Capitolo 4

EDITH

«E in quale impresa ti ha trascinata il tuo fidanzato? Mi auguro solo che tu abbia trovato un'estetista migliore di me per renderti presentabile...», farfugliò Noemi. La voce nasale gracchiò attraverso la linea telefonica a causa della distanza. Influenzata da un paio di giorni, e tormentata dal raffreddore estivo, confidava di guarirvi a breve. Tuttavia ero segretamente convinta che il muco non le avesse ostruito il setto nasale, bensì le sinapsi del cervello.

«Smettila Emy. Non è un'impresa, non siamo all'interno di un poema epico. Inoltre, come se non lo sapessi, Manfredi non è il mio fidanzato. È il mio datore di lavoro. Datore di lavoro che potrebbe tornare da un momento all'altro. Perciò non blaterare ad alta voce scemenze simili o rischio che ti senta!», la smentii, piccata dai commenti caustici che mi riversava da diverso tempo.

Infastidita, gettai gli strofinacci nel secchio blu, svuotato dall'acqua sporca, accanto alla pezza unta. Il profumo di pulito, in seguito all'ardua sessione di pulizie, all'interno dello stabile, fu una magra rassicurazione per il mio umore. Vagavo per la stanza vuota, trascinando la vecchia cornetta del telefono fisso – un raro sopravvissuto del negozio precedente – reggendone il resto grazie alla prolunga del filo.

«Ti stai già inalberando? Se non sbaglio, il tuo uomo non è lì con te, adesso. Non hai fatto altro che rimarcarlo come se sperassi di confidarmi un gossip piccante fra voi due. Immagina la mia riluttanza nell'ascoltarti... Continuo a ripeterti che sareste un'ottima coppia», si ostinò lei, irritandomi ancora.

«Ti dico che non lo saremo mai, finiscila con questa storia. Non è il mio uomo, ma un amico – oltre che il mio capo», ribadii con decisione.

Adoperai una sola mano per spostare i barattoli di colore sul retro. L'indomani avremmo incominciato a grattare e stuccare le pareti. Mi soffermai ad ammirare come la luce aranciata del tramonto le tingesse di fuoco.

«Mai, dici? Peccato. Quindi hai solo le rogne nel sottostare a uomo qualsiasi senza il piacere del sesso», costatò alla fine, udendola sgranocchiare qualcosa, «Bleah! Questi pop corn sanno di vecchio», mugugnò più a se stessa che a qualcun altro. Conoscevo a memoria i suoi orari lavorativi per affermare che fosse da sola al salone di estetica.

«La prolungata influenza di Serafina ti sta danneggiando», borbottai stizzita.

«E di chi è la colpa? La mia amica introversa e asociale si è trasferita a Barcellona con solo venti giorni di preavviso», si irritò anche lei, «Come se questo non fosse abbastanza, non è facilmente reperibile visto che possiede un cellulare relegato agli anni 2000 e mi telefona con uno degli anni '60. Devo continuare?».

Esalai un sospiro concorde, tralasciando il mio lavoro per concentrarmi sulla conversazione: «Hai ragione, sono l'ultima persona al mondo che può farti la morale. Voi come state? Ho provato a chiamare Mamma e Micky, ma sono in mezzo al deserto e la linea non prende in quella vasta zona».

«Hanno prolungato il safari in Egitto, dunque?», chiese la mia amica, abbandonando il malumore.

«Sì, mia sorella ha pensato che viaggiare, soprattutto in questo tragico periodo, possa aiutare la mamma a superarlo con più facilità», replicai, imitandola. «Sono dell'idea che anche a Micol faccia bene», volli aggiungere, «Sono stati anni difficili per tutte noi».

«E tu?», domandò ancora, precedendo uno starnuto fin troppo rumoroso.

«Salute. E io, cosa?», risposi di rimando, confusa.

La udii soffiarsi il naso: «Lo supererai con facilità? La temuta ricorrenza è oggi, e se non erro, non era un bel periodo neanche prima, quando ti lasciasti con...», allontanai la cornetta dall'orecchio destro quando intravidi Manfredi gesticolare fuori dalla vetrina con urgenza.

