"Zie Ad e Lea, centro di supporto per adolescenti in crisi ormonale".

To my star-crossed soulmate (Bromance>>>>)

Happy birthday BeNNyFeR_21

Keith non si ricordava quando fosse stata l'ultima volta che era filato a casa subito dopo gli allenamenti, perché non si ricordava l'ultima volta in cui non aveva desiderato prendere a pugni la faccia di qualcuno.
Colpì una seconda volta il sacco davanti a lui, ignorando le nocche che cominciavano a farsi doloranti e scostandosi dalla faccia una ciocca ribelle, che era sfuggita alla coda.
Quel giorno il suo qualcuno era nientemeno che quella testa di cazzo di James Griffin. Sembrava che il ragazzo vivesse per rendergli la vita insopportabile, il motivo che però lo spingeva a comportarsi in tale maniera era sconosciuto al corvino.
Diede un altro colpo al suo inerme avversario, più forte, facendosi scappare un grugnito strozzato di dolore.

La Garrison vantava della più vasta scelta di attività sportive extrascolastiche, infatti il liceo ci teneva ad avere il primato in tutti i rami possibili, offrendo alle università più prestigiose gli atleti migliori ed incrementando la propria fama.
C'era la squadra di atletica, di nuoto, di softball, di football, di lacrosse ed altri sport individuali, come appunto la boxe.
Keith si aggrappò affaticato al sacco di finta pelle rossa, cercando di riprendere fiato.
Con tutti gli sport che avrebbe potuto scegliere, James aveva deciso di seguirlo agli allenamenti di boxe per dargli il tormento, e questa cosa lo stava facendo impazzire.

«Wow».
Il corvino si irrigidì al suono di quella voce e prese un altro paio di respiri profondi prima di alzare la testa.
Un ragazzo seduto sulle tribune a gambe incrociate lo osservava con un sopracciglio inarcato, mentre accanto a lui era appoggiata una borsa blu con lo stemma della scuola.
«È tua abitudine spiare le persone?» domandò, dopo essersi schiarito la voce perché non fosse rauca.
Si chiese interiormente come avesse fatto a non notarlo prima, dopotutto si allenava ridicolmente vicino agli spalti da quasi un'ora.

Il castano arricciò il naso e gli rivolse un sorriso.
«Prima di tutto, io non ti stavo spiando. Non è colpa mia se i miei amici sono in ritardo e tu sei nell'unico posto dove mi andava di aspettarli» si difese, piegando la testa di lato e squadrandolo esplicitamente da capo a piedi. «Ma non fraintendetemi, mi piace quello che vedo».
Keith alzò gli occhi al cielo e riprese la posizione di poco prima, pronto ad attaccare l'ipotetica faccia di Griffin sul sacco rosso.

Lui e quel ragazzo si erano incrociati solo un paio di volte per i corridoi della scuola, ma non si erano mai parlati prima di quel giorno: al corvino sarebbe decisamente andato bene risparmiarsi la sua conoscenza, o almeno era quello che pensava.
Colpì una, due, tre volte il suo avversario inanimato con le nocche della mano destra, per poi piegarsi di fianco e mollargli un calcio poderoso.
«Devi avere un sacco di rabbia repressa, hermoso» commentò il castano, segnalando a Keith che si era alzato in piedi e gli si era avvicinato, tenendo le mani nelle tasche della felpa.
Il più grande si interruppe e gli lanciò un'occhiataccia. «Dimmi un po', non riesci proprio a farti gli affari tuoi?»

Quello ora si era messo dietro al sacco da boxe e faceva spuntare la testa sul lato sinistro di questo. «Mi piace sapere un po' tutto di tutti, è vero».
Keith diede un pugno al sacco ed il ragazzo fece sporgere il viso sul lato opposto al precedente. «Immagini di colpire qualcuno?»
«In questo momento non mi dispiacerebbe colpire te, sì» gli rispose aspramente, lasciando definitivamente cadere le braccia doloranti lungo i suoi fianchi.
L'altro mise un falso broncio e lo guardò intristito.
«Che peccato, e io che volevo chiederti di uscire» si lamentò, appendendosi alla cima del sacco da boxe. «Il nome è Lance McClain, comunque».

«McClain, huh?» ripeté il corvino, dandogli le spalle per raggiungere l'asciugamano sulla panchina. «E sentiamo, perché vorresti chiedere a uno sconosciuto di uscire?»
Credeva di zittirlo per qualche secondo, in modo da avere finalmente un vantaggio o perlomeno un po' di pace. Non gli piacevano le persone rumorose, si sentiva sempre come se cercassero di riempire tutto lo spazio vuoto attorno a loro con la loro voce, non lasciandone abbastanza per gli altri.
Affondò la faccia nel panno che aveva messo sulla panca di legno e si asciugò l'attaccatura dei capelli, sentendo un brivido lungo la schiena, ora che non si stava più sforzando.
«Perché sei carino, ovviamente» rispose subito Lance, la sua voce proveniente dal punto in cui l'aveva lasciato. «E perché sei single».

Keith aggrottò le sopracciglia, sorpreso.
Questa poi, di certo non se lo aspettava. Davvero Lance McClain, capitano della squadra di nuoto della scuola, aveva finito per scegliere proprio lui come sua ennesima vittima?
«E cosa ti dice che io sia single?» gli chiese di rimando, non proprio per stare al gioco ma per riuscire ad avere una breccia nella conversazione, in modo da scorgere il suo punto debole e zittirlo con un commento tagliente.
Si voltò verso il castano e vide che gli stava sorridendo, genuinamente, come se fosse sinceramente a suo agio in quello scambio di battute.
«Perché invece che uscire da scuola per vederti con la tua persona speciale sei rimasto qui anche a allenamento finito, e perché se questa persona speciale esistesse di certo sarebbe qui a godersi lo spettacolo» disse, giocherallo distrattamente con il lembo della sua felpa. «A proposito, ti alleni sempre senza maglietta?»

Keith conosceva perfettamente la fama di Lance McClain, e di certo non aveva intenzione di dare corda a un ragazzo del genere.
Sapeva che non era un cattivo ragazzo o un superficiale che usava le persone per divertimento, ma i suoi sentimenti erano inaffidabili.
Lance si innamorava troppo facilmente di chiunque, contro la sua volontà e ogni senso del pudore, ed altrettanto facilmente perdeva interesse, soprattutto dopo aver conquistato la propria preda.
Cercava di essere gentile e rispettoso ogni volta facendo del suo meglio per non ferire nessuno, ma nonostante ogni ragazzo o ragazza uscito con lui potesse elogiarlo per il suo cuore sincero, essere piantati con così tanta leggerezza faceva sempre male.
E a Keith non piaceva essere preso con leggerezza.
Come se potesse avere una chance, comunque, pensò.

«Mettiti il cuore in pace, non sei esattamente il mio tipo» replicò, rivolgendogli un sorriso freddo.
«Quella del ragazzo tipo è una stronzata» osservò, scrollando le spalle e separandosi dal sacco da boxe per fare qualche passo verso di lui. «Non si nasce come il ragazzo tipo di qualcuno. Lo si diventa».
A Keith scappò una risata, suono che sembrò cogliere di sorpresa il più alto dei due.
«E tu credi di poter diventare il mio ragazzo tipo?» domandò, senza riuscire a cancellare il sorriso dal suo volto. Era incredibile quanto quel ragazzo fosse sicuro di sé, rendeva il tutto talmente inverosimile che il corvino cominciava veramente a essere divertito dalla situazione. Possibile che nessuno avesse mai detto di no a quegli occhioni blu?

«Quindi sai sorridere» constatò, ammorbidendo visibilmente la sua espressione. «E comunque sì, certo che potrei».
«Mh, non credo» ribatté, prendendo la maglietta da dentro la borsa rossa. «Sono molto esigente».
Lance si sbilanciò leggermente in avanti nell'entusiasmo, sempre tenendo le mani all'interno delle tasche della felpa. «Quindi mi darai una possibilità?»
Improvvisamente il gioco non piaceva per nulla al più basso, infatti si era reso conto di quanto il viso del castano fosse vicino al suo.
Se si fosse sforzato appena avrebbe potuto contare le lentiggini sbiadite sul suo naso o le pagliuzze verdi nelle sue iridi, ma i suoi sensi erano leggermente intorpiditi dal profumo di cannella mischiato al cloro della piscina che il ragazzo emanava.
Distolse lo sguardo e voltò il capo, leggermente imbarazzato.

