Capitolo 40
DANTE
“Lasciami sciolte le mani
e il cuore, lasciami libero!
Lascia che le mie dita corrano
per i sentieri del tuo corpo.
La passione – sangue, fuoco, baci –
mi incendia a vampate tremule.”
Pablo Neruda fu un poeta d'altri tempi, un inguardabile romantico e un uomo speranzoso nei confronti dell'amore. Tutto quello a cui io avevo rinunciato da ragazzo. Affabile, passionale e irruento, ma non romantico, tantomeno innamorato.
Le delusioni ti cambiano, ma non ti fortificano.
Disilluso troppe volte dalle persone che amai per riservare ancora fiducia nel prossimo. Eppure, con lei fu diverso, scoprii un nuovo lato di me, un lato poetico, dolce e giocoso, quasi bambinesco, affine al suo. Eravamo la sfumatura dell'imbrunire quando il sole cala e la luna sorge. Il tramonto di un giorno perfetto.
Leccai il solco dei seni, strattonandola per la cintola dei jeans, sbottonati in precedenza, e provocandole ilarità, mentre percepivo il battito cardiaco, in risonanza col mio, sotto la cassa toracica. Non era mai abbastanza vicina, persino quando l'avevo addosso. Il sapore della pelle era un miscuglio di cocco e miele, ma anche di bimba.
Guagua.
Con tutta la delicatezza possibile le scostai le mani dai seni piccoli e sodi, ove spiccavano le aureole e i capezzoli rosa, un colore poco più chiaro della bocca. Baciai il contorno del destro, saggiandone la forma florida e giovane, terra inesplorata da nessun altro. La udii ridacchiare finché non lo presi tutto in bocca, succhiandone la carne morbida e calda.
Edith ansimò, inarcando la schiena mentre si aggrappava alle mie spalle; gesti involontari, dettati dalla passione e dalla frenesia del momento. Mulinai la lingua attorno a quel bottoncino turgido, addentandolo con delicatezza e tintinnandone le membra. Vagai con le dita lungo i fianchi snelli, tastandone la sinuosità. Quando sentii il suo petto sul punto di rottura, passai al seno sinistro, caldo quanto il primo. «Dante...» gemette lei, immergendo le dita della mancina nei miei capelli, premendomi la faccia contro. Il tono in cui pronunciava il mio nome e i lievi gemiti, sfuggiti in punta di labbra, accarezzavano le mie orecchie, spingendomi sempre più oltre. Assuefatto dalla sua voce, passai a leccargli il collo, salendo verso la mascella inclinata, sollevata verso l'alto, e mordendo il punto più sensibile, artigliandole il bacino quando le sue unghie graffiarono la pelle. Non aveva controllo, ed io rischiavo di perdere il mio.
Le sfuggì un suono sommesso che tacque all'istante, trattenendo il fiato. Fremere fra le mie braccia e bramando di più con occhi languidi, carichi di agognata attesa, fu la visione più eccitante. Mi sarebbe apparsa innocente anche sporca di perversione ed esperienze vissute. Le mordicchiai la mascella mentre le palpavo il seno destro con irruente trepidazione. Desideravo ascoltarla e supplicarmi. Supplicarmi di divorare la sua purezza a morsi, ma se avesse continuato a stuzzicare il mio appetito, l'avrei pregata io. In ginocchio. Avevo fame di Edith, dei suoi baci, delle sue carezze, dei suoi ansiti e della sua fica. Avevo fame della ragazza ingenua, dai grandi occhioni blu, impaurita dei night club affollati. «Non... Non respiro.» espirò a fatica, mordendosi il labbro inferiore e strizzando gli occhi per mantenere una concentrazione che vacillava ad ogni colpo di lingua.
Alitai al suo orecchio sinistro, mordendone appena il lobo e strappandole l'ultimo brandello di buon senso: «Lasciati andare...» le confidai.
Fu lei a guidare la mia mano destra oltre l'elastico del suo intimo, svelandomi quanto fosse peccaminosa nell'essere bagnata per me: «Ti voglio qui...» ansimò, riprendendo lunghe boccate d'aria fresca. Le guance bollenti e accese di passione: «Ti voglio qui, adesso.». Il tono di una bambina, il desiderio di una donna. «Per favore.» aggiunse infine ed io l'accontentai.
Le sfilai via, lungo le cosce lisce e con gesti bruschi, jeans e mutandine, ammirandone il profilo sinuoso, ingordo. Caddi in ginocchio non appena fu in piedi, davanti a me, sospingendola di nuovo contro la superficie del lavello e aggrappandomi ancora una volta ai suoi fianchi snelli. Il fulcro dell'odore femminile si concentrava tutto sulla vulva. Affondai la faccia in mezzo alle cosce, abbandonando ogni traccia di dolcezza, leccandole le pieghe carnose e sensibili, mentre si sosteneva per non crollare al suolo, allungandosi come un fuscello, uno di quelli piegati dal vento. Le gambe molli e il cuore in tumulto. Il suo sapore dolciastro ricordava quello di un frutto estivo, maturo, dalla polpa mesocarpa e succosa, vellutata quanto quella d'una pesca e di cui il succo scivolava con lentezza giù per la gola.
