13. GEMELLO NERO COME COINQUILINO
GEMELLO NERO COME COINQUILINO
«Mamma, ho detto che parto e non intendo cambiare idea.» le urlai contro mentre chiudevo la valigia che usai anche quando ero partito dall'Australia. La odiavo, ma solo con quella potevo portarmi dietro tutto ciò che mi sarebbe servito una volta in America.
Caitlin faceva avanti e indietro dalla mia camera al corridoio, nervosa e arrabbiata a causa mia. Io glielo avevo detto, ma era colpa sua se aveva preso il tutto come se fosse uno scherzo. «Samuel Sampson, come credi di andare in America senza soldi?»
Roteai gli occhi, consapevole di averglielo già spiegato. Probabilmente in quella tarda mattina era ancora in fase di rielaborazione della serata trascorsa in compagnia. «Te l'ho già detto, ho lavorato quest'anno, e per tua informazione ho lavorato anche gli anni precedenti e mi sono fatto da solo un conto corrente, quindi so gestire il tutto. E se poi trovo un lavoretto anche in America tanto meglio.»
«E l'università chi te la pagherà? E il dormitorio? Sappi che io non ci metterò nemmeno un dollaro australiano.»
Sospirai. Le minacce che pronunciava con una nota di superiorità mi scivolavano di dosso, galleggiavano sull'acqua come olio. «Ti ho già detto anche questo. In caso di necessità ci saranno gli zii ad aiutarmi. Ma guarda un po', sono tutti più simpatici di te, mamma. Wow, non credevo che ci volesse così poco.» celiai.
La decisione di andarmene l'avevo presa da tempo, proprio da quando mamma aveva iniziato ad essere così. Quando c'era papà lei era felice e non era scontrosa. Mi portava sempre all'osservatorio, mi comprava il gelato e le raccontavo tutta la mia giornata passata con Xavier e Scarlett. Era la mia confidente dopo il mio migliore amico, andavamo molto d'accordo ed era sempre gentile e sorridente. Dopo il divorzio però era mutata gradualmente, rendendola la donna che ora era dietro di me mentre finivo gli ultimi preparativi: menefreghista e fredda. Non avrei mai potuto dire che sarebbe diventata così e non immaginavo che un divorzio creasse così tanti problemi. Sicuramente, se mai in un futuro anteriore capiterà di avere una mia famiglia, impedirò ai miei figli di passare dei momenti del genere. Trasferirsi e viaggiare era bello, ma in questa maniera ti faceva soltanto odiare la tua vita. Trascinavi, in una rete per giochi da spiaggia, cocci che si limavano e uscivano dai fori, stabilizzandosi sul cammino appena percorso. Passato del tempo, ti senti come se una parte di te non ci fosse più, come se l'avessi perduta.
Lei sbuffò come avrebbe fatto un toro, il che mi fece ridacchiare. Le mancava proprio un piercing al naso. «E chi ti accompagnerebbe? Sentiamo.» aggiunse ulteriormente con le braccia conserte, sembrando costantemente alla ricerca della sua ragione, cosa che non avrebbe trovato.
Mi portai lo zaino in spalla e trascinai la valigia fin davanti a lei. «Zio Gianni. Infatti mi aspetta giù di sotto.»
Un clacson si udì dalla finestra e alzai le sopracciglia come a confermare il fatto.
«No, tu non te ne vai.» digrignò, posando i palmi sul mio petto nel tentativo di non farmi proseguire. Persino le sue mani erano fredde. Dita affusolate prive di calore.
Vagheggia con lo sguardo per l'ennesima volta. «Mamma, sono alto uno e ottantadue, ho più forza di te e sono sicuro che riuscirò a camminare perfettamente anche se ti attaccheresti come un koala alla mia gamba.»
«Non ti lascerò andare in America, Samuel! Non hai alcun diritto di andartene!»
«Mamma, ho quasi diciannove anni, ho già il biglietto stampato e poi anche Chelsea è andata all'università, perché non posso andare anche io?»
«Perché tu stai andando in America, ecco perché! E lei è a Pisa, in Italia.»
«Mamma, è a Pavia a fare ricerca,» le feci notare, «e a dirla tutta a lei farebbe più comodo venire con me in America dato che avrebbe più possibilità di lavoro.» le sottolineai e detto ciò le marciai contro, impedendole di mantenere le braccia tese e inducendola a spostarsi.
«Samuel, non andartene! Samuel!»
