24. GUARDA IL CIELO E RESPIRA
GUARDA IL CIELO E RESPIRA
Stavamo uscendo dall'ospedale e non avevo il coraggio di lasciarla andare. Era troppo presto per salutarla. e vederla chissà quando. Non avevo il suo numero di telefono e provavo una certa vergogna nel chiederglielo, anche se forse ci eravamo presi un po' più di confidenza.
La studiai mentre si sistemava la sciarpa, il vento era freddo e il sole era già tramontato. Le luci della città illuminavano le strade, quasi da farle sembrare ancora giorno in qualche modo grazie al movimento cittadino.
«Ti va di andare a bere qualcosa insieme?» trovai il coraggio di proporle.
Mi aspettavo un rifiuto, o magari una scusa accennata, ma Kayla alzò lo sguardo verso di me, gli occhi chiari che riflettevano la luce fioca del lampione appena fuori dall'ospedale, e sorrise appena. «Un tè caldo,» mi riferì, quasi parlando a sé stessa, come se la prospettiva fosse di un qualche conforto per lei.
Non osai fare domande, annuii soltanto e ci incamminammo fuori insieme.
Il vento fresco ci accarezzava il viso mentre camminavamo lungo il marciapiede, le macchine al nostro fianco scorrevano indisturbate nel traffico. Cercavo qualcosa da dire, qualcosa che non suonasse né troppo frivolo né troppo invadente, ma sembrava che le parole mi sfuggissero.
Fu Kayla, per una volta, a rompere il silenzio.
«Sai... non è facile... convivere con qualcosa che sai ti accompagnerà per sempre.» La sua voce era un filo sottile, quasi sopraffatta dalla distanza. «Parlo del Parkinson... è come se all'inizio sembrasse un fastidio, una cosa che ti dà qualche scossa, ti fa tremare. Ma poi, giorno dopo giorno, inizi a renderti conto che... non è una fase, è la mia vita adesso.»
Sentii una stretta al petto, e mentre camminavamo fianco a fianco mi resi conto di quanto ci fosse ancora di non detto. «Deve essere... un brutto peso,» mormorai, cercando di non far trapelare tutta la mia emozione.
Lei annuì. «Lo è. Ti ritrovi a guardare il tuo futuro come un paesaggio che conosci bene, ma con i colori cambiati. Tutto sembra uguale, ma c'è un velo grigio, una specie di... soffocamento. Accompagnato dal tremolio.»
Arrivammo davanti a un piccolo locale e ci accomodammo in un angolo tranquillo, dove ordinammo il nostro tè. È la prima volta che esco con una ragazza per prendere del tè, quasi la situazione mi metteva soggezione.
Avevo mille domande per la testa, ma non sapevo se sarei risultato di troppo. Ormai con lei era così. Non capivo il nostro rapporto, tuttavia adesso mi importava soltanto che ero riuscito ad avvicinarmela un po' di più. Una piccola confidenza alla volta forse mi permetteva di scalfire quella corazza impenetrabile.
Mentre aspettavamo, notai quanto eravamo inversi: mentre io mi sentivo leggermente agitato, lei al contrario sembrava più rilassata, quasi come se quel parlare in modo tanto aperto le stesse togliendo un peso, anche solo momentaneamente. Non parlammo durante l'attesa, come se fosse soltanto il tè il motore della conversazione. Ci limitammo a guardarci attorno, a studiare i decori della sala. Uno del personale stava iniziando ad attaccare qualche addobbo natalizio, facendomi percepire ancora più freddo.
Il cameriere giunse al tavolo per servirci le nostre tazze. Ringraziò con una delicatezza disarmante, poi guardò la tazza: era troppo piena. Imbronciò il muso e mi fece ridacchiare con tenerezza.
Portai alle labbra la mia acqua calda, senza nemmeno mettere la bustina con del miele. Mi scottai la lingua, ma non mi importò, dovevo farlo per lei.
Arrivai a un livello che ritenni consono e feci lo scambio. «Così magari sei più tranquilla.»
