Capitolo I

Giuditta sa di piacere, e sa che non c'è nulla di male.

In fondo, lo sanno tutti quanto è ingiusto il mondo: ci sono persone che sono sempre state bellissime e che lo saranno fino alla vecchiaia. Non è questione di trucco o postura, è proprio il loro possesso di un'eleganza elettrica e innata, forse ereditaria.

Trovo più ragionevole vedere Giuditta come una ragazza fortunata nel suo essere così affascinante piuttosto che abbandonarmi al fatto che sia una specie di dea adolescente.

Sdraiata per terra nella sua casa sull'albero, fissa il soffitto con quello sguardo sempre svogliato al punto giusto. La canottiera extralarge del suo ragazzo le copre mezza parte delle cosce, e posso affermare con convinzione che Giuditta Moschella non è mai stata così bella come in questo momento.

Mi sembra serena. Non sorride, magari non è felice, ma è sicuramente serena. Con il braccio sollevato e la mano destra sistemata a sostegno della nuca come per simulare la presenza di un cuscino, assume una posa così regale che potrebbe apparire in una qualsiasi rivista di moda.

La sigaretta ancora spenta che le pende dalle labbra, poi, non è nulla se paragonata a quel mento leggermente pronunciato, sul quale i suoi pochi brufoli diventano quasi un abbellimento più che un difetto.

"Sono contenta di non essere l'unica che è rimasta sveglia stanotte" mi confessa a mezza bocca, mentre la sua mano sinistra comincia a tastare il pavimento circostante alla ricerca dell'accendino.

"Solitamente lo sei?" le chiedo, tenendo le mani nelle tasche dei miei jeans. Dopo essersi accesa la stizza, annuisce.

Il suo sguardo rimane fisso sul soffitto di legno, debolmente illuminato dalle luci colorate appese alle pareti.

Ho avuto l'occasione di studiare Giuditta già dai banchi di scuola delle medie. Non siamo mai stati semplici conoscenti, c'è sempre stata un'intesa molto forte tra noi due, ma non è esattamente la persona a cui confiderei i miei segreti o a cui scriverei un messaggio per chiedere consiglio. Non penso di averne mai avuto l'occasione, a dire il vero. Ormai ognuno ha i propri amici, la propria routine e i propri interessi. Inoltre, ho sempre nutrito un certo timore nel relazionarmi con lei.

Quando si passano diciannove anni della propria vita in una cittadina come Cordello, è abbastanza difficile evitare due cose: odiare i propri genitori per essersi bloccati in un posto simile, e non conoscere almeno di vista ogni coetaneo che attraversa le strade del centro paese. In fondo, il nostro liceo è uno solo, e la città vera e propria più vicina è a un'ora e venti di treno da qua.

Siamo tutti bloccati in questo paesino di tremila abitanti che si estende per nove chilometri quadrati, in un claustrofobico ammasso di ville tanto decorate quanto vuote. Ad oggi, sono convinto che si sia dato un nome per sole questioni di orgoglio e comodità amministrativa.

E ora Cordello è anche peggio del solito: sta arrivando l'autunno, è tutto ancora più nebbioso e grigio. In questa casa sull'albero, però, c'è ancora aria di piena estate.

"Pensavi sarebbe rimasto sveglio qualcun altro?" sussurro a Giuditta, come se considerassi insincera la sua gratificazione nell'avermi al suo fianco.

Lei assume una smorfia altezzosa, come per giudicare tutte le persone che non hanno voluto fare after con noi, e si volta verso Stefano, steso in un angolo. Sta dormendo in una posizione che sembra scomodissima: è ingarbugliato peggio dei cavi di un quadro elettrico, con il cranio inclinato verso il basso e le braccia incrociate. Russa molto pesantemente.

"Hai deciso cosa fare con lui?" domando, notando come Giuditta si sia un po' inorridita nel vedere il suo ragazzo in condizioni simili.