Tentava di richiamare la mia attenzione, indicando il cielo. «Scusa Emy, devo riattaccare. Ci sentiamo domani, va bene?», confermai, precipitandomi all'esterno.

«Va bene, ti voglio bene!», disse in tutta fretta.

«Anch'io, segnati questo numero in caso di emergenza, ciao», la salutai sbrigativa.

«Corri Edith, guarda che spettacolo!», esortò il mio amico, eccitato: «Recupero il cellulare dal caricatore, voglio provare a immortalare l'eclissi. Lo proporrei a te, ma il tuo telefonino preistorico non le fa», scherzò prima di correre dentro.

«Allora io ti aspetterò qui col mio preistorico Nokia 3310 e mi godrò il momento», lo derisi, estraendo e agitando il piccolo oggetto davanti al suo naso.

Non amavo la tecnologia, i social, e tutto ciò che ne derivava. Preferivo i libri e la piacevole compagnia dei bambini. Era tutto più facile, con loro.

Sollevai il capo, rivolgendo lo sguardo al cielo violaceo, e assistendo all'oscurarsi della luna piena. Il sole ne accarezzava i contorni luminosi solo in parte. Ed era bellissimo.

Bellissimo e crudele.

L'eclissi lunare rischiarò reminiscenze passate di un giovane uomo italo cileno.

La paralisi del mio sorriso divenne forzata e percepii gli angoli delle palpebre pizzicarmi. A volte faceva ancora male...

Odiose lacrime traditrici.

Mi sfregai gli occhi, distogliendo lo sguardo e rifiutandomi di emozionarmi: «Stupidi corpi celesti. Non illudetevi... tanto vi separerete di nuovo. È destino», mormorai appena, carica di sconforto. Indietreggiai di qualche passo, pronta a ignorare lo spettacolo astrale. Non avevo bisogno di assistere oltre. Prima che potessi rendermene conto però, urtai qualcuno alle spalle, e mi sfuggii il cellulare di mano, cadendo sull'asfalto con un tonfo secco.

«Perdona, estaba distraído», ascoltai una voce maschile e profonda dietro di me. Lo vidi raccogliere il telefonino grigio con una certa esitazione.

«Nessun problema, scusi lei», sussurrai in italiano, incerta del mio spagnolo. Mi scansai dal suo passaggio, tendendogli la mano sinistra: «Graz...».

Solo quando si sollevò di nuovo lo riconobbi.

E divenne tutto surreale.

DANTE

La cadenza di quella voce apparteneva a una sola persona.

Non era possibile.

Il mio cuore ebbe uno spasmo, stiracchiandosi all'interno del torace, come se palpitasse per la prima volta.

Impietrito, restai congelato dalla visione della ragazza minuta difronte a me. La sovrastavo di una ventina di centimetri, bella come il giorno in cui l'avevo lasciata tre anni prima. I lineamenti erano rimasti dolci e bambineschi, ma il taglio di capelli, più corto e spigliato, rimarcava lo sguardo spettacolare.

Fui folgorato dal ricordo della conversazione avuta in precedenza. Julio parlava di lei, prima.

Incrociò il mio sguardo sconvolto, trovandovi lo stesso sentimento: «Tu», mormorò appena, nel panico. Il tremore delle labbra fu esiguo, ma abbastanza forte da esser visibile.

Implorai il miracolo di una qualche assurda divinità religiosa, sperando potesse aiutarmi ad affrontarla. «Tu», modulai, adoperando il tono con cui si invocava una preghiera. Stringevo ancora il piccolo cellulare nella mancina con non poca difficoltà, incapace di porgerlo o di staccarle gli occhi di dosso.

Ero imprigionato, incatenato al suo sguardo spaurito e ancorato al vivido colore delle iridi, colmo di sfumature argentine ed emozioni contrastanti. Avrei potuto inabissarmici dentro.

Osservai una sconosciuta di cui conoscevo a memoria ogni cosa, soprattutto le sillabe che componevano il suo nome, eclissare ogni altro mio pensiero e preoccupazione momentanea.

Era lei.

E-di-th.

*Angolino dell'Autrice*

BAM!

Il prossimo capitolo lo posterò il 14 Febbraio, il giorno degli innamorati <3

Chissà cosa accadrà x)

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