Mi aveva osservato tutto il tempo e un filo di rossore dipinse le sue gote. «G-grazie.»
Si preparò il suo tè e mentre aspettavamo, si portò le mani intorno al bicchiere, come per scaldarsele.
«Ho provato a non pensarci,» continuò, guardando fisso il liquido caldo. «Ma come si fa? Come si fa a vivere senza pensare al fatto che, ogni singolo giorno, una parte di me viene portata via da una malattia? Perché è così... non avrò più una mia indipendenza. Dovrò essere sempre accompagnata da qualcuno che possa spiegare questo tremolio.»
La mano cominciò a tremarle e staccò le mani dalla tazza. «Non riesco neanche a bere.» pronunciò scocciata.
La sua onestà, cruda e senza filtri, mi colpì. Volevo dire qualcosa che le desse conforto, ma tutto sembrava troppo banale o inadeguato. Così alzai il braccio per chiamare l'attenzione di qualcuno e quando una cameriera si avvicinò, le chiesi gentilmente una cannuccia. Non impiegò molto a portarla e me la posò sopra a un fazzoletto di stoffa. Raccolsi con le dita l'imbuto di plastica e glielo misi nel bicchiere. «Così riesci a essere autonoma, giusto?»
Non seppe cosa dire, così tentai di metterla a suo agio: mi limitai a condividere un frammento della mia infanzia, sperando che un pezzetto della mia vita potesse mostrarle che, per quanto diverse, anche le nostre storie avevano qualche punto in comune.
«Sai... quando ero bambino, vivevo in Australia,» iniziai. Kayla alzò lo sguardo dal liquido e mi osservò, interessata. «Avevo un amico, Xavier, che abitava proprio davanti a me, era la casa che vedevo tutti giorni appena mettevo un piede fuori casa. Eravamo inseparabili... lui, io e la sua sorellina Scarlett. Lei ci seguiva dappertutto, anche se noi cercavamo di mandarla via, a volte. In verità era più suo fratello, a me piaceva averla attorno. Ma aveva sempre questo sorriso, sai? Quella luce... come se nulla al mondo potesse farle del male, ma al contempo cercavi di proteggere.»
Mi accorsi che stavo sorridendo al ricordo e Kayla, forse per la prima volta da quando ci conoscevamo, sorrise di rimando, quasi con nostalgia.
«Scarlett...» ripresi, con un sospiro. «Lei era piccola, ma più coraggiosa di tutti. Una volta ci arrampicammo su questo albero gigantesco... e mentre Xavier e io urlavamo di paura, lei era lì, in cima, senza timore. Ci disse solo di guardare il cielo e respirare... come se fosse la cosa più facile del mondo.»
Kayla abbassò lo sguardo sulla sua tazza, un sorriso delicato che si allargava lentamente sul suo viso. «Sai, forse c'è qualcosa di vero in questo. Forse basta un respiro profondo... un passo alla volta, no?»
«Esatto,» dissi, senza togliere gli occhi da lei. «Non significa che non avrai paura. Ma magari, ogni tanto, riuscirai a vedere oltre.»
Kayla prese un sorso di tè, e per un attimo vidi qualcosa di diverso in lei, una vulnerabilità che mi fece sentire come se stessi vedendo un'altra versione di quella ragazza tanto forte quanto fragile. Fu lei a infrangere il silenzio.
«Forse,» disse piano, «non tutto è perso... forse ci sono ancora cose che posso fare, cose che mi faranno sorridere come quei bambini oggi.» La sua voce era così sincera, così aperta, che sentii di avere davanti non solo Kayla, ma la sua anima nuda, con tutte le sue paure e sogni.
Rimanemmo lì a chiacchierare ancora a lungo, parlando di cose semplici e profonde, scambiando pezzi di noi stessi. E mentre la sera diventava sempre più profonda, pensai che forse, in quel momento, stava iniziando davvero a fidarsi.
E io a innamorarmi.
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