"Che devo fare? Ci sto insieme e fine. Se dura, dura, se non dura, ciao."

Non riesco a capire se non voglia parlarne o se è un argomento che la fa arrabbiare.

"Dico solo che è l'ultima notte che poteva passare con me. Poteva evitare di andare a giocare a calcetto con Davide e tutti gli altri coglioni per poi collassare all'una alla mia festa" aggiunge, alzando il tono al punto di disturbare i pochi superstiti che ci circondano, ora intenti a muoversi e fare facce strane nel sonno. Fortunatamente, nessuno si sveglia.

Prendo Giuditta per mano, prima di alzarmi da terra e mimarle di stare in silenzio.

Mentre mi dirigo a passo felpato verso le scale casarecce per scendere dall'albero, mi accorgo quante lattine di birra abbiamo lasciato sul terreno del giardino.

Settembre si sta facendo sentire: nonostante indossi una felpa e dei jeans corti, ho i brividi. Sono le quattro e mezza di mattina, effettivamente, e il sole sta giusto ricomparendo all'orizzonte.

Alzo lo sguardo al cielo, già chiaro e grigio.

"Non so se sono pronta a una relazione a distanza" mi dice Giuditta, camminando a piedi scalzi sul prato che circonda la sua casa sull'albero. Senza distogliere lo sguardo dalle pochissime deboli nuvole sopra di noi, la seguo.

In una mano tiene le sue Vans beige, con l'altra l'accendino. Assume una postura gobba, come se fosse stanca.

Le macchine in strada sono l'unica cosa che provoca rumore al momento, anche perché non saprei bene cosa dire a Giuditta per aiutarla.

"O meglio, non so se mi piaccia abbastanza per tentare una relazione a distanza."

Si ferma, poco lontana dall'entrata posteriore della sua casa, e aggiunge: "voglio dire, alla fine parto anche per scappare da Cordello, non me ne voglio portare dietro un pezzo."

Scrolla le spalle mentre lo dice, come se si fosse arresa all'evidenza che per questo suo viaggio dovrà fare molti sacrifici, ed entra in casa. Mi lascia la portafinestra aperta, come per invitarmi a entrare. Probabilmente si è accorta che sto gelando.

Do un'ultima studiata al cielo, prima di attraversare il salotto e raggiungere Giuditta nella sua camera, al piano di sopra.

Uno degli elementi più interessanti di casa Moschella è che unisce un arredamento che tenta di essere ultramoderno e futuristico a un sacco di fotografie famigliari appese alle pareti. Noto, in particolare, una piccola Giuditta intenta a costruire un castello di sabbia in una spiaggia a Bali.

Quando entro nella sua stanza blu, una versione triste e cresciuta di quella bambina mi lancia uno sguardo fulminante dal letto.

Forse voleva che me ne andassi.

Mentre lei ritorna a usare il suo cellulare, mi accorgo quanto soltanto dalla sua stanza si possa capire cosa andrà a studiare.

"Mi piacciono le stelle" le dico, indicando timidamente gli adesivi fosforescenti attaccati al soffitto.

Lei ridacchia, spiegandomi che le ha da quando andava alle scuole elementari ma non è mai stata alta abbastanza per riuscire a toglierle, anche con l'aiuto della grata di scale del padre. Al mio chiedergli perché non si faccia aiutare, mi rendo conto da solo che Giuditta non ama chiedere favori, soprattutto ai suoi.

Mi avvicino alla sua biblioteca, attento a non calpestare i vestiti sparsi in giro per il parquet.

Osservo la collezione di enciclopedie, film spaziali e romanzi fantascientifici dalle copertine luminosissime.

Afferro il DVD de La conquista dello spazio, studiando attentamente le condizioni della custodia. Sembra uno di quei classici degli anni cinquanta con un capitano mega virile e cazzuto che mi annoiano fino alla morte.

