Capitolo VIII

Un anno fa, in questo periodo, cominciavo l'ultimo anno di liceo.

Come all'inizio di ogni anno scolastico, ero propositivo: questa volta avrei cambiato rotta, avrei studiato un sacco, mi sarei accaparrato i miei voti alti e una conseguente borsa di studio per l'immatricolazione all'Università di Zaricci.

Non so come mai, ma nonostante queste mie intenzioni positive sono sempre finito a non fare abbastanza. Ho avuto mesi e mesi per cambiare il mio futuro, per aprire i libri invece di guardare video deficienti su Facebook. Pur sapendo fosse l'unica possibilità che avevo per frequentare l'università, non sono mai riuscito a fare più del minimo indispensabile.

C'è poco da dire: non ho mai preso una borsa di studio, non sono riuscito a scappare. Mi ritrovo incatenato a Cordello, in questo autunno statico che mi ingloba in una nebbia tanto fitta quando tipica di questa terra troppo paludosa e umida.

Mentre mi avvio verso casa, tremando dal freddo rigido, mi accorgo che a malapena riesco a percorrere l'incrocio di casa mia. Sono circondato da un'atmosfera grigia che si estende per metri e metri, quel tipo di nebbia così accecante da non permettere di capire a occhio nudo che ora sia. Come se, a differenza del mondo intero, non avesse una vera e propria scadenza.

Appena apro il portone d'ingresso è come se riuscissi a scappare dall'ingordigia indistinta che lascio là fuori. Sembra quasi voler entrare in salotto giusto per ingabbiarmi ancora per un po', inglobarmi in sé come se fossi io stesso la foschia.

Il mondo esterno a questo salotto fetido e malmesso è ora fosco e invivibile, ma in questo periodo stare a casa mia non mi fa sentire al sicuro.

Mio padre e mia madre stanno continuando a litigare, è da giorni che dalla veranda sento le loro grida furiose e rumori di mobilia che si spacca. A volte mi fermo a fissare i passanti dalla finestra per vedere se notano a loro volta le urla; comportamento che, devo ammettere, è tipico di mia mamma, troppo preoccupata di crepare la sua reputazione da casalinga agiata.

Come sempre, supero il soggiorno e corro verso le scale, premendo le dita sui lacci del mio zaino sciupato. Tengo lo sguardo basso, come se rischiassi di guardare in faccia Medusa. Le parole delle due belve diventano un minestrone, si mischiano al punto di non permettermi di comprendere manco una frase.

Sento dei passi pesanti venire verso di me, proprio nel momento in cui alzo la suola della mia scarpa sinistra per raggiungere il primo gradino.

Mio padre mi strattona, quasi buttandomi a terra.

"L'hai detto a qualcuno?" mi urla in faccia mio padre. La sua, di faccia, è ora mostruosa, venosa e sudata. Un demone pronto a risucchiarmi l'anima.

Mia madre ci raggiunge, preoccupata e scandalizzata dalla mossa di papà.

"A chi cazzo l'hai detto?" ripete, a voce ancora più alta.

"Lascia stare Christian!" strilla debolmente Morena, tenendosi una mano sulle labbra. Trema come il suolo durante un terremoto.

"Non fai un cazzo da mattina a sera e vai anche a sputtanare la tua famiglia in giro! La tua famiglia, ti rendi conto? Tu non sei mio figlio!"

Sbraita con una voce molto rauca, rovinata dalle migliaia di sigarette che ha fumato negli ultimi trent'anni. Ha una macchia di tempera bianca sullo zigomo sinistro, e mi devo concentrare su quello per non scoppiare.

Non mi viene da piangere, non sono neanche così sbalordito. E' un ometto triste, un clown deprimente che cerca di atteggiarsi da capofamiglia dignitoso.

"Non ho detto niente a nessuno, allontanati, per favore" gli dico, con calma, mettendo il palmo della mia mano sul suo petto.

Lo spintono leggermente, il giusto per potermi scagionare e procedere verso la cucina.

Una serie di bottiglie di birra vuote circondano il tavolo, e l'odore di tabacco che ho sempre trovato piacevole è ora la puzza della grotta di un ciclope.

"Che cazzo ti è saltato in testa? Tu sei da curare!" gli dice mia mamma, quasi bisbigliando. Non so con che coraggio si avvicini a quell'uomo, che da un giorno all'altro ha cominciato a comportarsi come un bambino viziato preso da attacchi d'ira incontrollabili.

Ho un bruttissimo presentimento, come se sapessi che da qui a breve accadrà qualcosa di brutto e inevitabile. Per questa ragione, probabilmente sovrappensiero, apro l'armadietto in legno di fianco al frigo ed estraggo una bottiglia mezza vuota.

Il Porto Colheita del 1989. Osservo quel vino come lo studiavo anni fa, quando lo rubavo di nascosto perché dovevo andare alle feste ma non avevo neanche i soldi per comprarmi delle birre sottomarca al supermercato. Un gusto orrendo, ma faceva il suo sporco lavoro.

Appoggio la bottiglia nel lavabo, prima di prendermi un bicchiere e versarmi dell'acqua dal rubinetto.

"A lavoro lo sanno tutti. E chi cazzo pensi l'abbia detto in giro, eh?" rialza il tono mio padre. Il suo respiro si fa sempre più pesante, come se si stesse trasformando in un licantropo.

Infine, esplode. Urla come non ho mai sentito nessuno urlare in vita sua: "io lo ammazzo, Morena, lo ammazzo, lo ammazzo, lo ammazzo!"

Sento la sua rincorsa verso di me. Mio padre è ora un toro da corrida e io non sono altro che uno sventurato del pubblico che è stato preso di mira.