«Ovviamente no» rispose, facendo un passo indietro quasi casualmente. «Non ho intenzione di essere il giocattolino di qualcuno, McClain».
L'espressione triste e delusa che comparve sul volto del castano era incredibilmente sincera, tuttavia non vi era alcun segno di resa.
«Sembro una persona così orribile?» chiese.
Keith, infilatosi la maglietta, indossò la felpa della scuola, senza rivolgere di nuovo lo sguardo al suo interlocutore. «No, è che sembri il tipo di persona distratta e inaffidabile che non chiede nemmeno il nome della persona con cui sta parlando».
Le labbra di Lance si piegarono una smorfia che l'altro non sarebbe riuscito a decifrare.
«Perché lo so già. Il misterioso ragazzo emo che viene sempre scelto dalla scuola come rappresentante nei campionati di boxe? Non passi esattamente inosservato» gli fece notare, con una nota di fastidio. «E poi non me l'avresti detto».

Il corvino si buttò la tracolla sulla spalla destra, aggiustandosi con una mano l'elastico che gli teneva in ordine i capelli.
«Probabilmente» ammise, prima di dargli le spalle e dirigersi verso l'uscita. «Addio, McClain».
«Verrò ad ogni tuo allenamento, Kogane, ti porterò dei frullati e ti ripeterò che hai un bellissimo sorriso» gli gridò l'altro mentre quello attraversava la porta della palestra che portava all'esterno. «È una promessa!»
Keith alzò la mano come gesto di saluto, senza voltarsi per non fare vedere il suo sorriso divertito. «Buona fortuna».

Una volta in cortile notò subito la macchina di Shiro parcheggiata lungo il marciapiede e si diresse verso questa, scuotendo la testa tra sé e sé.
La scena a cui aveva appena assistito era talmente inverosimile da farlo sentire quasi a disagio: perché mai, tra tutte le prede nella scuola, Lance McClain aveva dovuto scegliere proprio lui?
Francamente non dava molta importanza alle sue parole o al suo comportamento, come aveva già detto prima non era particolarmente interessato a diventare il giocattolo di qualcuno che avrebbe finito per smettere di interessarsi a lui dopo qualche settimana.
Ricordava quello che era successo con Nyma, il capo delle cheerleaders, e non gli sembrava possibile che una ragazza con una tale reputazione di fosse abbassata a simili cattiverie per colpa del castano.
Lei e il capitano della squadra di nuoto erano usciti insieme per quasi un mese, ovviamente con lui che pendeva dalle sue labbra come se fosse completamente perso per la bionda. E magari lo era, a modo suo, solo che fu lui a stancarsi, come al solito.
Eppure, dopo tutte le cattiverie che lei aveva messo in giro per vendetta nei suoi confronti, Lance era entrato in quella palestra solo due settimane dopo ed aveva spudoratamente flirtato con Keith, quasi come se non fosse mai successo nulla.
Come se non avesse un passato.

E io non ho intenzione di essere usato e poi dimenticato, no grazie, si disse, aprendo la portiera della macchina ed infilandosi al suo interno.
Si sistemò sul sedile dopo aver rivolto un rapido saluto al fratello, poi lottò con la sua borsa per riuscire ad allacciarsi la cintura senza soffocare nel tentativo.
D'un tratto ebbe la sensazione di essere osservato e si voltò verso Shiro, con fare interrogativo. «Che c'è?»
Il ragazzo gli rivolse un'occhiata affettuosa.
«Niente» rispose. «È solo che è da un po' che non ti vedevo sorridere così».
Il più giovane cancellò l'espressione suo suo viso accampando improvvisamente, borbottando un'imprecazione e girando la testa dall'altra parte.















Lance non era sicuro di quello che stava facendo, ma d'altronde non lo era mai.
Osservava con il fiato sospeso il ragazzo dai capelli lunghi mentre separava le labbra dalla cannuccia e si esibiva in una smorfia teatralmente pensosa, solo per il semplice piacere di torturare la povera anima del cubano.
«Allora?» chiese il ragazzo dalla felpa blu, mordendosi il labbro inferiore per il nervosismo.
Keith chiuse gli occhi per un secondo e poi gli porse il bicchiere, sollevando un angolo delle labbra.
«Papaya e menta? Disgustoso» decretò infine, rivolgendo i suoi occhi compiaciuti al castano. «È incredibile come tu riesca a sbagliare clamorosamente ogni volta».
Quello si lasciò andare in un lamento, coricandosi all'indietro afflitto.

Era poco più di una settimana che il ragazzo assisteva agli allenamenti post-scolastici del corvino, ovvero poco più di una settimana in cui ogni sua tattica era stata messa in gioco e in cui aveva speso quasi tutta la sua paghetta in frullati, cercando di indovinare i gusti prediletti dal pugile.
Inutile sottolineare che i suoi successi erano tali e quali al primo giorno in cui si erano incontrati, poiché ogni volta, dopo che Lance passava quasi un'ora a flirtare spudoratamente con il ragazzo, quello si rifiutava di concedergli un'uscita fuori dalla scuola.
E quello che uccideva il cubano, in realtà, era non sapere quali fosse il suo frullato preferito.

«E dai, non mi sono nemmeno fatto la doccia per andare a prenderlo in tempo» disse, facendo di nuovo la smorfia indecifrabile.
Keith storse il naso, piegando la testa di lato. «Infatti si sente, puzzi di cloro».
Lance si portò indignato una mano al cuore, guardandolo come se avesse detto la peggior blasfemia della terra.
«No, no, no, non è puzza di cloro» lo corresse. «È profumo di piscina».
Il corvino alzò le sopracciglia nell'alzarsi dagli spalti, prima di saltare a terra e dirigersi verso il sacco da boxe. «Chiamalo profumo...»
Il castano sbuffò e lanciò un'occhiataccia al ragazzo, che però venne ignorata bellamente. Osservò il più grande sganciare il sacco dal sostegno metallico, in quanto l'addetto alla palestra quel giorno non sarebbe passato a mettere a posto gli attrezzi.

Sapeva poco di Keith Kogane e questo non era nell'ordine naturale delle cose.
Lance era solito fare buon uso della sua posizione sociale all'interno della scuola per raccogliere informazioni sugli altri studenti, specialmente su quelli carini come il giovane pugile.
Sapeva che abitava con la madre ed il fratellastro, che faceva il penultimo anno per la seconda volta a causa di un trasferimento e che aveva un'insana passione per le cose che potevano ucciderlo.
Per fare un paio di esempi, le sigarette e le moto.
Avrebbe voluto tanto lasciar perdere e permettere a quel ragazzo riservato di rimanere un suo semplice conoscente, se era questo quello che voleva, ma non riusciva.
Non riusciva a smettere di pensare a lui, al modo in cui le sue sopracciglia su aggrottavano quando voleva reprimere un commento sarcastico, a come sbatteva le palpebre quando era confuso e a come riusciva a ridere quando era sinceramente divertito.

Dio, la sua risata.
Aveva sentito molte ragazze con una risata più carina, ma c'era qualcosa in quella di Keith che faceva accelerare il cuore di Lance, contro ogni logica e ragionevolezza. Il suo sorriso, che era terribilmente raro, era qualcosa di stupendo, da togliere il fiato.
Ed il cubano non poteva credere che, nonostante questo miscuglio di sentimenti confusi che lo spingevano a non mollare, sapesse ancora così poco del corvino.
«Oggi Griffin è stato più carino con te?» domandò quando l'altro tornò verso di lui per prendere le sue cose. «Il sacco da boxe mi è sembrato in uno stato migliore dell'ultima volta».
L'occhiata di fuoco che il castano ricevette lo fece sentire leggermente in pericolo, anche se di certo non sarebbe bastata a farlo demordere.
«Mi pare di averti detto di farti gli affari tuoi, McClain» ringhiò Keith.

«Lo so che cosa hai detto, ma ciò non mi ha impedito di fare un po' di domande in giro. A quanto pare è piuttosto risaputo che non vi sopportiate» replicò pacatamente, perché aveva imparato a sue spese che non serviva molto per irritare il corvino. «Oggi non sembrava che stessi picchiando il sacco da boxe come se fosse il suo sostituto».
Il più grande si piegò in avanti per avvicinarsi al viso di Lance, rivolgendogli una delle espressioni più ostili che gli avesse riservato in quei giorni.
«Perché infatti pensavo di colpire il tuo bel faccino» sibilò.
Il castano ammorbidì la sua espressione e gli sorrise, allungando una mano e prendendo quella dell'altro, consapevole di non correre alcun pericolo.