In realtà, lo spazio è sempre stato particolarmente interessante per me. Ci sono tanti di quegli studi che affermano molte cose spettacolari e devastanti al riguardo e, davvero, l'astronomia è uno di quegli argomenti per cui riservo una particolare devozione senza una ragione apparente.

Non che mi sarà mai utile.

Io non sono determinato o intelligente come Giuditta, e soprattutto, non ho i suoi mezzi per poter continuare gli studi.

"Verrai a trovarmi?" mi chiede, sempre a letto, cogliendo la mia aria sognante nell'osservare la cartina europea appesa alla parete.

Le dico di sì, sferrando un sorriso agrodolce. In realtà, lo sappiamo entrambi che è un no, mi ha fatto una domanda stupidissima. Mi insospettisce come sembri aver bisogno di assicurarsi che la gente non si dimentichi di lei, come se non fosse una delle ragazze più apprezzate e intriganti della cittadina.

Da sotto il letto afferra una bottiglia di coca-cola, mentre io mi appresto a cercare un accendino in giro per la stanza. Mi appoggio una mano sulla tasca posteriore dei jeans per controllare che il mio personal sia ancora lì.

Ne lascio sempre uno per quando finisce una festa.

Mi piace fumare l'ultima canna mentre cammino verso casa alle cinque di mattina perché è quando la cittadina sembra ancora più morta e statica di quanto non lo sia quando le strade si riempiono di nonnetti e mogli che portano a spasso i propri cani bavosi. Dove almeno per un po' non sono parte di quella realtà, ma l'imperatore di un territorio distrutto. Mi piace mettermi le cuffiette e ballare in mezzo alla strada, sapendo che non passerà mai neanche una bicicletta. Nulla attorno a me è in grado di illuminarsi se non la mia corona.

Devo però ammettere che, per quanto essere ospite della navicella spaziale di Giuditta Moschella non fosse nei miei piani iniziali, mi ritrovo comunque in un posto dove posso permettermi di mettere un po' di musica e rilassarmi prima di lanciarmi sul mio letto per qualche ora.

Mi ritrovo da solo sul balconcino della camera di Giuditta. Mi accendo il personal e comincio a scenerare per terra. Tanto Giuditta parte domani, i suoi non le faranno certo pulire casa.

"Come sta andando con Sami?" mi chiede lei, quasi agitata. Sembra non voler stare in silenzio, o magari non ci riesce ora che un quasi-estraneo è nella sua camera.

Ci sono molti cinguettii di uccelli intenti a rendere l'ambiente ancora meno quiete, e una fine pioggerellina sembra volermi dire di tornare dentro casa.

Ignoro il consiglio.

"Tutto bene" le dico, schietto: "è un po' la solita storia, ecco."

"Ho visto come guardavi il culo a Davide stanotte" mi confessa, con un sorrisetto malizioso.

Scrollo le spalle, continuando a fumare dal balcone.

Guardo Giuditta negli occhi, io appoggiato alla ringhiera in legno del balcone mentre lei sta ancora sul letto, senza togliersi quel ghigno da Stregatto. Penso mi stia sfidando.

"Lo sai che non tradirei mai Sami" le dico, con in testa l'immagine di Davide che balla in mezzo alla casa sull'albero: "Davide ha dei bei lineamenti, okay, è atletico. Ma non mi dice niente, e mi sa di coglione" continuo.

Giuditta si alza, comincia ad avvicinarsi con una camminata delicata e lenta.

Si sta comportando come se non volesse svegliare qualcuno, ma siamo a casa da soli.

Mi prende la canna dalle mani e comincia a fumarla.

"E' un ragazzo in gamba il nostro Sami, non fartelo scappare."

Si espone col busto al di fuori della ringhiera. Il vento sbuffa sui suoi capelli e li scompiglia, ma lei non sembra infastidita dalla cosa. Continua a fumare, cercando di guardare oltre la nebbia con gli occhi socchiusi.

