𝚒𝚝'𝚜 𝚖𝚢 𝚏𝚊𝚞𝚕𝚝
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Le storie, quelle belle, quelle interessanti e divertenti e coinvolgenti, quelle, iniziano tutte quando le cose cambiano.
Quando la realtà quotidiana, lenta e rilassante, viene distrutta dalla rottura di un equilibrio sul quale si poggiava una vita intera.
Quando si spezza qualcosa, quando la terra ti manca sotto i piedi e in un istante ti ritrovi senza niente, da solo, ad affrontare il mondo.
O almeno, la mia inizia così.
La mia inizia un giorno di agosto.
Pigro, lento e caldo come solo i giorni d'estate sanno essere, che scorre tiepido contro di me come melassa, prostrandosi nella sua straziante noia lungo tutto il pomeriggio.
Sono seduto sul divano di casa mia, a gambe incrociate, una maglietta enorme del mio ragazzo addosso e un paio di pantaloncini cortissimi, che stento a distinguere da un paio di mutande.
Mi è calata la vista l'ultimo anno di superiori, e trovo davvero insopportabile come gli occhiali mi scivolino dal naso sudato troppo, troppo spesso.
Questo è uno di quei giorni di passaggio.
Il liceo è finito, da poco, pochissimo, e l'università si avvicina.
E sono in quell'esatto momento in cui non ho davvero niente da fare.
Zero.
Nulla di nulla.
Scorro con le dita umidicce tra le pagine di un libro che non mi coinvolge, conto i secondi.
Sono stanco anche se non mi sono mosso minimamente, di quella stanchezza muta e inerme che porta la calura, e mi annoio da morire.
Prendo il cellulare infilato in qualche piega nascosta nel divano.
Sorrido, quando lo accendo.
Qualcuno deve starsi annoiando quanto me, o più di me, perché il messaggio che mi accoglie è piuttosto eloquente.
[Tsukki <3] >> Vengo da te <<
[Tsukki <3] >> mi annoio <<
[Tsukki <3] >> tre minuti e arrivo <<
Sembra così freddo e misurato, da fuori, ma sotto sotto so che è adorabile. Non gli piace stare da solo, lo detesta proprio, anzi.
Preferisce, per quanto non lo ammetterebbe mai, la mia compagnia, che pur so non essere di grandissimo aiuto, essendo io un tipo piuttosto timido, ma che in ogni caso lo fa sentire meglio.
O così mi è sempre sembrato che fosse.
Ultimamente le cose sono... strane.
Non so se sia la fine del liceo in sé, o che cos'altro, ma da un po'... Tsukki mi sembra più maturo.
Più grande, più adulto.
Dice cose strane, alle volte.
Mi chiede quasi insistentemente l'opinione.
Come se volesse sapere a tutti i costi quello che penso.
Quello che penso non è mai stato troppo importante, no? Insomma, si sa che sono un po' di sfondo. Non sono mai stato un protagonista, né mai mi è interessato troppo esserlo.
Mi piace rimanere nella mia aura pacata e dimessa, stare con Tsukki che invece è luminoso e che attira l'attenzione senza nemmeno provarci, e godere della luce che riflette.
Non c'è niente di male, in questo.
No?
In ogni caso aspetto pazientemente quei pochi minuti che so ci separano.
Viviamo vicini da quando eravamo piccoli.
Gli ci vuole davvero poco per arrivare da me, e lo so.
Quando sento il familiare rumore della porta principale - aperta perché il nostro è un quartiere tranquillo e i miei non sono in casa - sorrido.
Mi alzo nonostante la stanchezza dei muscoli inermi.
Mi alzo dal divano e zompetto allegramente giù per le scale.
− Tsukki? Tsukki, dove sei? - chiedo giocosamente nell'aria calda, aspettandomi una risposta.
− Sono in cucina, avevo sete. - lo sento rispondere.
Ah, in effetti, con questo caldo.
Lo trovo in piedi, con un bicchiere d'acqua in mano, appoggiato al tavolo.
Sorride tra sé e sé mentre manda giù con calma, gli occhi che scintillano appena quando entro nel suo campo visivo.
Mi avvicino quel che basta per allungare una mano verso la sua, le dita lunghe e sottili che si intrecciano alle mie per un istante.
Finisce di bere, posa il bicchiere nel lavandino, arriva verso di me.
Il modo in cui ci salutiamo, da anni, è lo stesso.
Dolce timido e pacato come noi, ma segretamente passionale, e tremendamente romantico.
Io che alzo le mie caviglie magre mettendomi in punta di piedi e il suo collo che si piega, le labbra che sfregano le une contro le altre, l'odore tipico del bagnoschiuma di Tsukki che è sempre quello da che lo conosco che supera magicamente l'aria pesante di agosto.
Non è un bacio completo.
Non di quelli da bocche spalancate e lingue che si cercano.
Ma è davvero adorabile.
− Fa un caldo della miseria. - commenta, staccandosi.
