17. PERDERSI NELLE FANTASIE
PERDERSI NELLE FANTASIE
Finite le lezioni, con alcuni ragazzi mi avviai da Starbucks dato che ci tenevano, ma io feci la fila per nulla. Perché? Beh, avevo capito il motivo per cui in Australia avevano chiuso due terzi dei locali anni prima. La nostra cultura del caffè era stata importata dall'Italia e dalla Grecia durante il periodo dell'immigrazione e per di più questo tipo di locale aveva un menù di bevande zuccherate che per la maggiore agli australiani non piaceva. In poche parole, il caffè vero l'avevo bevuto così tante volte in Italia, che non mi pentivo di essermi portato dietro la moka a insaputa di mamma.
Ad ogni modo, dopo averlo assaggiato e fatto un'espressione stranita seguita da tante altre schifate, pensai a cosa farne. O aspettavo di darlo a qualcuno, o dovevo buttarlo via. Ma nello shop? Sarebbe da stronzi patentati, ma mi arresi ed ero sull'atto di cestinarlo, quando per puro caso incrociai lo sguardo di Kayla.
Appena mi riconobbe, mi fece un saluto con la mano e con la mia spavalderia mi avvicinai sedendomi davanti a lei, notando che con sé aveva un libro. «Ti piace ficcare il naso tra le reliquie?»
Mise il segnalibro e, chiudendo la copertina, riconobbi il titolo. «Qualche problema nel leggere?»
Indicai l'oggetto tra le sue esili dita e mi sistema meglio sul posto a sedere. «Romeo e Giulietta? Ti piace Shakespeare?»
Alla mia domanda si morse le labbra, scrutando una nota di piacere nei suoi occhi. «Sarà una cosa classica e scontata, ma lo adoro.»
Ridacchiai mostrando sicuramente le mie intramontabili fossette. «Credo di conoscere poca gente che trova confortante leggere opere di persone morte nei Seicento.»
Mise in scena una faccia buffa come per riflettere che non avevo tutti i torti. Trovai quasi carino il modo in cui le pieghe del suo viso cangiavano in continuazione, trasmettendo i suoi pensieri anche esternamente. Però, nonostante questo, lei pareva tutt'altro che un libro aperto, come se dietro ai suoi occhi ci fosse tutto un mondo da scoprire ed era quel dettaglio di lei che mi intrigava.
«Vieni spesso qui?» domandai ulteriormente non sapendo su dove altro parare per poter avere una conversazione con la ragazza dalle iridi magnetiche.
Arricciò il naso finendo di bere un sorso della sua bevanda, che dall'odore caldo non poteva essere altro che caffè caramellato. Certe cose non le capirò mai nella vita. «Ogni tanto. Tu?»
Corrugai la fronte e spostai lontano il mio bicchiere, schifandolo altamente. «Prima ed ultima volta, non riesco a inghiottire tale sapore blasfemo, non è caffè.»
Mi guardò con un punto interrogativo sulla fronte come per non comprendermi del tutto. «Scusa la mia sfacciataggine, ma voi australiani non siete famosi per i prodotti biologici.»
Misi in scena un'espressione addolorata, posando una mano sul cuore e simulando un sussulto. «Colpito e affondato.» e con questo la feci ridere, perdendomi pochi secondi nella sua ilarità. «Ho una cultura italiana alle spalle, credo che di cibo me ne intenda più di un americano o di qualsiasi altra nazionalità esistente sul pianeta.»
«Questo però non vale, è imbrogliare.» mi puntò con un dito con fare scherzoso.
Risi a tale accusa, totalmente fuori binario. «Non è imbrogliare, questa è la conseguenza dell'immigrazione. Sono un extra-comunitario!»
«Allora io dovrei bere il the delle cinque.» constatò guardandomi con quei suoi occhioni grigi. Mi catapultai in essi avendoli puntati dritti nei miei oceanici e constatai che quel giorno erano un po' più chiari dell'ultima volta che ci eravamo incontrati.