«Anche io volevo che non partissimo da Darwin, ma tu hai mollato papà e te ne sei andata portandoti dietro me e Chelsea. Prima che lo dici tu, sì, lo ammetto, voglio andarmene, proprio come hai fatto tu precedentemente e non ti ho ancora perdonato per ciò che hai fatto.»
Per pochi istanti pareva tentennasse, tuttavia trovò il coraggio di rimbrottare. «Non usarla come scusa.»
«Mamma, non mi hai dedicato attenzioni da quando mia sorella se ne è andata! Credi che tu possa riuscire a farmi restare? Sei per caso impazzita di colpo? Dammi un solo motivo per la quale dovrei restare se non per la tua pateticità. All'improvviso ricordi di avere un figlio?»
Avevo solo veleno al posto della saliva. Ero arcistufo dei suoi atteggiamenti da preziosa, perciò la sfidai mirandola dritto nelle pupille per scovare una verità nascosta, un minimo di affetto, quello che a suo contrario mi donavano i nonni di Lara.
Ironico. Delle persone che mai avevi visto in vita tua, sin dal primo giorno ti avevano trattato come un nipote da accudire. Lei invece era un rettile che dopo aver posto le uova se ne era andata, lasciando il cucciolo in balia di se stesso.
Dalla sua bocca non uscì una parola, probabilmente sia nell'essere intimorita dallo sguardo tagliente che avevo acuminato, sia perché era conscia di essere diventata inutile ai miei occhi.
Strinsi i denti e come ero entrato in quella casa, ne uscii, sbattendo la porta alle mie spalle.
Avevo odiato quel momento, non volevo salutare mia madre in quella maniera e sicuramente non volevo che il suo ultimo ricordo di me fosse questo, ma se l'era cercata. Provando a oltrepassare la vicenda, presi un respiro sentendo i polmoni pieni di smog tanto da farmi tossire, ma meglio questo dell'aria viziata che c'era in casa. Dovevo ammettere che ero felice di non respirare più l'ossigeno che circolava là dentro.
Una volta scesi gli scalini davanti all'ingresso, zio Gianni mi fece un cenno con la mano e andando verso la macchina aprii il baule, mettendoci valigia e zaino. Guardai le mie cose e sorrisi, pronto a partire e andarmene da quel posto. Ero deciso e nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea.
·····
Interminabili ore di viaggio per arrivare a San Francisco, ma mai quante per andare da Darwin a Milano. Quelle sembravano anni, un viaggio nello spazio-tempo di cui ancora gli astrofisici non avevano informazioni a sufficienza per spiegarsi il fenomeno. Fortunatamente con me avevo il mio libro preferito sotto mano, La Teoria Del Tutto di Stephen Hawking. Lo avrò riletto centinaia volte, ma ogni volta che sfogliavo la prima pagina mi sentivo come se lo avessi per la prima volta tra le mani. Ancora ricordavo il giorno in cui me lo aveva regalato Lara, avevo l'emozione dipinta sul viso, anche perché era la versione in inglese e non quella italiana, quindi avrei assaporato ancor meglio quelle pagine in lingua originale.
Certe volte mi perdevo a guardare il panorama dal finestrino dell'aereo, osservando tutto ciò che ci circondava. Le nuvole che si alternavano al paesaggio sottostante, dopo la vastità dell'Oceano Atlantico e lo scalo a Toronto, ammiravo agglomerati di città urbane e poi campi vasti, con qualche abitazione qua e là tanto per fare da contorno. Mi sentivo in ansia, ma allo stesso tempo ero eccitato. Avrei frequentato una delle migliori accademie sull'astronomia a Berkeley. Per di più a cinque ore e mezza c'era Los Angeles, quindi sarei potuto andare al famoso Griffith Observatory appena ne avrei avuto l'occasione.
Al mio fianco avrei preferito avere un qualcuno con cui conversare di tanto in tanto e invece mi ritrovai con l'esatto opposto. Questo signore non faceva altro che dormire, mi domandavo se avesse preso delle pastiglie perché non era possibile. Si era alzato solo per andare al bagno, ma appena si sedeva riprendeva a sonnecchiare che avrebbe fatto un baffo all'orso nel periodo del letargo.
