IV - Post Himself - Abel
EHHHHHHHH BUON COMPLEANNOOO ABEEELLLLLL
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NO, NON CE LA FACCIO A CALMARMI AIUT
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Diluviava.
Era ormai il pomeriggio inoltrato di quella giornata passata in biblioteca, e Abel ha dovuto correre sotto la pioggia per cercare di arrivare a casa meno fradicio possibile. Quand'era uscito, quella mattina, non c'era neanche l'ombra di mezza nuvola in cielo!
Una volta varcata la soglia, s'è concesso un gran sospiro di sollievo. Il suo cagnolino è venuto a fargli le feste, ma per la prima volta non l'ha preso in braccio: l'unico pensiero che riusciva a formulare la sua testa infreddolita era cosa mettersi. E dopo aver optato per il solito pigiama e le pantofole, s'è diretto a mettere la caffettiera sul fuoco.
Rabbrividendo è tornato in sala: la sua libreria attendeva d'essere scandagliata per bene, in attesa di rivelare il testo che era riuscito a convincerlo ad uscire dalla biblioteca. Metà cervello era intenta nella ricerca, mentre l'altra rifletteva senza sosta sulla necessità di accendere la stufa, accompagnando tali osservazioni con un bisogno irrefrenabile di strofinare le mani e stringersi nelle braccia.
Rasserenato dai rumori di sottofondo, il ronfare del cagnolino e le gocce di pioggia contro le finestre e sul vialetto di casa, il ragazzo si è rilassato un poco. Abbastanza da smetterla di stropicciarsi le mani e portarne una sotto il mento, in segno esteriore dello sforzo intellettuale di trovare quel maledetto libro del quale, per una strana combinazione, il sistema bibliotecario era sfornito.
Non è riuscito a trovarlo. Il campanello, infatti, l'ha distratto prima ancora che giungesse a leggere i titoli di metà di quella libreria, prima ancora che il caffè salisse.
Si è diretto alla porta strisciando le pantofole; non aveva idea di chi potesse volerlo in quel giorno preciso, e in più era un'autentica fortuna che fosse in casa, perché anche solo dieci minuti prima non l'avrebbero trovato.
Ha usato lo spioncino per capire se la sua mise fosse poi tanto inadatta ad accogliere un potenziale ospite, e l'età del visitatore ha fatto sì che si sbrigasse a spalancare l'uscio.
Si trattava di un bimbo, completamente fradicio di pioggia nonostante il grosso ombrello che sorreggeva con entrambe le mani e curvo sotto il peso di un grosso zaino sulle spalle. Batteva i denti e aveva il naso rosso per il freddo.
«Mi spiace disturbarla» ha esordito il giovane, puntando un audace sguardo in direzione di Abel e facendosi appresso alla porta per chiudere l'ombrello. Una volta compiuta questa operazione, resa estremamente complessa dalla dimensione dell'aggeggio, il fanciullo s'è soffiato sulle mani ed ha ripreso a parlare. «Mio z... Un tizio, cioè un signore, mi ha chiesto di consegnarle questo». Ha puntato il pollice allo zaino che aveva con sé.
«Sei molto gentile» ha replicato Abel, sorpreso, dopo qualche momento. Il suo cagnolino nel frattempo aveva appoggiato le zampine anteriori sugli stinchi del ragazzo, in cerca sia di carezze sia della possibilità di annusarlo meglio.
Sembrava qualcuno di normale, ha concluso il padrone di casa tra sé e sé.
«Mi avanza un po' di marmellata e un panino. Se hai un attimo di tempo possiamo fare merenda insieme: penso che dopo un viaggio come quello che hai dovuto affrontare, ti sia meritato qualcosa di caldo e una seggiola».
«Oh, sì, grazie!!»
Sorridendo, il biondo ha preso l'ombrello dell'inatteso ospite e gli ha fatto strada alla poltrona che aveva sistemato di fronte al caminetto, che s'è per inciso dovuto sbrigare ad accendere.
Presa la marmellata dalla dispensa, farcito il pane e spento il fornello del caffè, si è accomodato di fronte al giovane.
«Non è una buona giornata per un giro in città. Abiti lontano?» Ha chiesto, porgendogli il panino che guardava con occhi imploranti.
«No, signore.» Ha subito preso un morso, e ha continuato a parlare anche con la bocca piena. «Però sono dovuto passare dallo z... Ehm, a prendere il pacco da consegnare. Ah! Ecco, tenga. Mi ha detto-- Il signore che lo manda, lui ha detto che era importante farglielo avere in fretta.» Appoggiata la merenda sulle ginocchia, ha aperto lo zaino e ne ha estratto un pacchetto rettangolare, delle dimensioni di un foglio A4 e alto circa due dita.