Aveva capito che Keith non era una persona a cui piaceva il contatto fisico, perciò solo i minimi gesti potevano essere tollerati: una carezza, una gomitata leggera, prenderlo per mano.
Se avesse deciso di saltargli addosso e abbracciarlo probabilmente si sarebbe trovato senza denti.
«Per prima cosa, mi hai appena fatto un complimento e non credere che me lo dimenticherò tanto facilmente» cominciò, facendo del suo meglio per non perdersi in quelle iridi violette. «Seconda cosa, stavo per dirti che se me lo chiedessi potrei sempre affogarlo in piscina».
D'un tratto anche le labbra dell'altro si incurvarono impercettibilmente verso l'alto e quando parlò Lance poté sentire il suo respiro di menta e caffé.

«Ti ascolto» disse. «Ma come pensi di attirarlo là?»
«Inscenando qualcosa come 'la Sposa Cadavere', probabilmente» rispose, pensando ad alta voce. «Mi vestirò da sposa e lo inseguirò chiedendo vendetta, fino a costringerlo a buttarsi in acqua».
Lui aggrottò le sopracciglia e Lance seppe che almeno sette commenti sarcastici erano stati soppressi per non ferirlo, cosa che lo rese ridicolmente felice.
«Non penso che saresti credibile» osservò.
«Scusami? Io sarei una sposa stupenda».
Keith allontanò il viso dal suo, ma solo perché stava ridendo.

Si coprì gli occhi con la mano libera permettendo al castano di guardarlo senza remore, perché era semplicemente...
Da togliere il fiato, pensò.
Quando quelle iridi screziate di viola tornarono a guardarlo si lasciò andare in un sospiro, prima di piegare la testa di lato.
«Continui ad avere un bellissimo sorriso» disse. «Ti va di uscire con me?»
L'espressione serena sul volto del corvino lentamente andò spegnendosi, mentre faceva scivolare la mano via dalla presa di Lance e si chianava a raccogliere la sua borsa.
«Quando riuscirai a indovinare il mio frullato preferito» rispose.
Il cubano si sforzò di sorridere. «È una sfida?»
«Una sfida che tanto perderai».




















Era passato un mese intero da quando il capitano della squadra di nuoto era entrato in quella palestra e aveva visto Keith per la prima volta, ovvero un mese dove quasi ogni giorno passava un'ora in sua compagnia, guardandolo allenarsi.
Inutile dire che il corvino aveva pensato di sopprimerlo un paio di volte a causa di quell'incessante chiacchiericcio che era costretto a sentire, ma con il passare del tempo si era abituato al suono della sua voce.
Lance parlava un sacco, spacciava informazioni su se stesso e sui suoi amici come se fosse nulla, tanto che ormai all'altro pareva di aver vissuto la sua vita.
Il castano e la sua famiglia, composta da i suoi genitori, due fratelli, due sorelle e non si sa quanti gatti, venivano da Cuba e ciò aveva influito particolarmente sulla sua capacità di ambientarsi, all'inizio.
Aveva scoperto, inoltre, che Lance e gli altri membri di Voltron erano amici da tempo, ma la cosa non riusciva a farlo sentire escluso.

Voltron era l'insieme dei principali esponenti scolastici dal punto di vista sociale, sportivo e intellettuale, e attualmente era formato da sei persone: suo fratello Shiro in quanto capitano della squadra di football, Hunk Garret, quello della squadra di lacrosse, Allura Altea, della squadra di atletica, Katie Holt, detta Pidge, della squadra di softball, e naturalmente lui e Lance.
Eccezion fatta per Shiro, non aveva mai avuto interesse nel legare con gli altri, soprattutto perché non aveva intenzione di sentir dire in giro che faceva parte di Voltron. Qual'era l'origine del nome? Il suo vero significato? Chi l'aveva inventato? Nessuno avrebbe trovato una risposta.

«Mi chiamano il paladino rosso?» aveva domandato a Lance, una volta. «Che grandissima stronzata».
Il castano gli aveva rivolto un sorriso complice.
«Credo che abbiano scelto i nomi in base ai colori delle borse delle squadre» aveva risposto, contando sulle dita. «Io sono il paladino blu, Shiro quello nero, Hunk quello giallo e Pidge quello verde».
Keith aveva fatto una smorfia. «E Allura cos'è? La paladina rosa?»
«Oh no, lei la chiamano la principessa» gli confessò.
Il corvino dovette silenziosamente ammettere che il titolo calzava a pennello.

Sta di fatto che, dopo un mese, ormai era abituato al farneticare del ragazzo e si accorgeva sempre dei suoi silenzi improvvisi.
Se prima credeva che Lance fosse un ragazzo con pochi pensieri, di certo non poteva più pensarlo, nonostante non li condividesse con lui.
Insomma, lo vedeva, lo sentiva, sembrava che per certi versi lo conoscesse da tutta la vita.
Perciò quel giorno si voltò verso le tribune con una strana sensazione di vuoto e vide che il cubano non era al suo solito posto, anche se era già passata mezz'ora.
Gioisci, Keith, si disse, come avevi previsto si è stancato di te e di questa sfida continua, finalmente puoi continuare con la tua vita.
Colpì il sacco da boxe, ma senza rabbia.
Avrebbe dovuto traboccarne, dopotutto oggi James era stato il più idiota degli stronzi, eppure sapeva che tentare di forzare quell'emozione era inutile.

Da quando Lance era entrato nella sua vita si sentiva ogni giorno meno arrabbiato, anche se in compenso la sua pazienza era costantemente messa a dura prova dalle battute stupide e dai discorsi senza connessioni logiche che uscivano dalla bocca di quel ragazzo.
Perciò non poté fare a meno di sentire di nuovo questo profondo e inesorabile vuoto, che sembrava divorarlo a ogni pugno che riservava al sacco da boxe.
Ed ovviamente a ogni occhiata apprensiva che rivolgeva agli spalti.
Si ripeteva che andava tutto bene, che sapeva che il ragazzo avrebbe abbandonato quel comportamento testardo non appena avesse perso interesse. Si diceva anche che una persona del genere forse era meglio perderla che trovarla.
Ma non lo pensava davvero.

Provava dei sentimenti contrastanti nei confronti del nuotatore, un così profondo disprezzo per il suo essere invadente e una così profonda ammirazione per il modo in cui riusciva a guardare le persone.
A volte gli sarebbe piaciuto essere nella testa di Lance e guardare il mondo dalla sua prospettiva, dove era evidenziata solo la parte migliore di tutti.
Ed era da un po' che qualcuno non vedeva la parte migliore di Keith.
E se gli fosse successo qualcosa?, non poté fare a meno di pensare.
Scacciò l'idea e tornò a concentrarsi sul suo allenamento, con scarso successo.
Non aveva più veramente bisogno di stare dopo la scuola per prendersela con un oggetto inanimato, non da quando non era costantemente incazzato con chiunque.
E allora perché rimaneva?
Lo sapeva perfettamente, era piuttosto ovvio. Per Lance.

E per lo stesso motivo abbandonò ciò che stava facendo, correndo fuori dalla palestra.
«Vaffanculo, McClain» borbottò tra sé e sé.
Attraversò il corridoio fuori dalla porta della palestra, lo stesso che la connetteva agli spogliatoi delle piscine.
Non voleva pensare troppo a cosa avrebbe trovato, ma sperava che non si trattasse di un ragazzo castano addormentato sulla panchina, perché a quel punto lo avrebbe di certo ucciso per averlo fatto preoccupare.
Quando entrò negli spogliatoi sentì il rumore dell'acqua della doccia, nonostante sapesse che tutta la squadra era solita andarsene quasi subito dopo gli allenamenti. Tutta la squadra tranne Lance.
«McClain» chiamò, maledicendosi subito dopo.
Che cosa aveva intenzione di fare o di dire, una volta che l'altro gli si fosse presentato davanti?
Si sarebbe reso patetico e vulnerabile, lo sapeva, e probabilmente il castano ne avrebbe approfittato per canzonarlo.

La doccia si spense ed il rumore dei piedi sul pavimento bagnato gli fece capire che qualcuno si stava muovendo là dentro.
La porta di plastica si aprì e Lance uscì da dietro di essa, con un'asciugamano legata in vita e una smorfia sulla faccia.
«Kogane?» chiese, senza alcuna traccia di un sorriso. «Sei venuto a condividere la doccia con me?»
Nel parlare si era avvicinato e gli occhi di Keith erano inesorabilmente caduti su ogni porzione di pelle scoperta che potesse contemplare.
Okay, no, wow.
Era per questo che il corvino non andava a vedere le gare di nuoto, perché non aveva bisogno che vedere dei ragazzi seminudi e bagnati stimolasse le sue crisi ormonali da adolescente.