Alla sua osservazione mostrai ancora le mie fossette e annuii. «Se proprio ci tieni alle tue lontane origini inglesi, dovresti invece di bere cose da va de retro, Satana.»
«E tu cosa fai al riguardo? Sembri uno che va fiero delle sue.»
«Jackpot. Io ho una caffettiera con me.» mi vanto e la vedo sforzarsi di non irrompere con una risata.
«E dall'Australia?»
«Vegemite.» affermai ancora, tirando successivamente le labbra in una linea compiaciuta.
Aggrottò la fronte facendo esaltare la sua espressione confusa al nome che ho appena pronunciato. «E che roba è?»
Mi addoperai a ad estrarre il cellulare dalla tasca, fare una ricerca su Google e mostrarle una foto. «È una crema salata spalmabile marron scuro che mettiamo su toast o sandwich per colazione o merenda. Ogni tanto anche nelle minestre la si mette. Ha un gusto estremamente particolare, o lo ami o lo odi. Si utilizza più o meno come il burro di arachidi americano o lo sciroppo d'acero canadese.»
«Non è Marmite?» domandò indicando il telefono.
Lo riportai in tasca spegnendo il display e piegai il capo. «Quello è britannico, comunque è da lì che deriva. Poi i miei avi lo hanno modificato.»
«È buono?»
«Per me sì, ma l'ho fatto assaggiare una volta a mia cugina e stava per morire.» ridacchiai al ricordo della faccia di Laretta, un vero e proprio spasso. «Quindi te lo sconsiglio se non vuoi accidentalmente essere intossicata.»
Mi mostrò i palmi come per arrendersi, sorridendo a trentadue denti. «Ti credo sulla parola.»
Le sorrisi di ricambio rovistando nella mia mente per poter avere qualcosa da dirle. Erano settimane che non la vedevo e di certo non mi sarebbe dispiaciuto incontrarla più spesso, quindi dovevo inventarmi una strategia per attaccare bottone. «Toglimi una curiosità, Kayla...»
«Dimmi tutto.»
«Ti andrebbe di vederci senza svenirmi come l'altra volta? Anche se devo ammettere che è stato teatrale.»
Ridacchiò spostando per qualche secondo lo sguardo da me, ma appena riportò le sue pupille sulle mie, qualcosa dentro di me cominciava a muoversi, e non stavo parlando dell'amico là sotto anche se la ragazza aveva la sua bella presenza, nulla da dire. «Beh, devo anche sdebitarmi per non avermi lasciata sbattere la testa contro al suolo.» mi fece notare e mi sentii come averla in pugno.
«Giusto, prendiamola come scusa.»
«Il caffè a quanto ho capito non posso offrirtelo.» ci scherzò sopra indicando il mio avanzo.
Mi trattenni dal ridere dato che sicuramente già mi aveva preso per un pagliaccio, quindi era meglio non peggiorare la mia nomina. «Beh, a dir la verità c'è Gloria Jean's che non è male, sperando che anche qua facciano dell'espresso.»
Appoggiò il mento sulla mano e i gomiti saldi sul legno chiaro del tavolino, guardandomi fisso nelle iridi con un lieve sorriso sulla bocca e un sopracciglio issato verso l'alto. «Andiamo, Sammy. Credi che me la beva?»
Storsi il naso nel sentire quel soprannome e per non darci troppo peso aggrottai la fronte non capendo cosa intendesse dirmi. «Vuoi spiegarti meglio?»
«Tutta questa messa in scena. Conosco quello sguardo e di sicuro tu non vuoi andare solo a bere un caffè in mia compagnia perché ti sto simpatica.»
Rizzai la schiena e cominciai a credere che questa donna era più perspicace di quanto presupponevo. «E come ti starei guardando?» indagai, mostrandole il mio sguardo da sfida che aveva sempre fatto scivolare le ragazze ai miei piedi.