Non mi si appiccica come fa d'inverno, quando stringe le braccia e le gambe lunghe attorno a me e spiaccica ogni centimetro di pelle contro la mia, ma la sua mano appoggiata contro i miei fianchi mi fa ugualmente sorridere.
− Già. Sto per sciogliermi. - rispondo.
Rimaniamo qualche istante in silenzio.
Poi lo sento inspirare.
− Tadashi, devo chiederti una cosa. - dice.
Ha un tono... strano.
Difficile da interpretare.
Alzo le spalle.
− Dimmi pure. -
Attende un istante, prima di riprendere a parlare.
− Penso... so di aver capito male. È una domanda del cazzo, ti avverto. Ma preferisco togliermi il dubbio. Che università... che università hai scelto? Ho buttato un occhio al file di uscita dal liceo l'altro giorno e mi sembra di aver letto male. -
Ah, capisco.
Forse non se n'è accorto.
Il sogno della mia vita intera è sempre stato uno soltanto, e Tsukki lo sa.
Veterinaria.
Sembra una gran cazzata, e lo è, ma mi è sempre piaciuta.
Una di quelle facoltà difficili e soddisfacenti che ti riempiono le giornate e il cuore.
Veterinaria non c'è nella università di Storia Giapponese di Kyoto che ha scelto Tsukki.
Ho dovuto cambiare idea.
− L'università nazionale di Kyoto, perché? - rispondo, con tutta la calma del mondo.
La mano cade dal mio fianco.
− Che cosa? -
− L'università nazionale di Kyoto. Quella. -
Scuote la testa.
La scuote per un paio di volte, poi indietreggia di qualche passo.
Non mi guarda.
Non so cosa stia succedendo.
− Non c'è veterinaria a Kyoto, Tadashi. - dice poi.
Lo so.
Lo so perfettamente.
− Ho scelto scienze biologiche. Non è uguale ma hanno delle cose in comune. -
Il silenzio diventa pesante.
Ferreo, maldestro.
Tsukki incrocia le mani fra di loro, aggrotta le sopracciglia.
Mi guarda.
E quando i suoi occhi incontrano i miei, mi accorgo che c'è qualcosa che non va. Qualcosa si sta rompendo. O forse, forse si è già rotto.
− Perché Kyoto, allora? -
Che domanda idiota.
− Perché ci vai tu. Non è ovvio? - mi ritrovo a rispondere, con un sorriso timido.
Dovrebbe essere felice della mia scelta.
Dovrebbe... ma... ma non lo è.
Anzi.
Tradimento, quello che campeggia nei suoi occhi.
Puro, visibilissimo e cattivo tradimento.
− Tu devi andare a Tokyo. - lo sento mormorare.
No.
Non andrò a Tokyo.
Tokyo è lontana.
− Non dire stronzate, Tsukki, sai che senza di te non posso vivere. - ribatto un'altra volta.
Come se volessi recuperare i pezzi di vetro di una finestra rotta a mani nude, mi costringo ad avvicinarmi e a prendergli le mani fra le mie.
Le scosta.
Non vuole toccarmi.
− Cosa c'è che non va, Tsukki? - chiedo di colpo.
Inizio a sentire la paura.
Non so di cosa.
Ma ho paura.
− Pensavo... non so, che saresti stato felice, di saperlo. Pensaci, dai. Andremo a vivere insieme, e passeremo l'università a studiare fino a tardi davanti a degli enormi caffè americani come nei film, solo io e te. Non ti piace il pensiero? - tento un'altra volta.
Mi guarda con... rabbia.
− L'idea mi disgusta. -
È come se mi stesse pugnalando.
Me ne rendo conto in un secondo.
Come se il ferro sottile e aggressivo di un coltello si stesse lentamente infilando fra la carne morbida delle mie costole, come se il mio cuore si stesse immolando e aprendo sotto l'azione inarrestabile di un dolore che non controllo.
Che cosa ha detto?
− Cosa dovrebbe rendermi felice, Tadashi? Che vuoi rovinare la tua vita per me? Che vuoi buttare via un sogno per seguirmi, un'altra volta? - riprende.
Non capisco.
Non afferro che cosa mi stia dicendo.
Sento solo il "no".
No, Tadashi, non ti voglio. Nemmeno io, ti voglio più. Non ti vuole nessuno.
− Tu sei più importante di una stupida carriera universitaria! - mi ritrovo ad urlare di colpo, senza darmi un grammo di contegno, stupito e scioccato dalla mia stessa violenza.
Alza le sopracciglia.
− No, Tadashi, non lo sono. -
Indietreggia ancora.
Sfugge da me.
È come se volesse sgusciare via da una stretta soffocante.
E sapere che sono io, quella stretta, mi distrugge.
− In che senso non lo sei? Ho scelto io di rinunciare a Tokyo, non tu! Che c'entri tu con questo? - grido un'altra volta, forse più minaccioso di quanto vorrei, ma non per questo meno onesto.