Diciamo pure che non si aspettava che il fisico di Lance fosse... Così, ecco.
Decise saggiamente di puntare lo sguardo più in alto mentre cercava le parole con cui rispondergli, quando gli occhi del cubano attirarono la sua attenzione.
«Hai gli occhi rossi» constatò.
«Beh, perché il cloro e gli occhi chiari non vanno d'accordo» replicò quasi immediatamente. «In più non porto gli occhialini».
Keith incrociò le braccia al petto ed assottigliò lo sguardo, stringendosi nella maglietta.
Dopo le prime due volte che il ragazzo era tornato a guardarlo allenarsi, il corvino aveva deciso di smettere di farlo senza maglia.
«Non hai mai gli occhi rossi dopo gli allenamenti» osservò.

«Beh, questa volta la concentrazione di sostanze chimiche era particolarmente alta, che ne so» ribatté, alzando gli occhi al cielo mentre una gocciolina cadeva dai suoi capelli e colpiva la sua spalla.
Keith si aspettava che anche le sue spalle avessero le lentiggini.
«McClain, non dire cazzate-»
«Sto per spogliarmi» annunciò il ragazzo dagli occhi blu, rivolgendogli un sorriso di sfida. «Posso avere un po' di privacy o vuoi goderti lo spettacolo?»
Al corvino scappò un'imprecazione sottovoce e gli diede le spalle, mentre il suono della cerniera della borsa e della stoffa che veniva sfregata gli facevano intuire che finalmente si stava vestendo.

«Non scapperai da questa conversazione, carino» lo avvisò mentre cercava di far sparire il rossore dalle sue guance.
Lo sentì emettere una risatina vagamente falsa. «Se continuare questa conversazione significa ricevere altri complimenti allora va benissimo».
Keith sospirò esasperato, strofinandosi la faccia con le mani e chiedendosi chi diavolo glielo facesse fare. La sua coscienza?
Senti un po', coscienza del cazzo, chiudiamola qui, pensò.
«Hai finito?» domandò battendo ritmicamente il piede a terra.
«Immagino dovrai voltarti e scoprirlo» rispose l'altro.
Il corvino alzò per l'ennesima volta gli occhi al cielo e lo fece, trovandolo seduto e avvolto in morbidi vestiti puliti mentre si allacciava le scarpe.
Forse era un po' deluso, lo ammette, ma smise subito di pensarci.

«Dimmi cosa c'è che non va» gli fece, fissandolo.
Lance tirò con forza le orecchie fatte con i lacci e mise il piede a terra, guardandolo con fare accusatorio.
«Chiedo scusa, da quando ti importa abbastanza di me da avere il diritto di farti i fatti miei?» domandò, con un tono ostile tanto quanto lo sguardo.
Keith deglutì a fatica e si morse il labbro inferiore, cosa che ormai faceva di riflesso, perché era il più alto dei due a essere innervosito e ad avere il bisogno di torturarsi.
Lo sapeva di non meritare di avere voce in capitolo, lo sapeva e non solo, voleva rispettare l'intimità tra il paladino blu e i suoi problemi.
Solo che non poteva.
Non poteva guardarlo lì, solo come se fosse chiuso in una prigione trasparente attraverso la quale tutti gli altri vedevano solo quello che volevano vedere. Con il corvino lo avevano fatto e non riusciva nemmeno a ricordare tutte le volte in cui avrebbe voluto urlare per farsi sentire, da dietro quel vetro impalpabile.

«Ascolta Lance... Lo so che non sono nessuno, okay, ci conosciamo da poco e ci siamo detti ancora di meno. Ma se hai bisogno di parlare di qualcosa, io sono qui ad ascoltarti» disse, facendosi scappare un sorriso imbarazzato. «Cazzo, ti ho detto che quando ero piccolo avevo paura degli ananas, non ti giudicherò».
Ci fu qualche secondo di silenzio, intervallo di tempo in cui il più grande sentì di essere scrutato a fondo, come se l'altro stesse cercando di capire se si poteva veramente fidare.
«Non dirai niente?» chiese, per sicurezza.
«Niente di niente» gli assicurò.
Lance prese un respiro profondo e si alzò in piedi, per poi avvicinarsi a un armadietto aperto, la cui anta era coperta da un'asciugamano.
Con un gesto rapido il ragazzo tolse il pezzo di stoffa e Keith si trovò improvvisamente a irrigidirsi, disgustato e sconvolto allo stesso tempo.

Sul metallo verniciato di blu spiccava la scritta frocio fatta con un simpatico indelebile rosa fluorescente.
Riportò il suo sguardo sul castano e cercò di capire cosa fare, quasi schiacciato dal modo in cui quello lo guardava.
Era stata Nyma, lo sapeva bene, aveva visto abbastanza sue scritte in giro per la scuola da poter riconoscere la calligrafia.
«Non devo dire niente?» domandò, per sicurezza.
Fammi dire qualcosa, lo supplicò dentro di sé, ti prego, permettimi di aiutarti.
Lance si morse il labbro inferiore con più forza e scosse la testa, smettendo di guardarlo.
«Niente» ripeté, con la voce spezzata.
Si coprì la bocca con una mano e strinse gli occhi, mentre un paio di lacrime dolorose gli solcavano le guance.

Keith lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, senza parole.
Come poteva qualcuno voler fare del male a Lance?
A quel ragazzo che si sforzava di amare chiunque, non importava come, che cercava di rendere tutti felici anche se non avevano fatto nulla per meritarlo.
Al cubano scappò un singhiozzo e Keith non poté più starsene a guardare.
Si avvicinò a lui rapidamente ed allacciò le braccia dietro alla sua schiena, appoggiando la testa contro il suo petto e sentendo che il suo cuore batteva incredibilmente veloce.
Non lo voleva sapere come batteva il suo, di cuore, perché altrimenti avrebbe dovuto prendere provvedimenti.

Non per Lance, si disse, non per qualcuno che si stancherà di me.
Era fottuto, lo sapeva, ma si illudeva ancora che potesse evitarlo, che con un po' di buona volontà potesse scegliere di non...
Beh, insomma.
Lance si lasciò andare in avanti piegò la testa verso il basso, appoggiando la fronte sulla spalla del corvino.
«Keith, perché non...» provò a dire il ragazzo dagli occhi blu. «Perché non posso...?»
Keith appoggiò una mano sui suoi capelli e lo accarezzò solo una volta, piano, cercando di essere quanto più di conforto potesse.
«Non è colpa tua» gli sussurrò nell'orecchio. «Non hai fatto niente di male».
Hai spezzato il cuore a una persona crudele, gli disse, dentro di sé, e per quanto tu abbia provato a non farle del male ora lei cercherà di spezzare il tuo.















I giorni seguenti trascorsero diversamente dal solito e per circa due settimane ci fu un completo sconvolgimento della vita di Keith, ovvero il progetto segreto che Lance stava tenendo in serbo per il momento opportuno.
Dopo quel pomeriggio nello spogliatoio, il corvino si era dimostrato più aperto nei suoi confronti e, sebbene non fosse programmato, il più piccolo decise di approfittarne per strappare il suo amico dalla solitudine.
Non lo faceva per pietà, senso di colpa o gratitudine, lo faceva perché voleva veramente che quel ragazzo fosse felice, anche se significava essere solo suo amico.
Non sto dicendo che si arrese riguardo a loro due, ma comunque pensava che averlo nella sua vita, in qualsiasi modo, potesse essere di per sé un premio meraviglioso.

Così subito dal giorno dopo aveva cominciato a fermarsi al suo armadietto in corridoio per scambiare due parole, che spesso erano prese in giro ai suoi capelli, e gli tendeva trappole durante il cambio dell'ora per assicurarsi di entrare in classe assieme durante le loro lezioni in comune.
Ma fu solo dopo il quarto giorno che Keith fu trascinato con l'inganno al tavolo di Voltron, ovvero quello a cui tutti ambivano a sedere.
«Lance, ti giuro che ti uccido mentre dormi» gli aveva sibilato, non appena era stato troppo vicino al tavolo per opporsi.
Il cubano gli aveva rivolto un sorriso morbido, seguito da un'occhiolino. «Avanti, prova a comportarti un po' meno da tsundere e più da persona normale».

Lance gli leggeva il timore negli occhi che aveva ogni volta in cui si trovava in mezzo ad altri ragazzi, ovvero quello di dire qualcosa di terribilmente sbagliato che lo avrebbe portato a creare un silenzio imbarazzante.
Ma il castano conosceva i suoi amici e sapeva che tra di loro era possibile creare qualsiasi tipo di silenzio.
In pochi minuti il nuovo arrivato si era schierato fermamente contro Pidge, che per essere alta un metro e un penny faceva comunque paura, mentre quella parlava di una delle sue teorie complottistiche. La discussione tra i due era accesa ed immediatamente il ragazzo aveva ottenuto l'appoggio di Allura, che se prima ascoltava distrattamente le parole dell'amica mentre si fasciava una caviglia con lo scotch medico, ora era decisamente coinvolta nella conversazione.