«Bhe, sarà il caso che io lo apra subito, allora.» Il destinatario s'è alzato con un piccolo balzo, è andato a prendere le forbici in cucina e ne ha approfittato per versarsi il caffè e per portare del latte caldo all'ospite. Tornando in salotto, l'ha trovato intento a coccolare il suo cagnolino, il panino misteriosamente scomparso.
«Vediamo un po' cosa quel signore voleva che io avessi.» Gli era entrata in circolo un po' di adrenalina: chi poteva usare un bimbo come corriere in una giornata così inclemente? Chi voleva costringerlo a qualcosa, o chi aveva troppa paura per affrontarlo di persona e stava cercando di fare leva su altri sentimenti in lui che il rispetto, al fine d'essere ascoltato.
Comunque, era troppo curioso per prendere in considerazione tutto ciò di cui poteva trattarsi: una volta aperta la scatola ne ha velocemente estratto un parallelepipedo incartato ad arte, che ha nuovamente scartato con le sopracciglia aggrottate. Ed ecco: una cornice, ecco cos'era. Sotto il vetro tutto opaco c'era della tela aida ricamata a punto croce fin nell'angolo più remoto: un'operazione immane, esagerata, che l'ha letteralmente trasportato altrove.
«Che bravo! Figliolo, ti sei superato! Questo si merita una cornicetta, non credi, caro?»
L'udito è stato il primo senso ad essere sottratto al presente, ed è stato seguito a ruota dalla vista. Un muro bianco, la testata d'un letto di metallo dorato, e quel quadretto appeso. Il soggetto che ci aveva ricamato lui stesso in una "vita precedente" era puro virtuosismo: rappresentava la facciata di chissà quale chiesa, con tanto di rosone e portone di legno.
Si dice che i sogni non siano mai casuali, che non possiamo inventare nulla; è difficile crederci. Finché, almeno, non se ne vede uno, addirittura ricorrente, ricamato dalla propria mano su una tela della quale ogni ricordo era scomparso, insieme-- ecco, insieme a tutto il resto.
Il biondo ha chiuso ancora gli occhi, nella speranza di ritornare al passato; dietro le palpebre, tuttavia, rimaneva solo il buio.
Ha avvertito qualcosa spezzarsi, dentro di lui. Quelle voci erano appartenute alla sua famiglia: allora ne aveva avuta una! Al contempo, però, l'impressione di distanza di quei tempi rispetto al presente a cui era ancorato lo aveva riempito di amarezza.
Ha potuto contenersi dallo scoppiare in lacrime solo grazie alla presenza del bambino, che giocava ancora rumorosamente con il suo cane. Si è sforzato di sorridere davanti alla tenerezza della scena alla quale si trovava ad assistere.
«Non hai famiglia, ragazzo? Forse è giunta l'ora che tu torni da loro.»
«Vero! Lo zio si starà preoccupando.» Si è chinato ed ha dato un bacino alla bestiola. «Lei, signore, sembra spaventoso, ma è tanto gentile e ha un cagnolino tenerissimo. A proposito, come si chiama?»
Abel ha sentito il cuore scaldarsi per le parole sincere e dolci che solo un bambino come lui avrebbe mai potuto rivolgergli, e ha riposto alla questione con un tono di voce molto più sciolto rispetto alla fatica evidente che gli era servita per pronunciare la frase precedente.
«Gliel'ho chiesto tante volte, ma lui non se lo ricorda.»
«Forse dovrebbe inventarlo, allora! Secondo me Bonbon sarebbe adatto, perché è piccolo e zuccheroso come una caramella. O anche Cioccolato, perché mi piacciono tanto entrambi!»
«Ma è bianco» ha fatto notare l'uomo, ridendo sotto i baffi.
«Bhe', esiste anche il cioccolato bianco, però non l'ho mai provato e magari non è buono come quello normale.» Si è zittito per un poco, pensieroso. «Comunque sia, questo cane è suo e quindi dovrebbe trovargli un nome che piaccia a lei! Cosa le piace?»
Hanno discusso di Fei Long e dei suoi film, la passione di Abel, per un pochino. Poi il bambino s'è messo il cappotto ed è ritornato a casa, senza omettere la promessa di tornare presto a trovarlo.
A questo punto, e finalmente, l'uomo non ha più avuto bisogno di contenersi: anche se non aveva finito di piovere, non ha potuto evitare di andare in cerca della facciata raffigurata su quel quadretto che tanto aveva da dire e che lui così poco comprendeva.
Eccolo affrettarsi per la via, il tempo necessario a vestirsi dopo, col cane al seguito e un berretto appoggiato sulla testa scompostamente; era concentrato sulle facciate delle case tanto da inciampare in due tombini di fila. Sembrava... Anzi, che dico: era proprio fuori di sé. Gli edifici che scorrevano davanti ai suoi occhi, sotto il cielo plumbeo, erano schifosamente uguali e anonimi, ma il rosone del quadretto gli aveva dato una speranza tangibile. Doveva essere la chiesa del quartiere in cui era cresciuto!