«Come uno che non va a letto con una ragazza da qualche giorno e spera di aver trovato la compagna giusta di avventura.»
Sembrava sicura delle sue parole, tanto d'avere un sorrisetto vittorioso sulle labbra sottili. Il modo in cui ragionava mi intrigava parecchio, soprattutto perché riusciva a tenermi testa come poche e al pensiero mi morsi l'interno della guancia, per poi dedicarle un sorriso tirato scuotendo il capo. Non potevo dargliela vinta, quindi girai la frittata a mio favore. «Io direi settimana più che giorno.»
«Ah, ma davvero?» disse con falsa sorpresa, assottigliando le palpebre e annuii deciso per confermare.
«Comunque non è detto che voglia uscire con te solo perché hai una cosa che potrebbe gradirmi.» feci una leggera allusione in modo da non metterla in imbarazzo, anche se qualcosa mi diceva che non lo avrei fatto comunque. Era troppo sveglia e perspicace per farsi inculare.
«Oh, ti piacerebbe sicuramente, basta guardarti.» assottigliò ancora le palpebre in uno sguardo felino, come se stesse leggendo nella mia mente i miei file archiviati. Quello sguardo che a momenti mi poteva svegliare l'amico ai piani inferiori, il che non era un bene essendo in un luogo pubblico.
Non resistetti dal mordermi un labbro, reputando che questa chiacchierata mi avrebbe mandato in un vicolo cieco. Non sapevo nemmeno come recuperare, la palla era andata fin troppe volte fuori campo con lei e non accettavo il fatto di aver giocato in questa maniera la mia partita. Forse avevo perso già in partenza.
«Comunque non credere che con quella bella faccia io sia così disponibile, non sarò la figlia del prete, ma so badare a me stessa e stare attenta agli sconosciuti.»
Corrugai la fronte non capendo dove voleva andare a parare e la vidi alzarsi in piedi, prendere il libro e frugare nella borsa dopo aver depositato il precedente al suo interno. «Che vorresti dire?» chiesi, anche se una mezza idea mi balenò per la mente, facendomi detonare il cuore nel petto.
Tirò fuori una penna, prese il tovagliolo pulito che aveva lasciato sul tavolino e, scrivendoci qualcosa sopra, me lo porse. «Quando hai voglia, posso farti un ripasso di buone maniere alla Shakespeare.» e con questo se ne uscì dal locale senza voler sentire una mia risposta.
Rimasi confuso per qualche minuto, poi calai il mio sguardo sull'inchiostro nero che decorava la carta bianca e constatai che quello che avevo tra le mani aveva tutta l'aria di essere il suo numero di telefono. Quindi la palla era andata più o meno in buca, anche se l'idea di buone maniere alla Shakespeare non mi gradiva.
*
Mentre tornavo verso il mio dormitorio non facevo altro che pensarci e ripensarci, tutto questo era così insolito che mi sentivo in un film stupido per ragazzine sognatrici. Prima mi passava per donnaiolo che soffriva di astinenza e poi mi porgeva il suo numero di telefono per motivi strani, quasi ignoti. Forse quella ragazza non la capirò mai e dovevo solo arrendermi.
D'un tratto, mentre camminavo, un soffio di vento mi fece volare via dalle mani il fazzoletto, e imprecai talmente tanto che sarei dovuto andare in chiesa a confessarmi. Per mia fortuna non avevo preso la male abitudine di bestemmiare.
Il foglietto per un pelo riuscii a prenderlo, solo che ero entrato in un locale in cui tutti, staff e pochi clienti compresi, si voltarono verso di me leggermente incuriositi.
Imbarazzato mi guardai attorno e notai sulla porta a vetri la scritta "cercasi personale" sopra al cartello aperto, per successivamente leggere una frase con una dimensione più ridotta "non normale", andando in confusione.
Ma dove stracazzo ero capitato?