Lance avrebbe voluto che ci fosse anche Shiro, solo per fargli vedere come brillavano gli occhi del suo fratellino, lì in mezzo a tutti loro.
Così erano passate due settimane, due settimane in cui il cubano credeva di aver fatto finalmente qualcosa di buono. Keith ormai sedeva spontaneamente con loro, Hunk lo costringeva a non saltare i pasti come faceva di solito, Pidge gli passava sottobanco i fumetti in edizione limitata -che sarebbero dovuti spettare a Lance- ed Allura riusciva a farlo parlare di qualsiasi cosa.
Ed era una piccola vittoria, no?
Ora il corvino non era più solo e Lance poteva ammirare il suo sorriso più spesso.
Allora perché adesso si sentiva così a pezzi?

«Senti un po' Lancito, puoi smetterla di fissare quel cappuccino come se ti avesse fatto chissà che cosa?» lo richiamò una voce familiare. «Sto iniziando a preoccuparmi per te».
Il castano scosse la testa e sollevò lo sguardo sulla ragazza dietro al bancone, la quale se ne stava a glassare muffin da quando era entrato.
«Parla per te, stai fissando quei muffin come se volessi pestarli» replicò.
Quella gli rivolse un sorriso innocente, come al suo solito.
«Oh, ma infatti voglio farlo» ammise apertamente. «Solo che Ad mi darebbe fuoco, probabilmente».
La ragazza da lei nominata li raggiunse asciugandosi le mani in un panno, una volta lanciata un'occhiata all'ultima coppia di clienti che si dirigeva verso l'uscita.

«Avete fatto il mio nome?» domandò, piazzandosi accanto alla sua amica.
«Lance vuole fare del male al nostro cappuccino» disse subito la ragazza dagli occhi neri, sotto lo sguardo indignato del cubano.
Ad aggrottò le sopracciglia e squadrò l'accusato con una certa confusione.
«Perché dovresti voler fare del male a un cappuccino?» chiese.
Lance allargò le braccia nella disperazione. «Non voglio fare del male a un cappuccino! Ho solo un problema con un ragazzo».
La ragazza che stava glassando i muffin strinse troppo la presa e si schizzò di arancione in faccia, sotto lo sguardo di rassegnazione della collega.

«Lea, ti prego-»
«Ad, stai zitta, devo trovare il cartello» la liquidò accucciandosi dietro al bancone.
Ne riemerse vittoriosa con un cartoncino in mano, cartoncino che sbatté davanti a Lance prima di fissarlo in trepida attesa.
«Zie Ad e Lea, centro di supporto per adolescenti in crisi ormonale» lesse il ragazzo. «Sento che dovrei essere più stupito di così».
Ad lo zittì con un rapido gesto della mano. «Non perderti in questi dettagli e comincia a raccontare».
Prima che lui potesse decidere se obbedire o meno al suo ordine, il cellulare di Lea suonò le prime note della sigla di Banana Fish, al che abbandonò ogni interesse per la conversazione una volta visto il nome comparso sullo schermo.

«Jack, huh?» la canzonarono gli altri due, mentre lei arrossendo in maniera evidente si allontanava per prendere la chiamata.
Ad si lasciò andare in un sospiro ed avvicinò uno sgabello al bancone, in modo da potersi sedere mentre guardava Lance negli occhi.
«È lo stesso di cui ci parli da un po', vero?» chiese passandogli uno dei muffin.
La sua collega l'avrebbe uccisa se se ne fosse accorta, ma fortunatamente c'era il suo ragazzo e loro salvatore a tenerla impegnata.
Il cubano fece una smorfia, senza rispondere, ma non era come se ce ne fosse il bisogno: la ragazza si era accorta di come il loro amico si comportava negli ultimi tempi e non sapeva bene come fare per aiutarlo.
Non era mai stato interessato a qualcuno per così a lungo.

«Forse lo odio. Lui e le sue battutine sarcastiche, il modo in cui aggrotta le sopracciglia, i suoi stupidi capelli a triglia» si lamentò, afferrando con stizza la tazza del cappuccino. «Come si fa a essere così attraenti con una triglia?»
Ad inarcò un sopracciglio e scrollò le spalle. «Le grandi ingiustizie della vita».
Lance si decise finalmente a prendere un lungo sorso della bevanda ormai tiepida, prima di scuotere la testa con vigore.
«E poi fuma. Voglio dire, no? Fa lo stesso anche se non mi logori i polmoni con il tuo fumo passivo, a me questi servono per nuotare» aggiunse, gesticolando. «Ci sarebbe da aspettarsi che puzzi di sigarette, a questo punto. Invece sa di fragole e cioccolato. Com'è possibile? Ci fa il bagno dentro?»

Lo sguardo della sua ascoltatrice si illuminò, osservandolo parlare, e mentre questo proseguiva nel suo sproloquio lei già si dava da fare per mettere in atto il suo piano. Se avesse avuto ragione, probabilmente Lea si sarebbe disperata per non averci pensato prima, il che sarebbe stato divertente per tutti.
«Stupido Keith, con il suo stupido sorriso e i suoi stupidi bellissimi occhi violetti» mugolò appoggiando la fronte al bancone di legno. «Perché non lascia che... Perché ha paura di me? Perché non capisce quanto io- ugh».
Per qualche istante rimase nella contemplazione dell'immagine mentale che aveva del corvino, sempre lì nella sua testa come il più terribile promemoria.
Il promemoria di qualcosa che voleva così tanto, ma non poteva avere.

Un leggero tonfo gli fece alzare lo sguardo e vide un bicchiere di liquido tra il rosso e il rosa, coronato da panna montata e cioccolato fuso.
Lanciò un'occhiata interrogativa alla sua amica, la quale gli pareva eccessivamente entusiasta per un semplice frullato.
«È questo, sono piuttosto sicura che sia questo il suo preferito» gli disse, con un sorriso largo quanto tutta la sua faccia. «Potrei sbagliarmi, è vero, ma non mi sbaglio».
Lance stava per afferrare la chiave della sua vittoria quando qualcosa lo fece esitare, guardandosi le dita abbronzate che sfioravano la plastica trasparente.
«E se avesse ragione? E se i miei sentimenti fossero veramente così inaffidabili da spingermi a fargli del male?» domandò, mordendosi il labbro inferiore. «Non voglio farlo soffrire come tutti gli altri... Merita di meglio».

Ad gli rivolse uno sguardo da sorella maggiore ed un sorriso affettuoso.
«Lance, io e Lea ti conosciamo da quando hai cominciato il liceo e ti assicuro che non hai mai parlato di nessuno come parli di lui» lo incoraggiò, prendendo gli spiccioli che quello aveva già messo davanti a lui. «Sembra un ragazzo davvero speciale, sai? Io dico che ne vale la pena».
Lance le rivolse un sorriso altrettanto luminoso ed afferrò il frullato, deciso a tornare in palestra più velocemente di quanto avesse mai fatto.
Perché era ovvio che ne valeva la pena, per Keith sarebbe valsa la pena di fare qualsiasi cosa.












Cazzo.
Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo.
Non che di solito il linguaggio di Keith fosse meno colorito, solo che si stupiva di come il suo cervello non riuscisse a processare altro che imprecazioni su imprecazioni.
Sedeva sul letto, fissando l'armadio aperto da più di mezz'ora, senza ben sapere come affrontare la sua vita.
Non poteva credere che ci fosse riuscito e non poteva credere di avergli permesso di avere una possibilità, lanciandogli quella sfida.
Controllò per l'ennesima volta che non fosse il primo aprile, in modo da poter buttare il tutto in ridere e fingere che fosse uno scherzo, ma purtroppo era il sette aprile e lui era inesorabilmente fottuto.
«Dici che rimarrà lì per sempre?» bisbigliò Shiro.
La risposta della madre arrivò a voce altrettanto bassa. «Probabilmente se ci avvicinassimo troppo ci punterebbe contro il coltello».