Edith buttò indietro la testa, versificando dei lamenti sommessi, supplichevoli, e puntellandosi coi gomiti sul ripiano. I capelli in disordine e una lacrima di bava colare lungo il mento. Confidarle che fosse bellissima sarebbe stato riduttivo e banale, così la venerai a modo mio, penetrandole la fica con lingua. Guidai la coscia destra sopra la mia spalla e tentai di tenerla ferma, nutrendomi del suo nettare, eccitazione liquida, intanto che il suo corpo, squassato dai sussulti, soffocava i singhiozzi in tumulto. Vicina all'orgasmo, continuai a limonare il clitoride, affondando il naso nelle grandi labbra, viscose di miele, e proseguendo a donarle piacere con la lingua, senza concederle un attimo di riposo. La scarica sottocutanea investì anche me mentre ondate di calore lambivano il suo ventre piatto. La vulva si contrasse, pulsante, e la linfa divenne più dolce. Lei mi venne in bocca, ansante e senza voce, scossa da profondi respiri per riprendere fiato.
Ed era soltanto l'inizio.
Lo sforzo le aveva consumato molte energie, faticando a restare in piedi. Mi rialzai con tutta calma, scalando ogni anfratto, forma e pienezza appartenutale, torreggiando sulla sua esile figura, stremata. Ebra dagli effetti dell'orgasmo e bella quanto un giorno di vacanza, la baciai. Le labbra imbevute del suo nettare e le mani a raccogliere la cascata castana, chioma folta e setosa. Nonostante bruciasse quanto me, percepii il tocco gelido delle punte delle dita sul viso, approfondendo il nostro contatto con la dolcezza che la caratterizzava. La sua passione era delicata, la mia per niente. Non mi saziavo con un assaggio; ne avrei goduto fino a farne indigestione. La voltai di schiena, premendola d'impeto contro il ripiano del mobile, in modo tale che potesse specchiarsi: «Inarca la schiena.» sussurrai in maniera gutturale, raddrizzandole la spalla sinistra ed estraendo, con la mano destra, il goldone infilato nella tasca posteriore dei jeans. Strappai l'involucro coi denti dopo essermi sbottonato la cintola: «E divarica le cosce.» mormorai in seguito, cupo e con urgenza. Osservò il mio riflesso con occhi sgranati e libidinosi, assecondando le mie parole, stordita e frastornata.
«Dante...» mugugnò appena, incerta, ma non era più tempo di spiegazioni, poesia e tentannamenti. Srotolai il preservativo su tutta la lunghezza del fallo eretto, cosciente che mi stesse guardando attraverso lo specchio. Il connubio delle nostre figure, intrecciate in un'unica astratta sagoma, assumeva una bella forma.
«Ammira quanto sei bella.» mormorai più a me stesso che alla mia interlocutrice. La visione del suo fondoschiena, a forma di cuore, risvegliava un appetito insaziabile, un fuoco incessante, una brama travolgente. Da commetterci ogni genere di peccato. Le palpai una chiappa tonda e soda, risalendo fino ad accarezzarle l'osso sinistro del bacino: «Rilassati, altrimenti rischio di farti più male di quanto dovrebbe.» bisbigliai all'orecchio, mentre sfregavo il glande contro la vagina. Lei si tenne alla specchiera; la mancina, ben aperta, premuta sulla superficie lucida. L'alone di fiato ad appannare l'espressione sconvolta e le fusa di ansiti leggeri che ben presto divennero gemiti sempre più forti ad ogni mia spinta, schiocco di sesso e respiri smorzati.
***
I raggi del sole tinsero le pareti della camera da letto d'arancio accesso, sondando il vuoto che la colmava. Osservavo i nastri di luce senza vederne davvero l'intensità. Avevo trascorso quattro ore d'intimità con la mia bellissima Edith, e adesso, stesi sul materasso, nudi e ancora avvinghiati, avvinti dai desideri reciproci e confidenze sottintese, le coccolavo la nuca con gesti pigri e misurati, godendomi il profumo di cocco e miele dei suoi capelli. Per un unico e idilliaco istante, mi sentii felice. Venerato. Il suo unico Dio.
La sentii muoversi su di me: «Presto sarà buio e la realtà calerà con la notte.» commentò preoccupata, rannicchiandosi contro il mio petto. Parve una bambina intimorita e per quanto avesse ragione, mi si strinse il cuore. Avrei voluto dirle che non mi importava, finché lei era con me, tutta la stanza splendeva a giorno, di quel nostro tramonto, vibrante. Fu allora che maturai un pensiero. Una meditazione avvilente... Commisi un terribile sbaglio. Con lei, non avevo condiviso solo il mio corpo, ma anche l'anima. E questo, questo mi terrorizzò a morte.
*Angolino dell'Autrice*
Ho la netta sensazione che Pretty Man farà una qualche stronz*ta...
Come ho già scritto su Instagram (autricenotturna) l'anima di Pablo Neruda e quella di Dante sono affini <3 C'è una linea netta che separa porno e nudo, erotismo e oscenità. Il mio scopo è di riuscire a suscitare, oltre all'imbarazzo, la curiosità di scoprire tutte le facce dell'amore che ho sperimentato, sperando di scriverle al meglio. Da questo capitolo in poi il sole cala e la luna sorge, la natura del testo sarà più esplicita e un po' più cupa, perché a differenza del porno e del nudo, la linea che separa passione e dolore è fin troppo sottile.
Sì, ogni tanto sono seria xD
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