L'unico che in qualche modo mi intratteneva era il bambino che dietro di me continuava a parlare con i suoi genitori, raccontando cose che facevano parte della sua fervida immaginazione. Poteva avere sì e no quattro anni e senza pensare mi chiesi se mio nipote Riccardo sarebbe stato chiacchierone come lui. Sì, Chelsea era diventata mamma da poco, mentre riguardo ad Anthony non avevo avuto nessuna notizia. Non sapevo se era rimasto a Darwin, se con papà se ne era andato, se avesse messo su famiglia, se ero diventato di nuovo zio... C'erano così tante cose che avrei voluto sapere, e per di più quel modo di parlare che aveva il bambino alle mie spalle, sembrava tanto anche Scarlett quando era piccola, con i suoi discorsi chilometrici di cui non ti saresti mai stancato perché erano pieni di novità ogni volta che apriva bocca, coinvolgendoti e portandoti nella sua fantasia.
Al pensarla abbandonai la testa sullo schienale, chiudendo gli occhi e ripensando all'ultimo ricordo che avevo di lei: eravamo a casa sua, pronti per il pranzo preparato da Caroline. Mia madre mi aveva lasciato da loro per via del lavoro, ma a me non dispiaceva, anzi, ero felice di passare un'altra giornata in loro compagnia, senza sapere che sarebbe stata l'ultima dato che il giorno dopo eravamo partiti senza preavvisi. Quel pomeriggio Scarlett aveva cominciato a raccontare il sogno che aveva fatto quella notte, dove io e suo fratello eravamo con lei a trovare un tesoro nascosto in un'isola con la ciurma dei Cappello di Paglia del tanto famoso cartone One Piece. Sogni che non stavano né in cielo né in terra, eppure mi era interessato ascoltarla. Xavier, al contrario mio, diceva che doveva cominciare a fare sogni più realistici, come lui che incontrava Ian Thorpe. Certo, come no.
Al ricordare tutto questo sentii una leggera nostalgia. Forse, invece di andare in America, avrei dovuto acquistare un biglietto per Darwin e riabbracciarli dopo sei anni come avrebbe voluto Lara. Dire che mi mancavano era un eufemismo, eppure ero partito per l'altra parte del mondo.
Dovresti tornare in Australia, non andare a Berkeley percepii la voce di mia cugina nelle orecchie.
Perché andare America se sai che casa tua si trova dall'altra parte del mondo?
Ti stai soltanto facendo del male nell'allontanarti ancor di più.
Sei una testa calda, non ti capirò mai.
E la mia giustifica si limitava nel dirle che l'università americana mi avrebbe potuto aprire direttamente le porte per la NASA. Scelta giusta o sbagliata che era, questa era stata la mia decisione e non potevo cambiarla proprio dopo aver speso un sacco di soldi per partire e soprattutto quando stavo per raggiungere la mia nuova meta.
Appena annunciarono l'atterraggio presi un sospiro, mi sentivo un concentrato di adrenalina ed ero in costante fermento, quindi appena aprirono le porte dell'aereo non persi tempo ad alzarmi, scavalcare il dormiglione che non aveva la minima intenzione di muovere il culo e a respirare una nuova aria.
«Grazie per aver scelto noi, a presto» la hostess mi salutò prima di mettere piedi fuori dal velivolo, dando così inizio alla mia avventura, La sete di curiosità che aveva segnato la mia esistenza mi spinse a farle un solo cenno per buttarmi all'esterno. Inspiegabilmente mi sentivo come Neil Amstrong nel mettere piede sulla Luna. Chissà se un giorno ci avrei messo piede anche io.
Portai una mano davanti agli occhi per la luce del sole che illuminava quella giornata, scendendo le scalette e cercando di imprimere nella mia mente tutto quello che mi stava attorno, anche se stavo ancora in aeroporto.
Mi precipitai a raccattare la mia valigia dai nastri e mi preoccupai subito a trovare la rete Wi-Fi per connettermi a WhatsApp. Quella sarebbe potuta morire senza una mia telefonata dopo tutte queste ore.
«Sammy, dimmi che sei arrivato sano e salvo e che non sei in Brasile perché hai sbagliato volo.»
Ecco, la solita. «Tranquilla, Laretta. Io non sbaglio mai, dovresti saperlo da tempo, sono stufo di ricordartelo.»
«Uff, sei il solito. Comunque com'è andato il viaggio? Tutto bene?»
«Tutto a meraviglia. Come me del resto.»
«Basta elogiarti e va a prendere un taxi, sei ancora all'aeroporto scommetto.»