Il ragazzo si voltò e lanciò loro un'occhiata truce. «Posso sentirvi benissimo».
Il fratello si nascose dietro le proprie mani e la donna al suo fianco emise un sospiro, facendo un passo all'interno della stanza.
«E va bene, soldatino» si arrese Krolia, avvicinandosi al figlio e sedendosi sul bordo del suo letto. «Vuoi dirmi cosa c'è che non va?»
Keith parve soppesare attentamente la richiesta, prima di risponderle.
«Okay» decise. «Ma Shiro deve andarsene».
Il fratello si esibì in una serie di suoni incredibilmente indignati, portandosi una mano al cuore come se fosse appena stato pugnalato in quel punto.
«Non posso crederci, tradito proprio da te, dal mio stesso sangue» sibilò.
Il più piccolo piegò la testa di lato. «Non abbiamo lo stesso sangue, Shirogane».
«Non è questo il punto-»

«Shiro, tesoro» intervenne la donna, con una voce pregna di sincero affetto materno ma anche di una muta minaccia di morte. «Potresti lasciarci da soli?»
Il più grande dei due fratelli abbassò lo sguardo e storse la bocca.
«Va bene, mamma» biascicò allontanandosi dalla porta sulla quale era appostato.
Per qualche secondo i due nella stanza rimasero in attesa, Krolia in attesa che il figlio trovasse le parole e Keith sperando che la madre capisse senza bisogno di spiegazioni.
Tuttavia il corvino dovette fare uno sforzo e prendere un respiro profondo, in modo da convincersi a parlare.
«Esco con un ragazzo, oggi» ammise, a testa bassa.

Le labbra della donna si incurvarono verso l'alto e lui lo sapeva, lo sapeva benissimo cosa stava pensando.
Probabilmente credeva che fosse una buona notizia, perché dopo Ryan non aveva più avuto nessuno e la poliziotta temeva che il figlio si fosse chiuso irreversibilmente in se stesso.
Ma le parole seguenti del ragazzo fecero modificare il suo sorriso, senza cancellarlo. «Solo che ho paura che si stanchi di me. Che mi usi come passatempo e poi mi getti via».
L'espressione di Krolia era veramente molto triste, lo sapeva anche senza bisogno di guardarla in faccia.
Sapeva che era anche colpa sua questa innata sfiducia del figlio nei confronti del mondo intero, dopotutto era stata lei a insegnargli la diffidenza.
Gli posò una mano sul ginocchio ed inclinò il capo in avanti, avvicinandosi come se volesse confidargli un segreto.

«Keith, non credo che tu sappia quanto mi rende sollevata che questo ragazzo sia entrato nella tua vita» gli disse, facendogli alzare lo sguardo verso di lei. «In questo ultimo periodo ti brillano letteralmente gli occhi e non sei costantemente pieno di rabbia. Sembri così felice, soldatino, e forse dovresti goderti appieno questa felicità, senza preoccuparti prima del tempo».
L'adolescente sollevò lo sguardo sulla madre e la osservò per qualche secondo, soppesando le sue parole.
Il loro rapporto non era teso o distaccato, solo che entrambi non erano propensi a parlare dei propri sentimenti apertamente, per questo per quanto il legame tra loro fosse profondo erano rare le volte in cui erano fisicamente così vicini.

Sua madre si lasciò andare in un sospiro, visibilmente in difficoltà.
Non erano mai stati loro due a fare questo tipo di discorsi, era sempre Shiro a comportarsi da figlio e fratello modello, perfettamente a suo agio quando si trattava di dare sostegno a chi ne aveva bisogno.
Tuttavia se il figlio le aveva chiesto di rimanere era ovvio che non potesse fare altro che dare il suo meglio.
«Quando sei attorno a questo ragazzo... Come ti senti?» domandò.
Sperava di non suonare scontata o poco degna di attenzione, mentre sorprendentemente il corvino pareva riflettere sulla risposta.
Ed infatti non servì nemmeno un secondo per mandare le sue guance a fuoco, dato che non riusciva a scegliere una sola cosa a cui pensare.

Non riusciva a non pensare ai vivaci occhi blu di Lance contemporaneamente alle sue lentiggini sbiadite e al suo torace abbronzato. Non riusciva a separare quel suo animo fastidiosamente empatico dal suo essere divertente, a modo suo, e questo lo stava mettendo in vera difficoltà.
«Mi sento bene» ammise, mordendosi il labbro. «E in qualche modo assurdo mi sento anche al sicuro, perché so che non posso soffrire quando c'è lui. Lance lo impedirebbe, quell'invadente testardo».
Si stupiva di come il cubano fosse riuscito a diventare il suo sostegno in un periodo di tempo così breve ed ovviamente ne fu parecchio irritato.
Krolia sembrava letteralmente risplendere, forse emanando di riflesso la nuova serenità che stava entrando a far parte della vita del figlio.
«Quindi vale la pena provare, no?» chiese.

«Okay» si arrese scandendo piano la parola, forse in modo da potersela rimangiare più velocemente. «Ma se finirò per farmi del male sarà colpa tua».
Il sorriso della donna fu tutto tranne che rassicurante.
«Non ti preoccupare di questo» gli mormorò, stringendo affettuosamente la presa sul suo ginocchio. «Se finirai per farti del male mi assicurerò che lui ne paghi le conseguenze».
Non era esattamente quello che Keith aveva bisogno di sentirsi dire, ma se lo fece andare bene comunque.
















Improvvisamente aveva cambiato idea.
Improvvisamente aveva deciso che Ad avrebbe dovuto sbagliarsi più spesso e che Hunk avrebbe dovuto essere meno incoraggiante, perché era solo a causa della sua telefonata che il nervosismo era scomparso.
O almeno, era scomparso finché non aveva visto il ragazzo dai capelli neri camminare nella sua direzione vestito così.
Diciamo pure che Lance non era pronto per vedere il corvino in camicia, se vogliamo essere sinceri. O con dei jeans così stretti. O con i capelli legati in quel modo che- Oh mio Dio.
Alla fine però, per il semplice fatto che l'altro lo aveva raggiunto, il cubano cercò di richiamare all'ordine le sue stupide pulsazioni da adolescente e gli rivolse un sorriso largo.

«Guarda guarda» disse, squadrandolo da capo a piedi una volta che fu letteralmente a un passo da lui. «Quindi sono questi gli effetti miracolosi del frullato alla fragola».
Keith distolse lo sguardo con le gote leggermente tinte di rosa, che emergeva senza problemi sulla sua carnagione chiara.
«Oh, sta' zitto Lance» borbottò, infilandosi con forza le mani nelle tasche dei jeans. «È stata pura fortuna».
Il castano si piegò leggermente in avanti, con uno sguardo allusivo.
«Qualcosa invece mi dice che il fatto che tu sappia costantemente di fragola sia un indizio fin troppo chiaro per essere casuale» osservò, giusto per punzecchiarlo. «Non è che segretamente tu sperassi nella mia vittoria?»

Il più basso voltò improvvisamente il capo nella sua direzione ed alzò esageratamente gli angoli della bocca, preoccupando il ragazzo.
«Piuttosto che lasciarti vincere di proposito, Lance,» affermò, «mi lancerei volontariamente in un cassonetto».
Il cubano alzò gli occhi al cielo, perché ovviamente un sorriso del genere poteva esistere solo se accompagnato da un insulto. Il motivo per cui era così perso per quello stronzetto emo sarebbe...?
Lo zittì con un gesto delle mani, indicando poi il cinema dentro il quale era già entrato chiunque aspettasse la proiezione del proprio film.
«Pronto a commuoverti fino al limite dell'imbarazzo?» gli chiese.
Keith abbandonò la sua paresi facciale e lo scrutò sospettoso. «Ho paura a domandartelo, ma che film hai scelto?»

Lance si permise di guardarlo per qualche secondo, l'espressione morbida ancora sul suo volto.
Aveva già visto ragazze e ragazzi fissarlo con quello sguardo, quello del desiderio che poteva essere evidente o ben celato a seconda della diversa personalità di chi lo aveva.
Capiva dal rossore sulle guance del corvino e da come si comportava che non gli era completamente indifferente, tuttavia il modo in cui gli rivolgeva quelle sue iridi screziate di viola era diverso da quello di chiunque altro. E Lance non solo ne era stupito e confuso, ne era anche leggermente spaventato.
Ammorbidì ulteriormente il sorriso. «Dumbo».
«Tsk, sì, carino, ma non credere che mi metterò a piangere come farai tu» lo provocò, rilassando visibilmente le spalle. «Se lo chiedi gentilmente potrei anche non raccontarlo a Pidge».

