Capitolo 27
DANTE
Pablo Neruda scrisse: “Chissà se un giorno, guardando negli occhi di chi ti avrà dopo di me cercherai qualcosa che mi appartiene.”. Perché lui già lo sapeva. Sapeva che le persone se ne andavano; cercavano delle scorciatoie piuttosto che proseguire su un lungo sentiero impervio. L'abbandono era facile, semplice. Nessuno vorrebbe le complicazioni e le problematiche di un rapporto o una situazione conflittuale. Andarsene all'improvviso non implicava sforzi, né sentimenti... Restare e affrontare una situazione complessa o un problema, era più difficile. L'estremo sforzo sarebbe immedesimarsi nell'altro. Io però non l'avrei mai chiesto. Mi sarei accontentato di camminarti fianco a fianco, mano nella mano, guardando nella stessa direzione lungo quel sentiero impervio.
***
«Sei sicuro di voler ballare stasera? Non sembri molto in forma, amico.» richiamò il mio interesse Alex, l'alto e imponente nordico, reincarnazione del dio norreno e di cui portava il soprannome. Il tono timoroso stonava con la stazza massiccia, ma lui si preoccupava troppo, al punto che alle volte ricordava una mammina apprensiva che Thor, figlio di Odino.
Lo spogliatoio anonimo e spartano, vecchio compagno di innumerevoli serate, aveva assunto un aspetto diverso quella notte. Mi sforzai di sorridergli e indossai un elmetto giallo, da pompiere, mentre Bollywood si avvicinava a noi con sguardo rattristato. Persino Nico e Ken avevano smesso di chiacchiere fra loro per rivolgere le attenzioni a me. Nessuno era intento a cambiarsi, assumendo le vesti dei vigili del fuoco, se non io. L'unico stronzo che pensava a lavoro mentre i miei colleghi mi compiangevano.
Madre De Dios... Qué pucha!
Madre di Dio... Che diamine!
Sospirai. Questa storia stava sfiorando il ridicolo: «Ragazzi... Sto bene, okay? Lei non è stata la prima e di sicuro non sarà l'ultima a sparire. Se ha voluto gettarmi via, come un qualsiasi fazzoletto usa e getta, senza volersi assumere nessuna responsabilità sul parlarmi o darmi una qualche spiegazione, è un problema suo non mio. Intesi?» chiarii in seguito, continuando a denudarmi della maglia civile. Infilai gli stivali neri sopra l'orlo dei pantaloni larghi, di un colore improponibile, stando inginocchiato al suolo. L'accostamento di nero e giallo fluo, era qualcosa di stomachevole... O forse era solo l'argomento tirato in ballo ad esserlo.
«Sì, certo... Però... Ci sembrava che ci tenessi a Edith.» aggiunse Samir col suo buffo accento indiano.
Sentire il suo nome faceva male. Rappresentava l'ennesima persona che se ne andava...
«Sì, infatti. Pensavamo addirittura che questo weekend non saresti nemmeno partito per Wellcum*, in Austria, per starle vicino.».
Ma che diavolo avevano tutti?!
Mi sfregai la faccia. L'irrefrenabile impulso di spaccare qualcosa mi faceva prudere le mani; esibirmi mi aiutava ad allentare la tensione e rilassarmi, evitare risse inutili, ma se avessi dato di matto in quell'istante, dubitavo che avrei ballato: «Le cose cambiano, Cupido.» liquidai il discorso mentre un sorriso affiorava dalle labbra: «E poi, non rinuncerei al tempio del sesso nemmeno mort...».
«Ispanico! Hai una visita... La ragazza dice che è urgente. Hai dieci minuti prima che inizi lo spettacolo.» mi avvisò all'improvviso il tecnico delle luci, attirando le occhiate di tutti.
Una visita?
Mi cavai l'oggetto di scena dalla testa, passandomi la mano libera fra i capelli e grattandomi la cute con fare dubbioso: «Forse ho dimenticato qualcosa nell'appartamento di Eva. Torno subito, intanto finite di prepararvi.» mormorai frastornato, nel vano tentativo di ricordare cosa avessi scordato. Ma non avevo dimenticato niente.
Mi diressi all'entrata secondaria, percorrendo un lungo corridoio che conduceva ad una porta di servizio, e mi bloccai. Mi bloccai all'istante.