Aggrottai la fronte, ma forse aveva sentito le voci degli altoparlanti. «Sì, scusami se ho pensato prima a te.» la sentii ridacchiare e questo fece abbozzare un sorriso sul mio viso. Già sentivo la sua mancanza, ma dovevo continuare per la strada che avevo appena intrapreso. «Piuttosto... che dice mia... madre?» domandai titubante.
Un sospiro leggero fu l'unica anticipazione. «È arrabbiata, Sam. L'altra sera continuava a lamentarsi coi miei nonni per poi andarsene dicendo cose poco carine...»
Roteai gli occhi e sbuffai. «Di bene in meglio a quanto pare. E dimmi, che diceva?»
«Meglio se non te lo dico.»
«Sputa il rospo, sicuramente non mi aspetto parole dolci, negli ultimi anni non ha fatto che urlarmi contro.»
«Dalle torto, ne combinavi una al giorno. I professori ti definivano come la reincarnazione di Lucifero, un angioletto per certi aspetti, un diavoletto per altri.»
Mi veniva da ridere, ne avevo combinate parecchie. «Non cambiare discorso. Che ha detto Caitlin?»
«Ehm...» cominciò ad esitare. «Quando se ne stava andando ha iniziato a dire "ma cos'altro posso fare per lui, figlio ingrato, testa di cavoletti, parte quando vuole, decide sempre di testa sua" e poi "fa lo stesso, che si arrangi, che si faccia una vita" e "per me può anche non ritenersi mio figlio, che vada a quel paese".»
Rimasi in silenzio aspettandomi quella sua reazione. Più gli anni passavano, più il suo carattere peggiorava. Nei primi anni del trasferimento era anche normale, ma poi aveva cominciato a dare i numeri, specialmente da quando Chelsea se ne era andata di casa per l'università. A dirla tutta questa era una mezza scusa. Prima di compiere i suoi diciotto anni passava le giornate a contare i giorni di quanto sarebbe mancato per il suo compleanno, così avrebbe potuto prendere le valigie e tornarsene a Darwin. Poi aveva conosciuto quello che poi era diventato suo marito, e lui era tutto ciò che la fece restare in Italia. Probabilmente mamma mi vedeva come un vagabondo oltre che essere l'ennesimo uomo che l'aveva lasciata, però stranamente non me ne diedi colpa. Doveva riconoscere i suoi errori, ma mai l'aveva fatto. Mai che si fosse comportata come una vera madre, quella senza ombra di dubbio lo era stata molto di più zia Clarissa. Stesso discorso per mia sorella, da quando avevo conosciuto Lara riconoscevo più lei come tale rispetto al sangue del mio sangue.
Anelavo nella mia fantasia una famiglia come quella dei Willoughby, con dei genitori amorevoli e pieni d'affetto e due fratelli su cui potevi contare sempre. Fortuna che avevo incontrato la famiglia di Lara, senza di loro probabilmente mi sarei arreso prima.
«Sammy-»
«Sto bene, Laretta. Sinceramente mi aspettavo di peggio. Scusami, ma ora ti lascio, devo andare a Berkeley. Ci sentiamo presto, stammi bene.»
«Ciao... E ricordati, sii prudente.»
«Certo, mamma.» e dopo averla salutata, staccai la telefonata, dirigendomi fuori dall'aeroporto.
Uscendo dalle porte automatiche il caldo sembrò che fosse arrivato solo in quel momento, ma forse ero troppo concentrato ad ammirare il panorama e intento allo stesso tempo di trovare il primo taxi che non tardò a comparire. Lo fermai e mi ci fiondai dentro dopo aver posato la valigia nel bagagliaio. Diedi al tassista l'indirizzo del dormitorio e lui partì, lasciandomi ammirare la bellezza americana che sempre mi aveva affascinato. Il paesaggio cambiava sotto ai miei occhi, passando da grattacieli ad oceano e come sottofondo c'era la musica trasmessa dalla radio. Appena sentii una canzone italiana, cominciai a canticchiarla e l'autista si era impressionato a tal punto di chiedermi di dove fossi. Così, scoprendo che venivo dall'Italia, mise una cassetta e fece partire tutta la playlist di Lucio Battisti. Chi me lo aveva fatto fare. Ovviamente, non contento, cambiò mettendo pure De André e Lucio Dalla. Non che non mi piacesse la musica italiana, ma io ero un concentrato di rock n' roll. "Questa è la musica riservata a coloro che riescono veramente ad apprezzare la nostra musica". Forse gli era sfuggito il fatto che io fossi australiano, ma lasciai stare, anche perché, per via del traffico, ci mettemmo più di un'ora per arrivare a destinazione.