Ancora tutti tenevano saldi i punti interrogativi sulle loro teste, ma ricomponendomi issai un angolo della bocca verso l'alto. «Salve, ehm...» col pollice indicai il vetro non sapendo quali altre scuse accampare, «cercate ancora personale?»
Una bella ragazza alta e mora con gli occhi color cioccolato al latte e con indosso una maglietta verde acqua scollata al punto giusto, mi scannerizzò da testa a piedi appoggiandosi al bancone. «Sì, per tua fortuna.» si voltò verso quello che doveva essere il magazzino dato che dietro di lei c'erano i fornelli per cucinare. «Doc! Ti cercano!»
«Non mi dire che Jenkins ne ha combinata un'altra delle sue.» commentò scocciato sbucando dall'angolo.
Io che mi ero distratto nel notare il piccolo posto in cui ero capitato, lo fissai incredulo dato che sembrava la fotocopia sputata di Steven Tyler.
«È qua per un impiego.» gli fece presente la ragazza tornando a guardarmi con un certo interesse.
Sì, so di essere affascinante.
Con quel sorrisone aperto mi fece cenno di avvicinarmi mentre affiancò la sua dipendente. «Certamente! Dimmi in tuo nome che preparo le carte.» e con ciò, cominciò a frugare sotto al banco tirando fuori un faldone.
Aggrottai la fronte credendo di dover fare un colloquio, non un'assunzione sul momento, però rimasi zitto. Già ero lì per errore, figuriamoci si intervenivo.
«Doc, non puoi assumere gente a caso e comunque non gli hai fatto nemmeno una domanda.» ed ecco che qualcuno aveva la bocca più larga della mia, chiedendomi se le recasse qualche problema il volermi assumere, tutte quelle occhiate d'ispezione ed era questo il ringraziamento per la mia bellezza? Ero sicuramente meglio di tutti i ragazzi che aveva avuto.
Come sempre modestia a parte.
«Okay, il tuo nome?» mi guardò dritto negli occhi con un'espressione da ebete senza nemmeno badare alle parole pronunciate dalla mora.
«Samuel Sampson.» confermai.
«Elvis Presley è vivo o morto?» continuò l'interrogatorio e se andava avanti di questo passo, sarei stato nel team in un battito di ciglia. Era il mio campo, senza ombra di dubbio.
«Morto ovviamente, dal '77.» risposi con la più assoluta certezza.
«Club 27.» continuò.
Questo doveva essere uno scherzo, non c'era anima sulla Terra che non sapesse tale informazione. «Termine giornalistico che si riferisce ad alcuni artisti, per la maggiore cantanti rock, che sono morti all'età di ventisette anni. Kurt Cobain, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Amy Winehouse, Brian Jones, devo continuare?»
Fare lo spavaldo era di mia competenza, nulla da farci.
Il così detto Doc mi indicò con la mano voltandosi verso la sua dipendente che, come risposta, roteò gli occhi scuotendo di poco la capoccia.
«Samuel, sei assunto.» e con questa affermazione mi lanciò un grembiule che ad essere onesto non sapevo spiegare da dove lo avesse tirato fuori.
La ragazza si avvicinò a me e mi allungò la mano per cortesia, disegnando un sorriso contento sulle sue labbra. «Benvenuto al Rhode Island's Doc Km.0, io sono Rhea Allen.»
Ricambiai con una stretta non troppo salda e feci un cenno del capo. «Bel nome, non l'ho mai sentito.»
Sorrise quasi maliziosamente, per poi tornare al suo posto con una certa andatura che ti faceva incollare le pupille al suo sedere che ancheggiava armoniosamente. «Era il nome della madre dei tre assi greci, Zeus, Poseidone e Ade.» mi illustrò con una nota di ovvietà, prendendo un panno e pulendo il bancone.
Annuii e subito dopo percepii dei passi dietro di me. «Salve bella gente, come va la pacchia?»
«A me bene, tu invece credo che hai preso una bella scossa.» ribattè Rhea e voltandomi, capii il motivo.
