Capitolo X

Mentre cammino in una boscaglia a piedi scalzi, con in groppa mia madre e le mie scarpe bagnate in mano, rifletto su come basti veramente poco a distruggere tutto. Non voglio rivangare il passato né pensare a come sarebbe stato tutto evitabile, né a come puzzava quel corpo senza vita che ho messo al volante, né alla quantità di sangue e ferite che gli circondavano il volto.

Ho creato il mio scenario. La mia casa delle bambole, dove ogni sedia è messa al posto giusto, ogni personaggio posizionato esattamente dove dovrebbe stare.

Osservo il cielo, la luce fine dell'alba mi trafigge gli occhi come una lama affilata, e ringrazio lo stesso cielo per avermi piazzato su un pianeta dove anche il peggior giorno della mia vita è meno importante dell'alzarsi del sole. Consapevolizzarmi che il mondo va avanti anche senza il mio consenso è, allo stesso tempo, rassicurante e terrorizzante.

Quando faccio le notti in bianco mi è sempre sembrato di riuscire a sconfiggere la quotidianità. Nel corso di una vita non si vedono mai abbastanza albe. Si va a dormire troppo presto, e ci si risveglia troppo tardi.

L'assistere all'alba di un nuovo giorno è sempre stata la mia ingenua ribellione in una lotta più grande di me e del mondo stesso. Ventiquattro ore in un giorno, e una manciata di secondi per cambiare un'intera vita. O finirla.

Con le palme dei piedi doloranti e sporchissime, esco dalla foresta e appoggio mia madre sotto lo scivolo del parchetto dietro casa nostra.

Strattono mia madre silenziosamente, la chiamo a bassa voce. Mentre si sveglia, provo a studiare la situazione al di fuori dello scivolo.

È come quando ero piccolo.

Io e alcuni amici d'infanzia giocavamo a nascondino e, mentre loro rimanevano bloccati nel perimetro del parco, io mi addentravo nella foresta come un avventuriero. Era il nascondiglio migliore, ma dopo un paio di partite vinte ho dovuto cedere alla richiesta degli altri di evitare di allargare il campo di gioco perché a loro faceva paura la boscaglia ricoperta di siringhe, lumaconi enormi e sacchetti di plastica sporchi.

Mia madre si sveglia di colpo, spalanca gli occhi con la stessa violenza con cui apre le serrande della sua camera ogni mattina. Le poggio l'indice sulle labbra, mimando di fare silenzio.

"Siamo dietro casa. Non riesco più a portarti, dobbiamo camminare."

Lei si guarda un attimo attorno, e annuisce.

Nell'alzarmi, sento come se l'intero universo si stesse muovendo con me. Percepisco degli svarioni mai avuti prima, non mi sento più le gambe né le braccia.

Faccio due passi, e poi altri due. Chiudo gli occhi per un secondo, e faccio fatica a riaprirli.

L'ultima immagine che riesco a decifrare è la mia faccia sull'asfalto della strada di fronte al cancello di casa mia, e mia madre che si precipita a soccorrermi.

-

Mi sento i piedi freddi, ma ho le mani sudate.

Non riesco neanche ad aprire gli occhi, perché significherebbe ammettere che sono reale, e che lo è anche ciò che è successo ieri.

Ho paura della polizia. Ho il terrore che vengano a bussare alla nostra porta, e sapere che a breve lo faranno mi distrugge dentro. Voglio che ricominci l'estate, così da poter stare a letto per giornate intere.

Apro gli occhi, di getto, e mi accorgo di essere nella mia mansarda. Non ho sognato niente, poco ma sicuro.

Non voglio più alzarmi, davvero. Preferirei molto più marcire sotto queste coperte blu che sanno di lavanda per i prossimi vent'anni.

Sento il rumore delle macchine, ovattato dal vetro della mia finestrella. La luce del sole entra senza essere stata invitata, ma non ho intenzione di alzare le braccia e sforzarmi di raggiungere le tapparelle.

Abbasso lo sguardo lentamente, dato che mi sento ancora abbastanza frastornato.

Non c'è sangue, ma indosso gli stessi vestiti di ieri.

Il cuore comincia ad accelerare il suo battito, come se si fosse svegliato solo adesso.

Calcio a terra la coperta, alzandomi dal letto e avviandomi a passo felpato verso la stanza dei miei.

Ricevo il buongiorno dal martellante russare di mio padre, addormentato in un letto matrimoniale in cui non dovrebbe più stare.

Mia madre è al suo fianco, con gli occhi chiusi e una smorfia agrodolce a coprirle il volto.

Mentre mi affretto a percorrere le scale scricchiolanti per scendere al piano di sotto, il fiato mi si fa corto dall'ansia.

Raggiungo la cucina, e sento le mie gambe tremare.

È pulita. Non ci sono pezzi di vetro sul tavolo, le bottiglie e lattine di birra che costellavano il pavimento ieri notte sono scomparse.

Forse mi sono davvero immaginato tutto?

Mi avvicino all'armadietto degli alcolici, ancora tremante. Le mie mani stanno affrontando una sorta di attacco epilettico, e mi sembra di respirare usando un polmone solo.