A Lance sconvolgeva anche come il ragazzo riuscisse a sciogliersi completamente ogni qualvolta sfidasse qualcuno, come se un lato masochista di lui particolarmente forte lo controllasse la maggior parte del tempo.
Stava per replicare indignato qualcosa, perché decisamente se Pidge lo fosse venuta a sapere la sua vita sarebbe terminata, quando una mano si posò sulla sua spalla, da dietro.
Il cubano voltò lentamente la testa e quando incontrò gli occhi di colui che aveva attirato la sua attenzione si sentì morire. Il biondo stringeva tra le labbra piegate a ghigno una sigaretta accesa, mentre il suo compagno si limitava a lanciare occhiate al telefono di tanto in tanto.
Sono fottuto, pensò, sono inesorabilmente fottuto.
«McClain, già con una nuova fiamma, eh? Ci hai messo più del previsto» esordì Rolo, spalleggiato da un incurante ed annoiato Breezer. «Oh, Nyma ci ha detto di salutarti come si deve, se ti avessimo visto».

Il suo unico pensiero significativo fu rivolto al corvino al quale ormai dava le spalle.
Scappa Keith, pensò, incapace di parlare, Vattene e non guardarti indietro.
Ed un secondo dopo aver osservato lo sguardo privo di compassione del ragazzo con la sigaretta tra le labbra, le nocche di questo aderirono dolorosamente contro lo stomaco di Lance.















Subito non capì cosa stesse succedendo.
Chi erano quei ragazzi? Che diavolo volevano da Lance?
Ma quando fu fatto il nome di Nyma il sangue di Keith raggelò nelle sue vene. Non conosceva la ragazza di persona, tuttavia aveva osservato il comportamento di quella strega nel corso degli anni e non poteva non temere per il significato delle parole che erano appena state pronunciate.
«Oh, Nyma ci ha detto di salutarti come si deve, se ti avessimo visto».
Aveva imparato a prevedere le mosse dei suoi avversari sul tappeto da boxe, perciò mentirebbe se dicesse che non aveva visto arrivare il pugno.
L'aveva visto, eccome, ma non era riuscito a muovere un solo muscolo.
Lance si piegò in avanti sul braccio del biondo, emettendo un suono soffocato.

«Keith» esalò. «Vai via».
Il corvino percepì le sue mani non rispondere ai comandi e sbatté le palpebre un paio di volte.
Perché non riesco a muovermi?
L'altro ragazzo, un tipo leggermente più basso del primo, si avvicinò distrattamente a lui continuando a tenere lo sguardo incollato al telefono.
«Il tuo amico ha ragione, vattene via» gli disse con una smorfia, come se fosse infastidito dalla faccenda. «Tu non hai nulla a che fare con questo stronzo».
E finalmente il corpo di Keith parve sciogliersi da quella paralisi, mentre il suo sguardo si posava sul volto di Lance, che era stato colpito sul naso già sanguinante.
Non ci volle nemmeno un secondo per pensarci, la sua mano aveva afferrato la felpa di quello che gli aveva parlato e con quella libera gli diede un forte colpo dritto in faccia, facendogli staccare gli occhi dallo schermo.

Quando il suo amico cadde a terra tenendosi le mani sul volto il biondo rivolse a Keith un'occhiata truce, prendendo tra le dita la sigaretta ormai a metà.
«Non ti avvicinare, chiunque tu sia» gli ordinò, accostando il lato acceso al collo di Lance. «O questa la spengo sulla pelle della puttana».
Il cubano si dimenò per liberarsi dalla sua presa salda, ma non poteva fare molto contro quella maledetta forza bruta ed anche il corvino lo sapeva.
Keith sentiva il cuore battere talmente forte da saltargli fuori dal petto, mentre gli occhi blu mare dell'altro lo supplicavano di scappare e lasciarlo solo.
Vaffanculo, McClain, pensò stringendo i denti, Non credere che me ne andrò senza di te.
Quasi come se gli avesse letto nel pensiero, il castano alzò gli occhi al cielo, visibilmente seccato.

Okay, no, Keith sapeva perché lui voleva prendere a sberle quella sua faccetta orgogliosa, ma non capiva perché volesse farlo qualcun'altro. Da quando Lance aveva fatto qualcosa di diverso che donare agli altri tutto se stesso?
Stava per fare qualcosa di stupido, come lanciarsi contro il ragazzo biondo, quando il cubano fece qualcosa di ancora più stupido.
Girò la testa e morse il braccio di colui che lo teneva in ostaggio, facendogli mollare la presa per lo stupore.
«Madre de Dios, Rolo, hai un sapore orribile» commentò dopo essersi allontanato da lui con un balzo.
Keith lo detestò, lo detestò profondamente per aver deciso di fare dello spirito in un momento simile, ma il sorriso che si dipinse sul suo volto non aveva eguali.

«Ve bene, stronzo» disse il corvino. «Ora puoi anche andartene a 'fanculo».
E così dicendo si scagliò contro di lui, atterrandolo ma avvertendo un forte bruciore al fianco destro che quasi gli fece perdere la concentrazione.
In preda alla rabbia colpì Rolo in pieno volto, ma questo servì solo ad aumentare il suo disprezzo, e la sua irritazione, ed il suo odio per tutte quelle persone che facevano del male gratuitamente.
Così lo colpì ancora, e ancora, e ancora.
«Keith» lo richiamò una voce, seguita da un tocco leggero sulla sua spalla.
Il ragazzo si voltò verso l'origine del suono ed incontrò degli occhi blu mare che ebbero il potere di fermarlo, solo con la loro presenza.

Riprese fiato a fatica, con il cuore che gli batteva direttamente in gola, e si rifiutò di guardare in che stato era il biondo sotto di lui, che si lamentava piano.
Se solo ci fosse stato qualcuno io non avrei dovuto..., pensò, lanciando alla strada vuota un'occhiata rancorosa, Non avrei dovuto.
Evitò di sfiorare la mano che il suo amico gli porgeva, alzandosi e continuando a guardarlo negli occhi.
«Stai bene?» gli chiese, cercando di non sembrare mortalmente preoccupato.
Lance sorrise genuinamente, stringendo persino le palpebre nel farlo.
«Mai stato meglio» rispose, con leggerezza. «Ma adesso dobbiamo proprio procurarci gli ultimi posti rimasti in sala».
Lo disse con allegria, come se non fosse successo niente, come se un rivolo di sangue non gli bagnasse le labbra schiuse.
E Keith si chiese da quanto quel ragazzo si era costretto a mentire così bene.















«Accidenti, scusami. Sorprendentemente c'era il pienone» disse, porgendo al corvino una bottiglietta d'acqua presa al bar. «Non credevo ci fossero così tanti fanatici della Disney».
Keith tenne gli occhi screziati di viola lontano dalla portata di quelli di Lance, che non sapeva spiegare a parola quanto terribilmente ne soffrisse.
Non è che quel ragazzo esprimesse chiaramente le sue emozioni e le sue iridi erano l'unico portale di accesso ad esse, tuttavia se non poteva vederle il castano era praticamente lasciato a brancolare nel buio.
Erano seduti sulla moquette del corridoio che portava alle sale, troppo testardi per andarsene senza aver visto il film e disposti ad attendere fino alla proiezione seguente.
Il più basso continuò a torcersi le mani senza prestare attenzione a ciò che l'altro gli offriva.

«Mi dispiace tanto, Lance» disse, piano.
Il cubano si stupì per ciò che udiva, in quanto erano le prime parole che gli aveva rivolto da quando erano entrati.
Keith si abbracciò le ginocchia e continuò a tenere lo sguardo fisso sul pavimento.
«Mi dispiace che tu abbia dovuto vedermi... Così» disse. «E se vorrai prendere le distanze dall'impulsivo e violento ragazzo emo, capirò. Anche io lo farei, se potessi».
Lance sbatté appena le palpebre, senza nemmeno degnare di uno sguardo le mani che il ragazzo si torturava. Entrambi si erano dati una ripulita, ma sulle sue nocche c'era ancora l'impronta scarlatta del sangue.
«Sei completamente fuori di testa? Mi hai salvato, Keith, quei due mi avrebbero aperto a metà» ribatté, gesticolando. «È colpa mia se tu ti sei trovato in quella situazione».

Il corvino voltò la testa di scatto e di finalmente gli rivolse i suoi occhi violetti, per l'immensa gioia e dolore di Lance.
Non stava affatto piangendo, ovviamente, era qualcosa che andava completamente in contrasto con il suo personaggio, però aveva l'aria di uno che avrebbe tanto desiderato farlo.
«Se adesso non te ne vuoi andare, allora puoi per favore dirmi quando lo farai?» domandò, con la voce sia irritata che spezzata. «Perché non riesco più a sopportare l'attesa».
«Che cosa stai dicendo?» chiese di rimando.
Non è che non capisse, ormai sapeva qual'era l'opinione comune su di lui, ma nessuno aveva espresso il suo timore apertamente, forse per paura o vergogna.