Il ragazzo aveva tutta l'aria di essere un punk, cresta blu, un piercing sul sopracciglio destro e un orecchino metallizzato da una parte e un secondo dall'altra. Mi squadrò per bene con un'aria superiore e mi indicò come se fossi un oggetto. «È un altro intraprendente che ti fa la corte? È meglio dell'ultimo.»
Gli schioccò un'occhiataccia, ma risposi al posto suo. «Se tu sei Jenkins, allora da oggi sarò il tuo nuovo collega.»
Mi osservò leggermente stranito facendomi un cenno militare, per poi distogliere lo sguardo. «Doc, non mi serviva un assistente.»
Aggrottai la fronte seguendolo con lo sguardo andare alla sua postazione, ovvero ai fornelli, indossando il suo grembiule.
Rhea mi fece un cenno con la mano per farmi avvicinare e, una volta raggiunta, ci mettemmo d'accordo per i turni dato che avevo di mezzo l'università.
«Solitamente non abbiamo molti clienti, quindi puoi venire tranquillamente venerdì quando finisci le lezioni alle tre p.m. fino alle sei p.m. e nel weekend stesso orario, se riesci anche per le undici a.m. saresti un angelo. Ci saranno settimane in cui ci sarà bisogno che tu venga anche durante la settimana, ma ti avviseremo. Qua Doc paga ad ore.» mi spiegò portandosi una ciocca dietro all'orecchio.
Annuii e le sorrisi. «Cercherò di accontentarvi.»
«Che ne dici di fare una prova oggi?» mi propose il proprietario, facendomi girare nella sua direzione. «Così vedi un po' come lavoriamo qua.»
«Volentieri.» accettai la proposta e con gli altri mi diedi da fare.
La ragazza stava dietro al telefono e al pc per le ordinazioni, non prima di avermi dato il plico di fogli per prendere gli ordini. Ogni tanto mi fermavo a dare un'occhiata a come lavorava il punk, ritrovandomi ad imparare a fare dei piatti semplici. Insomma, qui ognuno faceva quello che poteva e come poteva, in mezzo alla tranquillità e ai clienti probabilmente abituali dato che si perdevano in chiacchiere con tutti.
Alle diciotto finii il mio turno, appoggiai il grembiule sul banco e controllai il cellulare. C'erano alcune chiamate da parte di Earl e alla vista credetti per un momento di aver a che fare con una fidanzata. Un mezzo sbuffo uscì dalle mie labbra e riportai il telefono in tasca.
«Bene, io vado allora.» comunicai prendendo la mia tracolla e portandola in spalla.
«A domani.» mi salutò Rhea pulendo l'ultimo tavolo.
«Prossima volta proverai una delle mie specialità.» mi puntò una spatola contro Jenkins e sorrisi spontaneamente.
«Non vedo l'ora, Capitano.» e gli feci il saluto militare che non tardò a ricambiare.
Sgusciai fuori dal locale porgendo gli ultimi saluti e mi avviai al dormitorio con la musica alle orecchie. I Paramore e le strade affollate di Berkeley riempirono quel tragitto rendendolo meno noioso, ma a distrarmi fu il pensiero di aver quel numero scritto su un tovagliolo. In parte non volevo credere che fosse veramente suo, era stato fin troppo facile ottenerlo. Non era che forse c'era qualcosa sotto?
Appena arrivai in stanza mi imbattei in un Earl preoccupato e rimasi stupito dalla cosa. «Dove sei stato?»
Chiusi l'ingresso credendo di aver superato la fase "dai le spiegazioni ai genitori". «Scusa, mamma. Prossima volta ti chiamo appena trovo lavoro.»
«Hai trovato un impiego?» domandò, dimenticandosi del motivo per cui stava in pensiero.
Annuii cercando di non sorridere troppo al ricordo. «Strano, ma vero.»
Mi diressi in camera mia e appoggiai il borsone sulla scrivania, estrapolando dalla tasca esterna il foglietto.