Quando lo apro e noto l'assenza del Porto Colheita, ho la prova finale che qualcosa ieri notte è successo.

Mi affretto a raggiungere il lavabo poco distante, e comincio a vomitare.

Sento le tempie tese, e non riesco a togliermi dalla testa il volto inerme del senzatetto che ho ucciso.

Christian Lampo ha ucciso il barbone di Cordello.

Sento dei passi dietro di me, una presenza che si aggrappa alla mia schiena e affonda le proprie mani nelle mie spalle.

"Va tutto bene, va tutto bene" ripete, quasi bisbigliando.

Ho gli occhi che lacrimano, mi sembra di essere all'inferno.

"Hai pulito te la cucina?" chiedo, ancora con la testa nel lavandino.

"No", risponde Morena.

"Papà?"

"No."

Mi scappa un altro conato, ma non ho più sostanza da rigettare.

Guardo il mio vomito, ora intento a ricoprire alcuni piatti e posate rimaste da lavare dal giorno prima.

Aziono il rubinetto e comincio a bere.

"La macchina è intatta, Christian, nel parcheggio. Ma... sono sicura che ciò che è successo ieri è reale" mi spiega, con calma.

Mi getto a terra, di colpo. Le mie gambe sono sempre più deboli, e ho paura di essere in procinto di morire.

"Manca la bottiglia" diciamo insieme. Non riesco a guardarla, ma dai rumori che ha provocato il suo movimento, mi rendo conto che anche lei si è dovuta sedere.

Sposto lo sguardo sulla sedia davanti a me, dalla quale le gambe accavallate di mia madre non sembrano riuscire a stare ferme.

"Hai chiamato la polizia?" chiedo, ansimando.

"No."

Mi metto una mano davanti alla faccia, prima di scoppiare a piangere.

"Per qualche strana ragione, Christian, sembra non essere successo niente. Evitiamo di creare situazioni spiacevoli, okay?" mi dice semplicemente.

Il suo senso di colpa non supererà mai la tua paura di essere vista come una moglie non amata.

"Hai davvero intenzione di non fare niente?"

"Cosa dovrei fare?"

"Mamma, ti ha spinto a terra. Da ubriaco."

"Non siamo sicuri sia successo."

"Hai appena detto che lo siamo," le ricordo, facendo pressione sul pavimento coi palmi per riuscire ad alzarmi, "ho ucciso una persona per scappare con te, e vuoi davvero dirmi che preferisci pregare che non venga a galla piuttosto che affrontare le conseguenze?".

Lei balbetta qualcosa di incomprensibile. Sa che ho ragione.

"A volte la giustizia ha degli strani modi di palesarsi."

"Giustizia è essere stato aggredito da mio padre?" le chiedo, alzando la voce.

"Giustizia è aver investito una persona innocente per scappare da questa cittadina del cazzo?"

Mi avvicino a mia madre, fissandola negli occhi con così tanta rabbia che potrei farle lacrimare sangue.

"Giustizia è molte cose, Morena, ma non credo in Dio. Non credo più in una bambina che gioca con le sue bambole."

Mi affretto a raggiungere il salotto, per cercare le chiavi della macchina e scappare.

"Dove pensi di andare, Christian?" mi chiede mia madre, ancora in cucina.

"Ovunque, ma non a un chilometro da dove ho ucciso quell'uomo" le rispondo, prima di scrutare il tavolo da sala.

"Se la macchina è qui... dov'è il cadavere?" realizzo poco dopo.

Io avevo posizionato il corpo al volante, per simulare un suicidio. Se l'auto di papà è nel nostro parcheggio...

Mia madre cammina con tranquillità verso di me, con le mani incrociate, e mi chiama.

Nel suo volto, riesco a vedere il mio futuro: una vita a Cordello, serena ma vuota. A vedere le rughe formarsi sul mio viso, così come la consapevolezza di non aver combinato niente di buono nell'unica opportunità che ho avuto su questo pianeta.

"Ancora non hai capito?" mi chiede lei.

"Sei mai uscito da questa cittadina senza passare dalla stazione ferroviaria?" aggiunge, retoricamente.

La guardo storto.

Spalanco gli occhi.

"Hai molti pregi, Christian, ma non sei bravo a guardare le cose da un punto di vista esterno."

"Mamma, sogno di mollare questa prigione da quando ho sei anni."

Lei assume un sorriso amaro, prima di posizionare le sue mani dietro alla gonna che indossa per non farla stropicciare mentre si siede sul divano.

Mi osserva, negando con la testa. Ricomincio a tremare. Non è possibile.

"Hai qualche ricordo, nel corso della tua vita, che non sia a Cordello o Zaricci?" continua poco dopo.

La mia mente comincia a fare le bizze, perché non ho memoria di qualcosa di diverso dalle casette di provincia o dai palazzi della metropoli a qualche ora di distanza.

"I ragazzi di provincia non smettono mai di esserlo, Christian" mi confessa mamma, "quando passi per Cordello non te ne puoi andare così facilmente."

"Mamma, cosa stai dicendo?" le chiedo, urlando. I miei occhi non riescono a focalizzarsi sulla sua sagoma, sento tutto ovattato.

"Siediti, preparo il tè."


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