A fine tratta mi fece pure lo sconto, ringraziandomi per averli portato un po' di ventata dalla patria. Ma perché incontravo sempre gente strana?
Scesi dall'auto con la valigia al mio fianco e mi ritrovai davanti a un dormitorio enorme, con un monumento in pietra con scritto in grande "DORMITORY" e un vialetto in mezzo al prato che giungeva all'ingresso. Mi avviai osservano diversi ragazzi appostati sotto ai diversi alberi con gli occhi puntati nei libri che tenevano in mano, altri seduti sulle panche a mangiare, altri ancora passeggiavano o giocavano col pallone. Era strano e allo stesso tempo sbalorditivo il come fosse simile al clima che mi ero immaginato.
Varcai l'ingresso e andai dritto verso la reception a chiedere delle informazioni. Anche lì dentro tutto era gigantesco, per di più il piano si ramificava in due direzioni, lasciando la bella vista del giardino all'interno grazie alle vetrate che non lasciavano nulla all'immaginazione.
«Buon pomeriggio, come posso aiutarti?» mi domandò un signore dai capelli bianchi e slanciato.
Finii di guardami attorno e sorrisi all'uomo. «Sì, salve, sono Samuel Sampson. Sono qui per prendere la mia stanza.»
«Certo, controllo un attimo sul pc. Posso avere un documento?»
Mi affrettai a prendere il passaporto e glielo porsi, per poi riceverlo insieme alle chiavi. «Ecco a te, si trova al secondo piano l'appartamento.»
«Grazie infinite.» e con ciò mi avviai dando un'occhiata al numero della stanza. 169.
Mi diressi verso gli ascensori che sorprendentemente anche questi erano fatti in vetro, quindi appena adocchiai quello libero, lo presi al volo. Arrivato al secondo piano, notai che c'erano un sacco di ragazzi che stavano nell'atrio governato da dei divanetti a lato e un tavolino. Gente che parlava, altri che correvano, mi passò persino un pallone davanti alla faccia e mi sentii come in una giungla abitata da scimmie. Guardai i graffiti sulla parete davanti dove c'erano segnate le direzioni delle stanze. Questa idea a mio parere parecchio originale mi colpì la vista in uno stupore appagato.
Mi indirizzai nel corridoio alla mia destra e appena trovai il numero che coincideva con la mia chiave, inserii questa nella serratura, ma per poco non venni assalito. «Finalmente!» urlò un ragazzo di colore nel notarmi.
Mi venne incontro e mi abbracciò come se mi conoscesse da una vita. «Finalmente ho un fratello!» e staccandosi mi prese la mano per stringerla con la sua. «Piacere, Leonard Earl Jefferson, ma per te sarò Earl il Nero.»
Lo studiai da capo a piedi, poteva essere poco più alto di me, con capelli corti quasi rasati e il fisico palestrato.
Misi in evidenza le mie fossette e ridacchiai, ricambiando la stretta. «Samuel Sampson, per gli amici solo Sam.»
Sorridendo alla Eddie Murphy, mi fece spazio per poter entrare e mi imbattei in un corridoio che si affacciava su una saletta con divano e tavolino rivolti verso la televisione, mentre dietro c'era la cucina in legno con un'isola che faceva da tavola. Nel corridoio invece c'erano quattro porte.
«Allora, fratello. Questa con la porta scorrevole è il bagno, quella dopo è la mia stanza. Dall'altra poi scegliere una delle due, ma tranquillo che sono tutte uguali.»
Guardai le due porte e scelsi subito la seconda, anche perché era più vicina alla cucina. Entrai e le pareti erano bianche. Un armadio in legno a due ante e un letto dall'altro lato, mentre davanti a me c'era una finestra che si affacciava sul giardino all'interno del campo. Non era una stanza particolarmente grande, ma era giusta per ospitare una persona.
Appoggiai la valigia in disparte e mi buttai sul letto, testandolo. Sospirai nel sentirmi così stanco per tutte quelle ore di viaggio, ma avevo un'adrenalina nello scoprire come era San Francisco e Berkeley che sovrastava il sonno.
«Comodo, eh?» comparve Earl alla mia porta.
Annuii. «Sì, mi sembra strano, ma spero che sia la realtà.»