Si parlava del diavolo...
«Ciao...» sorrise appena. Gli occhi argentei si animarono di quei luccichii che tanto amavo ed il viso le si animò di nuova luce. Mi squadrò da capo a piedi, arrossendo vistosamente: «Ti dona l'uniforme da pompiere.». Corrugai le sopracciglia, sofferente. Il tono dolce, melodico, della voce che tanto apprezzavo, si ridusse in tanti frantumi, affiliati e contundenti, che mi perforavano il petto. Piccole fitte di acuto dolore, mentale e fisico, mi punsero sul vivo. Fu troppo da sopportare in quel momento. Avevo bisogno di restare solo, di non vederla, perché provocava un miscuglio di sofferenza e angoscia, troppo immane da riuscire a gestire. Tornai indietro, lasciandola lì, sulla soglia, senza degnarla di una sola parola... Almeno ci provai. «No, aspetta! Dante... Ti prego, aspetta...» mi implorò la niña, inseguendomi.
«Aspettare? Aspettare cosa?! Aspettare chi?! Te...?» la derisi sarcastico. Mi tratteneva per il braccio destro, decisa a farmi perdere tempo, evidentemente.
«P-Posso spiegare...» balbettò. Lo sguardo sgranato e i bulbi oculari limpidi e liquidi, di chi tratteneva le lacrime.
Rimasi impassibile. «Non mi interessa.».
«Vorrei almeno chiederti scusa e...» il tono tremolò, come se fosse sul punto di spezzarsi.
Bene.
«Non mi interessa.».
«Ma...» provò ad insistere, ed io al quel punto divenni crudele.
«Sei diventata sorda, forse?! Non mi interessa.». Fui freddo e irremovibile: «Vattene via, in questo sei molto brava.» celiai con un finto sorriso.
«No, non me ne vado.» singhiozzò.
Detestavo ascoltare una donna frignare, ma forse odiavo solo lei e il suo pianto di coccodrillo: «Non dovresti essere qui, Edith. Abbiamo chiuso, ricordi? L'hai voluto tu. Torna pure a fare la santa maestrina e lasciami perdere.».
Mi trattenne ancora, insistendo: «No! Io voglio stare con te... Non mi importerà se mi spezzerai il cuore e sarò a pezzi. Esistono dolori inevitabili. Sofferenze che, prima o poi, tutti saranno destinatati ad affrontare; perché ne vale la pena! E tu, per me, vali la sofferenza.».
Lei parlava a me di dolore e sofferenza?! Non ci vidi più. Era troppo vicina... La spinsi contro la parete, inferocito. Bastò un tocco brusco per farlo; era minuta ed esile, sarebbe stato facile farle del male, ma non era nella mia natura essere violento - tranne quando diventavo furioso -: «Spezzarti il cuore? Ti senti quando parli?! Sei stata tu la prima a ferirmi ed io...».
«Dante, tocca a te...!» udì in lontananza.
Sei salva per miracolo... maestrina.
«Arrivo, arrivo.» annunciai, per poi posare ancora una volta lo sguardo su Edith. Uno sguardo che non ammetteva repliche. La vidi in lacrime, tremante ed era spaventata, ma non mi importava. «...Ed io non voglio concederti un'altra occasione per infliggermi altri colpi e rendermi ridicolo ai tuoi occhi.» puntualizzai, allontanandomi dal suo corpo lentamente. Dovevo riprendere a respirare aria pulita e non il profumo delicato di quella fragile ragazzina. «Ogni azione ha una conseguenza uguale o contraria, dovresti saperlo... maestrina.». Il modo in cui pronunciai “maestrina” fu quasi un insulto, ma vendicarmi era l'unico metodo che conoscessi per proteggermi. Infliggere il dolore subito a chi me l'aveva inflitto a propria volta, lo ritenevo un atto di giustizia personale.
Me ne andai, ignorando i suoi singhiozzi ed i lamenti. Per quel che mi riguardava poteva anche morirci nel corridoio.
*Angolino dell'Autrice*
C'è un po' di Dmitri in questo Dante...
*Wellcum: parola che significa "Buona sborr*ta". È un posto che esiste davvero ed è stato protagonista di un servizio de Le Iene.
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