− Che c'entro io? L'hai fatto per me! Vuoi buttare via Tokyo per me! -
Non capisce lui o non capisco io.
Non siamo sulla stessa lunghezza d'onda.
Stiamo... litigando.
− Stai dicendo una marea di stronzate, Tsukki. Che cosa pensavi che avrei fatto? Che me ne sarei andato via da te e basta? Sai che senza di te non sono niente. -
Quella frase, forse, lo fa scattare.
O tutto il resto, l'atmosfera e la sensazione opprimente sul suo petto, non ne ho idea.
Non capisco.
− Questa cosa non va bene. Questa cosa è malata, Tadashi. Tu non puoi dipendere da me. -
− E invece è così! Non dovevi farmi innamorare di te se non volevi questo! -
È un'esperienza strana.
È la prima volta che litighiamo, e nemmeno so perché lo stiamo facendo.
Qualcosa mi dice che sarà l'ultima, però.
Qualcosa che mi preme contro le spalle e mi schiaccia a terra, mi toglie il fiato dal petto e mi graffia il corpo dall'interno, come scalpitando contro la parte più nascosta della mia pelle.
− Non è così che si amano le persone. Non rovinando se stessi. Cosa pensi che succederà fra cinque, dieci anni? - mi chiede poi.
Saremo felici, fra cinque, dieci anni.
No?
− Inizierai a odiare me, Tadashi, per le occasioni che hai buttato via. Odierai me perché ti ho tolto quello che volevi essere. So che ti fa difficile sentirlo, ma la vita non è solo l'amore. -
Ghiaccio.
Il ghiaccio tagliente e freddo delle sue parole.
Pensavo che non fosse acido con me.
Lo speravo forse.
− Non potrei mai odiarti, Tsukki, sai che ti amo troppo. -
− Tu non mi ami. Tu dipendi da me. -
Ed è qui, che mi manca la terra sotto i piedi.
Che il mondo si apre, mi ingoia intero, mi fa scendere verso il basso in una discesa che non riesco a fermare.
Io amo Tsukki.
Lo amo.
No?
Non dipendo da lui.
Ma... la mia felicità, è lui.
La mia gioia, il mio orgoglio.
E io senza, senza cosa sono?
Chi sono?
Yamaguchi Tadashi è uno sconosciuto.
− Stai dicendo un mucchio di cose cattive. Dammi... dammi un abbraccio. - esce dalle mie labbra un istante dopo.
La mia voce trema.
− No. -
La mia voce si spezza.
Piangere è una cosa che faccio spesso.
So che l'immagine potrebbe essere esagerata, ma piangere mi è sempre sembrato come far colare la disperazione della mia testa fuori dal mio corpo, lasciare che le lacrime spazzino via l'incertezza rigandomi delicatamente le guance lentigginose.
Piango.
Perché è tutto quello che so fare.
Tsukki non è stato qui nemmeno venti minuti.
Non è stato qui nemmeno venti minuti quando si alza, e va verso la porta.
Gli prendo un polso fra le mie dita che tremano.
− Dove vai? -
− Via. Via da te. -
Che cosa?
Quando sono diventato qualcosa da cui scappare?
− Non mi ami più, Tsukki? - è quello che alla fine, con tutto il dolore che tenevo nascosto e sepolto nella mia testa, esce fuori.
Mi guarda per un attimo che sembra eterno, infinito e sofferente.
Si china verso di me.
Bacia le mie labbra fradice.
− Io ti amo per davvero, Tadashi. Ma non posso continuare a guardarti distruggere la tua vita per qualcosa che non posso darti. -
Mi aggrappo alla sensazione della sua bocca sulla mia.
Ho la sensazione che non la riavrò presto.
− Noi due... dobbiamo stare separati. Per un po'. Vai a Tokyo. - dice alla fine.
So che cosa vuol dire.
Non so se voglio concederlo a me stesso, ma lo so.
È finita, vuol dire.
La mia storia è iniziata una giornata di agosto.
Una giornata pigra lenta e stanca, e difficile.
Mi ha fatto male.
Questa giornata, mi ha fatto male.
Mi ha spezzato in due, mi ha strappato dal corpo l'ansia del cuore che batte all'impazzata, mi ha piegato.
Mi ha tolto tutto.
Le grandi storie, quelle che meritano di essere raccontate, iniziano con il cambiamento.
E questa storia, questa inizia con Tsukki che esce da casa mia, il mio cuore e il suo spezzati, soli e sofferenti nella consapevolezza che c'era qualcosa di rotto, fra noi.
Questa storia inizia con me che non so chi sono.
Con me che sono convinto che quando quel metro e novanta di ragazzo è uscito dalla porta principale, la mia vita sia finita.
E come andrà avanti, questo non lo so.
So soltanto di non potermi aspettare nulla di più diverso da quello che ho vissuto in passato.
So che le cose sono cambiate.
E che forse, forse, alla fine, lo sarò anch'io.
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