Lui rise ancora alla Eddie Murphy, il che mi contagiò. «Fratello, già mi stai simpatico. Allora, se non hai ancora mangiato io proporrei nel nutrirci con un bel panino. Io non ci vedo più dalla fame.»
«Sì, volentieri.»
Earl, nel girarsi di scatto, sbatté la testa contro la porta e poi si avviò in sala massaggiandosela e borbottando qualcosa. Certo che non ci vedeva proprio.
Che battuta da Oscar, fai ridere persino Pintus... ma per la stupidità che emani.
Dileguati.
Lo seguii alzandomi velocemente dal letto, notando che sull'isolotto c'era del pane tagliato a fette ancora da farcire. Nel ripiano c'erano anche maionese, ketchup, burro di arachidi, insalata, pomodori e degli affettati, riempiendo quasi totalmente lo spazio a disposizione per il poco ordine.
«Non so da dove vieni, ma il burro di arachidi è la cosa migliore del mondo, il cibo degli Dei.» mi riferì spalmandolo per bene su una fetta.
Presi parte al restauro prendendo tutto tranne che il suo cibo divino. Ero in parte italiano, quindi sentire che il burro d'arachidi fosse il cibo degli Dei era come una mazzata in mezzo alle gambe. Quel posto era riservato al tiramisù, nient'altro. «Sono australiano, ma ho vissuto fino a ieri in Italia con mia madre.» sintetizzai, non volevo fare il discorso della mia vita appena approdato.
«Wow, ragazzo internazionale. Adesso sei in America, e la prossima meta quale sarà, Giappone?» domandò con sarcasmo, ma non era per prendermi in giro.
Mi passò una fetta di pane e la usai per chiudere il panino che mi ero fatto, addentandolo. Mi schifai leggermente nel vedergli mettere anche tutto quello che c'era sul ripiano.
«Penso che ritornerò in Australia.» dissi senza riflettere e dando un altro morso. «Tu di dove sei?»
«Chicago, la città del vento. Sono venuto con i miei fratelli.»
«Più grandi?»
Lui scosse la testa, ingoiando il boccone e guardandomi dritto negli occhi, come voler studiare la mia reazione. «Siamo tre gemelli.»
Quasi mi strozzai col panino. «Tre gemelli?» ripetei, passando il dorso della mano sulla bocca.
«Sì, fratello. E in più ho quattro sorelline più piccole, di cui due sono gemelle e poi un altro maschietto.»
«Sicuro che tra i tuoi gemelli non ci sia anche io di mezzo? Continui a chiamarmi fratello.» ridacchiai, anche se sì, era sul serio strano.
Earl rise come prima, mentre io cercavo di trattenermi. Era troppo contagiosa a sua risata, specialmente se era come quella dell'attore. «No, no, anche se mi piacerebbe a dir la verità, gli altri due sono insopportabili. Per di più si trovano a qualche stanza più in là, quindi prima o poi conoscerai quei fuori di testa. Io sono qua da due giorni, loro dalla settimana scorsa.»
«E così vi siete trovati in camere diverse.» dissi, finendogli la frase.
Lui annuì. «E per fortuna. Sai cosa significa vedere degli idioti per diciotto anni? Sono come una droga, ma di quelle di cui non vorresti più farti, ma sono inevitabili.»
Risi per quel paragone assurdo e finii il panino che avevo in mano. Nonostante potessero sembrare delle piaghe, in fin dei conti doveva essere bello avere un rapporto saldo con i propri consanguinei.
«Tu hai fratelli?» domandò facendosi un altro panino col burro di arachidi. Mi porse quello che aveva fatto, ma rifiutai. Non ci andavo pazzo, era troppo pastoso per i miei gusti.
«Due, mio fratello è in Australia, mia sorella in Italia.»
Lo vidi annuire, senza però aggiungere altro. Forse avevo parlato con un tono freddo, facendogli capire in qualche maniera che, effettivamente, la mia non era stata una famiglia fatta di rose e fiori. Una cosa che probabilmente la gente non capiva era che doveva ritenersi fortunata ad avere dei fratelli che ti rompevano l'anima. Era un modo per far capire che ti volevano bene, un po' come facevo con Laretta. La facevo disperare, le facevo scherzi di continuo, ma sapeva che era il mio modo per dirle che le volevo bene. Con Chelsea invece litigavo e basta, mandando praticamente a puttane il nostro rapporto.