"Se ne andrà pure lui via da qui, prima o poi" le dico, e il solo pensiero mi fa salire un'angoscia in grado di tritarmi la gola: "Sami è parte della Cordello bene, come te."

"Christian" sussurra, appoggiando una mano sulla mia spalla: "chi ti dice che non scapperai via anche te?"

Mi ripassa la canna, prima di sdraiarsi sulle mattonelle arancioni del balcone.

"I soldi. Come sempre."

Giuditta sbuffa, prima di usare le mani per alzarsi col busto e guardarmi in faccia, quasi scocciata.

"Che palle i soldi, mamma mia."

"Non dirmelo."

Soprattutto te, che non hai mai mosso un dito in vita tua perché sei nata col cordone ombelicale d'oro.

"Cosa vorresti fare da grande?" mi chiede.

"Non lo so. Mi basta andare via da Cordello un giorno, per quel che mi interessa posso anche prostituirmi per andar via di casa."

Non era un discorso che volevo trattare, soprattutto ora. Volevo stare tranquillo.

Lancio il rimasuglio puzzolente della canna lontano dal balcone di Giuditta, prima di rientrare in casa.

Sono quasi le sei. Ci metterò una quindicina di minuti a tornare a casa e mio padre si sveglia tra venti per andare a lavoro.

"Devo scappare."

"Puoi dormire qui per un po', se ti va... parto alle tre di pomeriggio" mi comunica lei, mentre io mi avvicino alla porta.

Mi giro. Lei mi guarda con un fare simile a quello di un gatto che vuole farsi grattare. Se non fosse circondata da valige ancora da fare, forse rimarrei.

"Mio padre si sveglierà tra poco, devo andare" ripeto, più convinto. Non la guardo negli occhi: so che mi convincerebbe a restare.

Giuditta mi sembra dispiaciuta, ma non insiste. Con la sua sfilata elegante mi raggiunge e mi abbraccia. Non profuma, ma non puzza. Sento il suo odore vero, e mi piace.

"Ti vedrò per le vacanze di Natale, no?" le dico, ancora attaccato a lei.

"Sì, tornerò" risponde, prima di interrompere l'abbraccio.

Mi prende per mano e mi porta al piano di sotto come un Virgilio particolarmente sicuro di sé.

Esco dal retro, diretto verso il cancello che si affaccia alla strada.

Mi giro un'ultima volta per salutarla. Sarà strano non vederla più in piazza.

Comincio a camminare verso casa, sotto la pioggia. Vorrei tanto una sigaretta ora, ma ho finito il tabacco.

Mogio mogio raggiungo le strisce pedonali che mi allontanano dal quartiere di Giuditta, addentrandomi nel parchetto comunale.

Sospiro. Vorrei davvero ritrovare della magia in queste strade, ma ormai mi nauseano da quanto le ho viste.

Ho sempre pensato che un turista straniero troverebbe questo paesino italiano un piccolo capolavoro se lo visitasse in piena estate: alla fine c'è molto verde, è piuttosto curato e abbiamo un sacco di campi attorno al centro abitato.

Però, ecco, se lo stesso turista fosse confinato qui per mesi, probabilmente cambierebbe idea.

Tengo il ritmo della musica tamburellando le dita tra di loro, ormai arrivato alla fine del parchetto.

Raggiungo la piazzetta davanti al cimitero mentre sento dei passi infrangersi con le pozzanghere d'acqua dietro di me.

Mi giro mentre mi tolgo le cuffiette, giusto in tempo per vedere Giuditta corrermi incontro.

Mi salta addosso, baciandomi.

Rimango stizzito, mi immobilizzo.

Lì, davanti al cimitero di Cordello, Giuditta Moschella mi bacia nella sua ultima mattinata da ragazza di paese. Non so cosa pensare, né se mi stia piacendo.

Mi sento come se fossi ancora nella sua stanza, a guardare con meraviglia le stelle attaccate al suo soffitto.

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