,» prima di avvicinarsi a me con passo calmo ma deciso.

Non potei fare a meno di chiederle: «Allora, come passerai il Natale?»

Kayla abbassò lo sguardo, accennando un mezzo sorriso triste. «Dovrò stare in ospedale per altri accertamenti. I medici vogliono essere sicuri di come stanno andando le cose.»

Tentennava nel racconto, come se non ci fosse più quell'armonia di quel pomeriggio trascorso in clownterapia. Non volli incupire il mio viso e lasciai perdere queste impressioni, notando però il tremolio delle mani. Una mano oscillava dall'alto verso il basso, l'altra da sinistra verso destra. Il tremore coinvolse anche parte del corpo, ma smise cercando di concentrarsi sul movimento delle dita.

Ancora non mi aveva parlato del suo rapporto con questo morbo. Non mi aveva raccontato come si è sviluppato, da quanto tempo ci convive, men che meno quanto grave fosse; se fosse in uno stato avanzato o minimo. Se c'erano dei momenti migliori e momenti peggiori. Ero così ignorante che non avrei saputo nemmeno cosa poter chiederle.

«Anche io credo di rimanere qui,» le riferii. «Non mi sento di abbandonare i bambini, sai... ormai sono diventati quasi una seconda famiglia per me.»

Era la verità: ogni giorno passato con loro mi aveva avvicinato a quel mondo di sogni e speranze fragili, qualcosa che mi riempiva in un modo che non avevo mai immaginato. Diventavo con loro un sognatore, e mi faceva evadere dalla tristezza che invadeva il mio cuore. «Quei momenti sono diventati fondamentali... non me la sento di andarmene proprio adesso, ora che posso fare davvero la differenza.»

Kayla sorrise, per una volta senza riserve, un sorriso che non sembrava nascondere né fatica né preoccupazione. «Sai... Solitamente all'ospedale fanno un pranzo di Natale per tutti coloro che non hanno una famiglia con cui passarlo. Potresti chiedere a Evelyn di partecipare, sempre se ti va.»

«Davvero?» L'idea mi scaldava più di quanto volessi ammettere. Passare il Natale con persone che stavano vivendo quel momento speciale nonostante tutto, con una resistenza che ammiravo, mi sembrava più che perfetto. «Mi piacerebbe moltissimo, grazie dell'idea.»

Kayla annuì lentamente, il suo sorriso ancora presente, anche se ora si era trasformato in qualcosa di più delicato, quasi fragile. La sua determinazione a tenere duro, a non permettere alla malattia di rubarle anche le festività, mi faceva sentire più vicino a lei di quanto fossi stato fino a quel momento. In quell'istante, ci scambiammo uno sguardo di complicità: due persone, entrambe con i propri pesi, ma decise a non lasciarsi sopraffare.

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