Fino a sera continuammo a parlare, lui d'altronde mi aveva raccontato che all'età di tre anni si era trasferito dalla Nigeria a Chicago e che era qui a Berkeley per studiare medicina. Voleva seguire i passi del padre per poter diventare un ottimo chirurgo e mi era parso molto motivato da questo sogno, un po' come me per l'astronomia.
«Comunque, Sam, devi sapere una cosa su di me. A me piace divertirmi, quindi se la mattina ti ritrovi con una ragazza che vaga per l'appartamento, sappi che l'ho catturata con la mia sfera poké.»
Riferimenti assurdi e dove trovarli, ero capitato nel posto giusto a quanto pare. «Oh, buona a sapersi. Sappi che a me non serve nessuna sfera, vengono loro da me. Se facessi qualche mossa, sarebbe come usare una Masterball, troppo facile.» ammisi e lui sorrise a trentadue denti.
«Non potevo chiedere un coinquilino migliore di te, fratello.» e con questo volle farsi battere il pugno che non tardò per essere ricambiato.
D'un tratto sentimmo bussare alla porta, quasi pareva come un codice e Earl urlò di entrare, facendo varcare la soglia da quelli che potevano essere i famosi fratelli. Uno dei due sembrava raggiungere quasi i due metti di altezza e l'altro sembrava addirittura più basso di Earl. Il primo portava i capelli corti come il mio coinquilino, il secondo invece aveva delle treccine lunghe quasi fino alle spalle.
«Ehi, Leo, non ci presenti il tuo ospite?» disse lo spilungone aprendo il frigorifero.
Il secondo si sedette su una delle sedie girevoli dell'isolotto e iniziò a girare come una trottola. «Cavolo, credevo che il tuo primo ospite sarebbe stata una ragazza. Sei diventato gay?»
«Uh, affettati!» lo ignorò l'altro.
«Ehi, ehi! Doug, chiudi quel frigo prima che mi finisci le scorte e tu, Andrè, finiscila di girare su quella sedia, per la miseria, stai facendo venir mal di testa a me! E se proprio volete che ve lo presenti, venite qui uno ad uno e fatela fila! Ha una sola testa e voi riuscite a far andare un esercito in manicomio!» urlò Earl dal divano su cui eravamo seduti.
Io non riuscivo più a trattenermi dalle risate, sembrava di stare in un programma televisivo.
I suoi fratelli di colpo smisero di fare le loro attività e, avvicinandosi a noi, si misero davvero in fila davanti a me per presentarsi.
Ma fanno sul serio?
«Piacere, Tituss Douglas Jefferson, gemello minore.» disse lo spilungone e non ci volevo credere proprio per colpa dell'altezza.
«Rusty Andrè Jefferson, quello di mezzo.»
«Samuel Sampson.» confermai ai due. «Quindi tu Earl sei il gemello più grande.» dissi, voltandomi dalla sua parte.
Lui annuì. «E ora voi due fuori! Avete anche voi una stanza, non rompete i coglioni a me per il mio cibo che ora è anche di Sam! Quindi ripeto: fuori dalle palle!» e alzandosi in piedi, li spinse dall'altra parte della stanza.
«Ma noi vogliamo restare, fratellone!» si lamentò Andrè.
«Non me ne frega un cazzo, uscite.»
«Sei insensibile.» fece il falso drammatico Doug.
«Lo so, ho più parti del corpo fatte di pietra, e ora smammate.» e li spinse entrambi oltre la soglia, per poi sbattere la porta, sospirando.
Io ancora riflettevo sul doppio senso. «Allora, i ragazzi come si divertono a San Francisco?» chiesi con mezzo sorriso, cambiando discorso.
Earl ammiccò e strofinò le mani. «Ovviamente andando per pub. Pronto ad acchiappare?»
*****
Goooood morning America!
Samuel dall'Italia con furore è appena approdato a San Francisco e abbiamo fatto subito amicizia con Earl! 🤩
Come vi sembra il nostro "Nero"? Sono super contenta che abbiate avuto un assaggio della sua frizzantezza dopo Imprevedibile!
Mi spiace non essere attiva, però oggi ho buttato l'occhio su Samuel e mi è sembrato carino farvi rivivere certi personaggi 😊 A rileggerlo, Earl mi ammazza come sempre di risate!
Io mi auguro vi abbia fatto piacere rivedere una notifica, un abbraccio!
Niki
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