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«Ed ora..?»
Immobile, col naso all'insù e le labbra semichiuse, il biondo fissava quel rosone così familiare e sconosciuto al contempo. La facciata era decisamente quella, ci era voluto tutto il giorno per trovarla ma - con la luce dei soli lampioni a illuminare - l'aveva proprio davanti a sé. Non sapeva come procedere, tuttavia: il motivo per il quale aveva letteralmente combattuto fino a quel momento, forse addirittura vissuto, poteva essere a un passo dall'essere raggiunto. Ma non sapeva in che direzione voltarsi per compierlo! La piazza in cui si trovava era circolare e relativamente piccola, ma congiungeva una dozzina di vie che correvano a loro volta verso altri punti di incontro e bivi. Est? Ovest? Tutto sembrava uguale, privo di messaggi e silenzioso.
Solo il cagnolino ha potuto risvegliarlo dal torpore intellettuale in cui era sprofondato.
Si era rintanato, stanchissimo, dentro la sua maglia; e dopo aver dormito per un bel pezzo, ora era più sveglio che mai. È saltato a terra e ha guidato il suo padrone fino a casa, fermata dopo fermata, e una volta in salotto ha preso posto sulle sue gambe come un gatto viziato.
Abel continuava a ragionare, ragionare a vuoto. Che cosa poteva significare quel rosone, quella chiesa?
Ci è tornato almeno una dozzina di volte, nei giorni successivi. Non sapeva in cerca di cosa, ma andava fino a là; ci rimaneva almeno dieci minuti; e poi tornava a casa.
Attendeva un ricordo, un'illuminazione, o anche il mittente del quadretto. Attendeva un segno che, finalmente, le sue speranze si sarebbero esaudite, e che non stesse solo sprecando la solita quantità di forze per nulla. Ma se avesse fatto qualche calcolo oggettivo, si sarebbe accorto che probabilmente il mittente ignorava che quel ricamo era la semplificazione di quella chiesa specifica.
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«Abel!»
L'emozione di sentirsi chiamare in un momento e un luogo simili gli ha fatto leggermente girare la testa. Aveva perso il conto - non che l'avesse mai tenuto - delle volte che s'era recato in quella piazza, ormai. La sua speranza aveva sempre lo stesso vigore, contro ogni logica: e finalmente, con quella parola che una voce familiare aveva urlato, acquistava un senso.
Sì, conosceva quella voce: era quella di Paul, il bambino che gli aveva consegnato la cornicetta. S'è quindi voltato, sorridendo, in direzione del sole basso che stava proprio alle spalle del giovane, mano nella mano con un signore che al momento pareva solo una filiforme sagoma nera dal passo incerto. Ha atteso di potersi spostare, e ha studiato il signore che accompagnava il suo piccolo amico per qualche attimo. La fronte spaziosa era circondata da radi capelli nerissimi, simili ai peli della barba mal fatta che ne pareva la continuazione naturale. Aveva un colorito pallidissimo, degli abiti di colori improponibili e sbiaditi, e ai piedi portava sandali identici a quelli indossati dai frati francescani - quando San Francesco era ancora in vita. Si muoveva lentamente ma con movimenti così ampi che la velocità di spostamento era quasi nella norma: pareva una strana apparizione, un fantasma.
«Questo qui è mio zio, Georges!» Paul ha spezzato il silenzio con la leggerezza propria della sua età. Ha iniziato presentando chi lo accompagnava, e poi ha provato a fare lo stesso con il suo "amico": «Lui--»
«Sei proprio tu... Abel» Lo zio l'ha fermato. Sembrava allucinato, più del solito, e ha pronunciato queste parole come durante il sonno, ignorando qualsiasi altra cosa. L'amnesico ha annuito, indietreggiando: il suo nome era una delle poche cose sulle quali non nutriva dubbi.
«Zio! Ti stavo per dire che questo signore è quello che mi ha offerto la merenda e che aveva quel cane così coccoloso! Per forza che è lui, mica ce ne sono tanti di Abel come lui»
«È molto bello rivederti, Paul» ha detto l'uomo, sforzandosi di togliere gli occhi da quel suo strano parente. Il bambino aveva tralasciato il motivo per il quale si erano conosciuti, come se ne fosse stato inconsapevole. Non sapeva, o fingeva di non sapere, che lo zio aveva la forte impressione di conoscere quel concittadino ch'era comparso per le strade non troppo tempo addietro. E sostenendo il gioco, Abel ha ignorato la curiosa familiarità che lo "zio" gli ispirava, e il fatto che molto probabilmente era suo il merito di quella visita. Ha rivolto al silenzioso sconosciuto un sorriso dolce, incoraggiante, solare - il tipo di sorriso che solo lui ha sempre saputo fare.