«E quello cos'è?» si incuriosì nel vedermelo.
Roteai gli occhi e lo spinsi fuori dalla porta, scocciato di averlo sempre tra i piedi. «Il numero della cassaforte che andrò a rapinare. Cosa dovrebbe essere secondo te?»
In quel momento venne fuori l'Eddie Murphy che c'era in lui. «Una ragazza,» indovinò al volo, «Sampson fa faville. E dimmi, come si chiama?»
Mi fermai alla soglia osservando la sua espressione che moriva dalla voglia di saperne di più e qualcosa mi diceva che la vedrò spesso. «È di una certa Kayla, adesso vorrei accertarmi che sia il suo numero e non una presa per il culo.»
Mostrandomi i palmi e cambiando direzione, capii che mi avrebbe lasciato in pace e gliene fui grato. Mi buttai sul letto prendendo in mano lo smartphone e componendo le cifre, feci partire la chiamata. Non attesi molto prima di sentire una voce e sorrisi nel constatare che era effettivamente lei. «Pronto?»
«Felice che sia tu a rispondere.» dissi ampliando il sorriso e appoggiando il tovagliolo sulla scrivania.
Me la immaginai mordersi le labbra dato che ci impiegò qualche secondo prima di riaprire bocca. «Scusa, con chi sto parlando?»
D'un tratti divenni serioso, ritrovandomi a non comprendere. Non mi aveva riconosciuto o era davvero un'altra persona? «Sono Samuel, mi hai dato il tuo numero.»
«Samuel Davis?» domandò, ignara di chi fossi.
Un bel face palm non me po tolse nessuno. «Mi sa che mi hanno dato il numero sbagliato.»
Non ci potevo credere, mi aveva fornito il numero di un'altra persona, che più o meno a sentire aveva la sua stessa voce... oppure ero rintronato io?
«Mi sa anche a me.»
Rimanemmo in silenzio per qualche secondo, ed io ero sprofondato così tanto dalla vergogna che ruppe lei il ghiaccio. «Un mi dispiace del disturbo non era difficile da dire, che maleduc-» interruppe così la telefonata, diventando io il cafone e non Kayla.
Se questo era normale...
Mi passai le dita fra i capelli quasi volendoli strappare, in qualche modo mi ritrovavo a punto e a capo con lei. Ma non potevo lamentarmi, alla fine sembrava più un invito a giocare.
Posai il cellulare sulla scrivania e non so per quale motivo mi soffermai a pensare all'Australia, ai miei vicini. Chiudendo gli occhi, potevo riconoscere quelle iridi color cioccolato. Chissà quando avrei avuto il coraggio di parlare con Scarlett, magari anche con lei non avrei smesso di chiacchierare, rimanendo sveglio tutta la notte per sentirle ancora raccontarmi qualcosa che riguardava il suo mondo pieno di sfumature. Forse avrei avuto quei tentennamenti nello staccare la telefonata per deliziarmi ancora della sua voce. Da piccolo era come se non ne fossi mai sazio, appena apriva bocca le mie orecchie non riuscivano a stufarsi di sentirla parlare. Tutto quello che diceva a me risultava interessante anche se era una sciocchezza, cosa che non era per suo fratello.
Mi mancava quella ragazzina tutto pepe che mi cercava e chiamava, e io stupido che ancora mi trattenevo dal sentirla.
Perché continuavo a ripensare a loro senza motivo?
Aussie,
Non ho potuto metterlo durante la lettura, quindi ne approfitto per informarvi qua!
Ho inserito all'inizio, se vi ricordate, un accenno su Starbucks in Australia. Quello che ho scritto non l'ho inventato e ho il video per chi è interessato a sapere qualche dato in più al riguardo. ✨ L'ho trovato per caso e diciamo che ho voluto dare un tocco australiano al capitolo ihihihih. Parla anche di Gloria Jean's e avviso che è in inglese il video!
[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]
Have a nice day
Niki_Rose
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