Mia mamma cerca di fermarlo, gemendo di dolore e pregandolo.

Lo scorgo entrare in cucina.

Si avvicina, sembra non respirare da diversi minuti. E' così accaldato da non essere manco bordeaux: è viola, come un alieno uscito da un romanzo di fantascienza. Ha i tipici occhi rossi e umidicci di un vecchio uomo che non riesce a darsi la colpa della sua stessa rovina.

La sua mano enorme si eleva verso il soffitto crepato, pronto a colpirmi.

Chiudo gli occhi, coprendomi il viso con le braccia nell'inutile tentativo di proteggermi.

Ci sono poche cose a farmi davvero sentire in pericolo, e l'immagine di un muratore ubriaco e arrabbiato è una di quelle.

Quando mia madre vola tra me e suo marito, riapro le palpebre.

Blocca il braccio di papà, pur rimanendo vulnerabile come poche altre volte in vita sua.

Mio padre le dà della stupida, la spinge di lato e le tira uno schiaffo. Mia madre si spiattella sul muro, colpisce la testa.

Metto le mani dietro la schiena, e dopo alcuni futili tentativi, riesco ad afferrare il collo del Porto Colheita.

Mio padre, quando andavo alle medie, mi accompagnava spesso alle competizioni scolastiche di lancio del giavellotto. Quando c'è il tiro, bisogna fare un movimento circolare su sé stessi, per aumentare la potenza del tiro. Si lamentava spesso di come potevo esercitarmi per tirare meglio. "E' come quando cacci le farfalle con il retino: devi catturare l'aria."

Nessuno dei due avrebbe mai pensato che questo suo spronarmi mi sarebbe tornato utile anche dopo i dodici anni. Lo colpisco sopra l'orecchio destro con una potenza tale da farlo cadere sul tavolo. I ciotti di bottiglie di birra decorano ora il pavimento come una costellazione alcolica, mentre mia madre si riprende, alzandosi da terra a fatica e venendo ad abbracciarmi.

Singhiozza a ritmo irregolare, non riesce quasi a respirare. Mio padre cerca di alzarsi a sua volta, ma scivola col piede su una bottiglia e ritorna a terra, sbattendo violentemente il mento.

Afferro Morena per un braccio, notando che la spallina del suo vestito floreale è distrutta al punto di lasciare il reggiseno nero in bella vista. Scappiamo verso la porta d'ingresso, in extremis riesco a raccattare le chiavi della macchina sul tavolino della sala. Mentre mio padre lancia dei lamenti che riecheggiano dalla cucina alle nostre orecchie, non riesco a lasciare la mano di mia mamma.

Torno bambino, quando le stritolavo il braccio durante il primo di giorno di elementari. Mi sono fatto accompagnare fino alla classe perché avevo paura di perdermi.

Lei, che mi segue senza forze, riesce a malapena a chiudersi la porta alle spalle, come se avesse difficoltà ad abbandonare quella bomba ad orologeria che chiama casa.

"Devi chiamare la polizia" le dico, inserendo le chiavi della macchina nella fessura della portiera.

Lei nega, visibilmente pallida e tremante. Si siede dietro, come se si aspettasse che mio padre si metterà alla guida.

"Chiamali o li chiamo io."

Lei continua a negare con il capo, scuotendolo sempre più velocemente. Il suo petto va all'infuori e torna a dimensioni normali con un'alternanza spaventosa, veloce e repentina: "non si deve sapere quello che è successo lì dentro."

La porta di casa si riapre di colpo, creando un rumore simile a quello di un tuono, ma non scruto nessuno. Parto senza troppi ripensamenti.

La nebbia è ancora molto fitta, di conseguenza anche con gli abbaglianti non si riesce a vedere molto. Non so dove sto andando, ma sicuramente non lascerò me e mia madre a marcire tra le vie di Cordello.

Continuo a percorrere le strade della mia terra con fare frettoloso, come se davvero non potessi stare calmo davanti all'evidenza che per la prima volta scapperò dal paesino che per troppo tempo ho dovuto definire come mio.

In macchina c'è un silenzio tombale, ma nelle nostre teste, sono sicuro, c'è un caos di voci, paure e rimpianti che proprio non riesce a estinguersi.

Gli abbaglianti colpiscono in pieno il cartello che indica l'uscita da Cordello, illuminando la foresta alla mia destra e il burrone alla mia sinistra. Come per scaramanzia, mi tocco i coglioni e faccio un respiro profondo.

Una scritta in oro annuncia "Grazie e arrivederci!" come se fossimo in un villaggio turistico o all'uscita di un centro commerciale. Cordello sa essere basica anche negli addii.

Basta quel mio sguardo disgustato verso l'insegna per investire in pieno una persona che stava attraversando la strada.

Mia madre comincia a urlare, io sterzo immediatamente.

Colpiamo in pieno un albero, che ci fa scuotere prima all'indietro, poi in avanti, come due piñatas distrutte dopo la festa di compleanno di un bambino messicano.

La macchina si ferma, il fumo che esce dal motore si confonde con la foschia che circonda il perimetro attorno alla scena dell'incidente; una scenografia di asfalto rovinato da enormi buche e macchie di sangue troppo rosso, troppo reale, troppo vivo.

Mi tocco il naso, non esce sangue.

Mi giro e vedo mia madre, con gli occhi così spalancati che sembrano sul punto di cadere a terra. Si preme la pancia.

Lo stesso cartello che guardavo fino a poco fa scompare nelle tenebre, come se non fosse mai stato costruito e fosse solo un frutto maledetto della mia immaginazione.

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