Georges ha sentito il cuore riempirsi d'un sentimento indescrivibile. Quel viso, quella voce che riudiva per la prima volta, quel sorriso che lo aveva riportato indietro nel tempo e nella memoria: era lui, era lui e su questo non resisteva il minimo dubbio.
Ma aveva un fisico sovrannaturale. Dov'era stato fino a quel momento? Cosa gli era stato fatto? Non pareva riconoscerlo, per davvero. Ma la loro amicizia... Per Georges, era parte di quel tipo di amicizie che il tempo non può eliminare. Sentiva un gran bisogno di piangere, di stringere il suo vecchio amico tra le braccia; ma temeva che così facendo l'avrebbe trovato di plastica - una finzione, una bambola, un'altra creatura della sua mente.
«Georges... Non ti ricordi di me? Il mio nome non ti suggerisce nulla?»
Il biondo è parso vergognarsi, per un attimo. S'è guardato le mani, ha ingoiato la saliva, e poi ha puntato gli occhi dritti nei suoi.
«Non so nulla del mio passato, signor Georges» ha ammesso infine, con freddezza e sincerità. «Non so chi sono o da dove vengo, lo presumo ma non posso affermarlo con sicurezza. Pare che esista un modo per lavare il cervello alle persone: ci sono finito dentro.» Gli occhi del moro si sono spalancati - aveva avuto modo di sentire parlare dell'organizzazione criminale chiamata Shadaloo, e finalmente tutto tornava. L'incubo della sua esistenza intera si è stracciato: la gioia del ritrovamento s'è mescolata alla disperazione della consapevolezza, certamente parziale, di cos'era successo durante il tempo della distanza. E queste emozioni l'hanno tolto dalla calma inquietante entro cui viveva sin dall'ultima volta che l'aveva visto, da quel castello che s'era costruito per continuare. S'è sentito debole, incapace di sopportare un avvenimento così grande, del quale non si sentiva affatto degno. Ha finalmente avvertito la sua condizione di malato, reso di nuovo del tutto vivo da qualcosa di più grande di lui - il destino - senza curarsi del fatto che il malato era sempre stato un altro: la causa di tutto questo, il fantasma che aveva di fronte e che senza saperlo lo aveva reso tale a sua volta, sin da quel giorno fatale, per tutta la vita e per tutte le persone che gli erano vicine e che conosceva.
«Comunque sono sopravvissuto. E sono finito qui a Marsiglia per caso.» Quella voce è riuscita a riportarlo alla realtà, ancora una volta.
«Tutti i santi del cielo...» Come timoroso, Georges ha abbassato la voce. Fuori di sé, ha afferrato le mani dell'amico ritrovato, sussultando al tocco di una carne così calda, così viva... Al contrario della sua. «Ho sempre atteso la morte, pensando che tu fossi con lei. E invece eri qui, e io attendevo la cosa sbagliata.»
«Io...»
«Non dire nulla. Quei giorni non torneranno mai. Ma il loro ricordo... Quello merita di rimanere, quello è il senso di tutto l'Universo.»
Mantenendo quel bruciante contatto fisico, Georges ha svuotato la mente di tutte le immagini che l'affollavano, ha rievocato l'infanzia e la gioventù felici, normali fino al giorno in cui il suo migliore amico... Era scomparso. Inspiegabilmente. All'età di soli ventun anni.
«Aveva litigato, un paio di giorni prima, con una specie di verme... Che per non vedersi incolpare, ha coperto il suo buon nome di fango. Ha convinto tutti che conducesse una doppia vita, lui, così pacifico e gentile: e che stanco di sostenere quella doppiezza se ne sia del tutto privato. I suoi genitori sono morti di dolore. E ci sono andato tanto vicino anch'io.»
Si sono guardati con intensità. Le parole parevano finite, come sfornite ormai di ogni significato: c'erano tante cose da dire, ancora, ma non era più luogo né momento.
«Bentornato.»
***
Letteralmente il capitolo più lungo della mia vita!! Forse dopo questo riuscirò a smetterla di importunare Abel (IL FESTEGGIATO DI OGGY) con i miei racconti?! Ne dubito.
P.s. Non penso che si sappia cos'è il POSTUMANO, ma in qualche modo qui ho voluto provare a connettere quel tipo di concezione al mio futuro marito (che forse è uno dei personaggi tra i meno postumani di SF, ma che mantiene qualche legame con un tale genere di idee). Spero che sia quantomeno un pochino inquietante, perché così è sia la storia di Abel sia l'arte postumana. E basta, ora giuro che la smetto!
P.p.s. Grazie di sopportarmi. Anche se probabilmente sto ringraziando solo me stessa, perché nessuno mi legge. xD
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