Si alzò in piedi rapidamente, prima che il castano potesse anche solo pensare di sfiorarlo.
«Forse sono io che sono terrorizzato all'idea che tu mi piaccia così tanto dopo così poco tempo, non lo so» sbottò. «Ma se tutti mi hanno sempre messo in guardia da te, dicendo che sei volatile e finirai per spezzare il cuore di chiunque, cosa dovrei fare?»
Gli piaccio, pensò Lance, leggermente stordito da quella notizia mischiata a tutte quelle paure, oh porca troia, gli
p i a c c i o.
Non si era mai sentito in quel modo dopo che qualcuno glielo aveva detto, di solito bastava una dichiarazione per spegnere la sua infatuazione temporanea. Invece, nell'udire le parole di Keith, si sentiva semplicemente andare a fuoco il cuore. Non era sicuro che fosse una cosa normale.

Fargli del male era l'ultima cosa che desiderava e di sicuro non pensava che il corvino meritasse di essere spaventato a causa sua.
Quello però ancora parlava, straordinariamente desideroso di farlo, passandosi una mano tra i capelli lunghi quasi fino alle spalle.
«Cosa dovrei fare per mantenere vivo il tuo interesse? Dovrei smettere di parlarti e toccarti, così sarai tu a volerlo fare?» quasi ringhiò, fissandolo con fare accusatorio ed esasperato. «Non potrò mai baciarti o lasciarmi baciare da te, in modo che tu senta lo stesso bisogno che sento io-»
Era stato un momento e Lance si era ritrovato con le dita strette attorno alla camicia del più grande, confuso e disorientato. Doveva fermarlo, ma come poteva? Come poteva?
Così fece la prima cosa che gli passò per la mente e con uno strattone lo costrinse a piegarsi in avanti abbastanza da sfiorargli il naso con il proprio.

Si permise di indugiare su ogni singolo angolo del suo viso con gli occhi, per nulla certo di cosa stesse pensando quando lo aveva afferrato. Voleva solo fargli smettere di usare quel cervello autolesionista che si ritrovava, che lo costringeva a spiralizzare e a ingigantire ogni cosa che gli succedeva.
Keith lasciò che le parole gli morissero in gola e schiuse le labbra per la sorpresa, attirando su di esse l'attenzione del castano.
Era vero che si conoscevano da poco, ma Lance sapeva abbastanza del suo terrore dell'abbandono, in quanto conosceva la storia della sua famiglia: suo padre era morto quando era piccolo e sua madre era sparita per anni, prima di tornare nella sua vita.
Non me ne vado, pensò, Io non ti lascio da solo.

Quindi chiuse gli occhi ed allungò il collo, premendo le proprie labbra contro quelle del ragazzo.
Quello che sentì dentro di sé fu completamente diverso da qualsiasi altra cosa avesse mai provato prima, qualcosa che lo spinse ad avvicinarsi ancora di più e ad infilare le mani nei morbidi capelli scuri dell'altro.
Sentì che il corvino si inginocchiava davanti a lui e rispondeva al gesto, aggrappandosi alla sua nuca e spingendolo contro il muro nella foga del momento.
Lance non aveva mai baciato nessuno così, non come se ne sentisse il bisogno, come se anche solo un secondo passato lontano dal ragazzo dagli occhi violetti significasse un secondo senza ossigeno.
Percepì che il Paladino Rosso si era notevolmente rilassato contro di lui e muoveva lentamente le labbra fredde all'unisono con le sue, provocandogli quello che avrebbe potuto definire come il suo primo attacco cardiaco.

Si separarono piano, quasi incerti, ed il cubano trasse un sospiro tremante.
«Ti bacerò anche domani. Lo farò anche il giorno dopo e il giorno dopo ancora, e tutti quelli che seguiranno» sussurrò, scrutandolo di sottecchi mentre le sue lunghe ciglia scure avevano un fremito. «Non me ne andrò, se mi vorrai».
Il corvino sbatté piano le palpebre e si morse il labbro inferiore, dove un colpo durante la rissa di poco prima aveva lasciato una piccola ferita.
«Mi aspettavo che ti stancassi di me» mormorò, lentamente, come ad accertarsi di non far uscire dalle proprie labbra le parole sbagliate.

Lance schiuse appena la bocca, stupito e leggermente incredulo. Non riusciva a credere che Keith avesse veramente ammesso una cosa del genere? O non riusciva lui stesso a credere di non essersi ancora allontanato da quel ragazzo impulsivo e introverso che gli avrebbe portato solo guai?
Non appena se ne accorse richiuse la bocca e gli rivolse un morbido sorriso dei suoi, appoggiando una mano sulla guancia dell'altro e sfiorando con il pollice il brutto taglio che gli segnava il labbro inferiore.
«Non potrei» gli disse, senza muoversi di un centimetro, abbastanza vicino da fargli sentire il suo respiro. «Non potrei mai stancarmi di te».

Si guardarono in silenzio per qualche secondo, prima che Keith scoppiasse a ridere nervosamente, nascondendo la faccia nell'incavo del collo del castano.
«Tutto questo è talmente melenso da essere imbarazzante» commentò, anche se sorrideva contro la pelle dell'altro.
Lance sentiva che il ragazzo era felice ed aveva questa strana consapevolezza di aver fatto la prima cosa giusta da parecchio tempo, che rendere Keith felice doveva essere la sua missione personale.
Anche lui fece una risatina a sbuffo e gli porse la mano, con il palmo rivolto verso l'alto.
«Allora ti porto a prendere un frullato alla fragola» disse, lanciandogli un'occhiata di sfida. «Scommetto che non riesci a berlo più velocemente di me».
Il corvino scostò appena la testa dalla sua spalla e gli afferrò la mano, allargando il sorriso e trasformandolo in un ghigno di scherno.
«Ti piacerebbe».

















La mattinata era stata noiosa in maniera straziante e la doccia post-allenamento lo aveva demolito fisicamente, così, mentre si infilava la felpa rossa e bianca, si dovette tenere aggrappato all'armadietto per non svenire dal sonno.
Era la prima volta da due mesi che andava via dalla palestra insieme agli altri e stranamente non si era sentito infastidito dal chiassoso chiacchiericcio all'interno degli spogliatoi. Keith afferrò la borsa e chiuse l'anta di metallo, sbadigliando apertamente dato che ormai non c'era più quasi nessuno.
Appunto, quasi.
«Guarda guarda, Kogane se ne va assieme a noi comuni mortali?» domandò una voce odiosamente familiare.

Vaffanculo, Griffin, pensò quasi automaticamente, voltandosi per fronteggiare quella sua faccia da schiaffi.
James lo osservava con un ghigno stampato sulla faccia, ghigno che sarebbe stato veramente liberatorio tirare via a suon di botte.
«Credevi che uniformandoti alla squadra avresti sofferto meno la solitudine?» continuò, mettendosi la borsa a tracolla. «Tanto è inutile fingere, sai benissimo che rimarrai solo».
Stava già misurando mentalmente la traiettoria del pugno che avrebbe potuto rompergli quel naso perfetto, quando la porta degli spogliatoi si aprì con un cigolio.

«Eccoti qui, Keith» sbuffò Lance, facendo capolino ed entrando nella stanza una volta accertatosi che nessuno fosse nudo. «Devi sbrigarti, Shiro ha già acceso la macchina ed Allura e Hunk hanno dovuto legare Pidge, altrimenti sarebbe andata senza di noi».
Si era avvicinato al corvino a grandi passi, posandogli delicatamente le mani sui fianchi e chinandosi verso di lui.
«Ciao» lo aveva salutato, con un sorriso.
Gli posò un bacio delicato sulle labbra ed anche quelle del Paladino Rosso si curvarono all'insù.
«Ciao» rispose il più basso, quando quello si fu staccato.

Improvvisamente il cubano assottigliò gli occhi e si girò verso James, che li osservava a bocca aperta.
«Qualcosa non va, Keith?» domandò, pur continuando a guardare lo spettatore sbigottito.
Il più grande fece per dire qualcosa quando improvvisamente realizzò che la voglia di fare del male a quello stronzo di Griffin era magicamente sparita.
Era quello il superpotere di Lance, immaginava.
Lo prese per mano e sistemò meglio la borsa sulla spalla.
«Va tutto straordinariamente bene» disse, trascinandolo fuori da lì.
E, per la prima volta, non mentiva affatto.

















BeNNyFeR_21 as Ad
sonounaweasley as Lea

SPERO TI SIA PIACIUTA, ADDIO, MI ECLISSO

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