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Non so dire con precisione se tra me e Tsukki sia finita quel giorno.
Non saprei davvero mettere in linea tutti gli avvenimenti di quel pomeriggio, onestamente.
So che sono passate due settimane.
So che non l'ho più visto, da allora.
E so che sono al settimo giorno di corsi, a veterinaria, a Tokyo.
Il mondo continua a cadermi addosso ogni istante. Fa male, guardarmi attorno. Rendermi conto dopo aver cementato nella mia mente che saremmo rimasti per sempre insieme che alla fine, forse, non sarebbe stato così, è doloroso.
Andare avanti, è doloroso.
Ogni notte, ci penso.
Ogni notte prima di chiudere gli occhi in questo dormitorio di sconosciuti, prima di lasciarmi andare al sonno che penso sia l'unica cosa che mi distrae, mi tornano in mente il suo viso e le sue parole.
E la cosa che mi insegue è solo una.
La sensazione che ho provato quando mi ha detto che dipendevo da lui.
La sensazione di non essere nulla.
Di non avere nulla.
Di essere sconosciuto persino a me stesso.
Alzo gli occhi al cielo uscendo dalla doccia.
Le temperature sono scese, da quelle settimane bollenti di agosto, ma niente di drastico.
Fa un caldo moderato, ancora ammissibile, e sento persino un brivido corrermi sulla spina dorsale, lungo la pelle fresca ancora fradicia d'acqua.
Raggiungo il mio asciugamano sul bordo del lavabo.
Parlo con Tsukki, la sera.
Non con lui, non con quello vero.
Con quello che esiste dentro di me.
Ho sempre pensato che fosse la mia forza. Che fosse l'unica cosa davvero meritevole di essere amata, tra tutte quelle che conoscevo.
La sera chiudo gli occhi nel mio letto, litigo con le lenzuola alla ricerca di un punto comodo, che non sia troppo freddo, o troppo caldo, e mi accoccolo su me stesso.
Gli racconto le mie giornate.
Mento a me stesso e fingo che sia tutto come prima.
Parlo con la mia testa.
Immagino le sue ciglia bionde che sbattono di fronte al mio viso, i riccioli morbidi, il viso elegante e l'espressione interessata.
Mi sento come una di quelle ragazzine nei romanzi rosa.
Quando dicono che la loro vita sembra solo sofferenza quando il personaggio maschile, bello, strafottente e cattivo, le lascia.
Ma sotto sotto, so che c'è una differenza abissale.
Nei romanzi le protagoniste vengono lasciate sempre per un motivo. Che nasca da loro, o dall'altro, il motivo c'è sempre.
E io, invece, sono solo per nulla.
Per una decisione che spettava a me prendere.
Per aver fallito qualcosa di così semplice.
Sono arrabbiato, non lo nego. Con Tsukki e con me stesso, per quello che mi sono permesso di farci.
Non riesco a dargli la colpa.
So solo annegare nella mia autocommiserazione e mettere in linea perfettamente le mie responsabilità.
Le cose che potevo fare meglio, le occasioni che non ho colto.
Kei mi ha lasciato con una di quelle frasi del cazzo, alla fine.
Il discorso era più ampio, ma la scusa era quella.
"Ti lascio perché ti amo troppo".
Che cosa dovrebbe voler dire? Mi lasci per me stesso? Mi lasci perché impari ad amarmi, eh?
Non ha senso.
Non c'è nulla che valga la pena di essere amato.
Mi lancio un'occhiata di sbieco sullo specchio.
Sono sempre stato così... anonimo?
I miei occhi sembrano spenti.
Lego i capelli bagnati in una mezza coda che non ho voglia di asciugare, strofino delicatamente tutta la superficie del mio corpo nel tentativo di trascinare via le gocce d'acqua dalla distesa lentigginosa che è la mia pelle.
Stupide lentiggini.
Quante volte le ha baciate dicendo che erano la cosa migliore di me.
Stupide, stupidissime lentiggini.
Non servite a nulla.
Allungo il braccio verso lo spazzolino.
Non ho voglia di uscire.
Devo, ma non ho voglia.
Mi sono rifiutato di mettere piede fuori dal mio dormitorio da quando sono arrivato, ma l'ultimatum del responsabile delle matricole è stato piuttosto chiaro.
So che pensa di farlo per me, ma di me che cazzo ne sa?
Nemmeno io ci capisco nulla, di me stesso.
Figurati lui.
Ed eppure, dominato dall'autorità di qualcuno che non posso ignorare, perché mi lamento ma alla fine faccio sempre quello che vogliono le altre persone, sono qui a prepararmi per uscire.
Prepararmi è un parolone.
Diciamo che sto cercando di lasciare il mio stato di rifiuto tossico per mettere piede all'aria aperta e non uccidere nessuno con la mia fulminante trasandatezza.
Non so cucinare.
Non è colpa mia se ho mangiato ramen istantaneo fino ad oggi.
Mi costringo a mettere un po' di crema sul viso.
Piangere tutti i giorni fino a finire la voce in gola mi ha seccato tremendamente la pelle, e per quanto non abbia alcuna voglia di prendermi cura del pallido riflesso nello specchio, vorrei evitare un'eruzione cutanea per la disperazione.
Che sfigato, che sono.
Rischio la dermatite perché piango troppo.
− Sto per uscire di casa, Tsukki. Non ho tanta voglia, ma tu mi diresti che faccio bene a farmi degli amici. Vorrei che fossi qui a proteggermi. - dico di colpo ad alta voce, parlando a me stesso.
Mi sembra quasi di sentirlo rispondere.
Di vederlo sorridere a metà e sussurrarmi che va tutto bene, che c'è lui.
Ma lui non c'è.
E io devo imparare, forse, a cavarmela da solo.
Ho scelto dei vestiti normali.
Niente delle combinazioni improponibilmente eccentriche che mi costringeva a indossare Suga quando ancora facevo il liceo, ma nemmeno le cose peggiori che possiedo.
Giusto un paio di jeans larghi e una maglietta da infilare sotto la vita alta.
Mi vesto in silenzio, ascoltando pacificamente il rumore della solitudine che mi mancherà tanto quando, fra qualche minuto, mi infilerò fra le porte strette di un qualche bar economico.
Serve per costruire il nostro spirito di gruppo, quest'uscita. Per far conoscere fra di loro le matricole, per darci qualcosa da fare, creare le prime amicizie che nel corso degli anni saranno così importanti per noi.
Non voglio.
Andare avanti.
Mi rifiuto.
Di conoscere gente nuova e ammettere a me stesso che sto cambiando.
Voglio rimanere il Tadashi di prima, quello timido e insicuro che si protegge dietro Tsukki. Il suo Tadashi, quello che amava.
Non voglio diventare diverso.
Prendo le chiavi della stanza e le infilo in tasca, il portafogli, il cellulare, infilo una felpa a caso.
Quando esco dalla stanza cerco di evitare le persone.
Stiamo andando tutti dalla stessa parte, e lo so, ma non necessariamente devono sapere chi sono.
Il mio progetto è salutare il responsabile delle matricole, sedermi al bar, ordinare quanta più tequila il mio corpo riesca ad accettare, ubriacarmi e andare a dormire.
Gran serata.
Sfuggo dalla fiumana di miei coetanei prendendo le scale di sicurezza dietro la porta di camera mia.
Sono stato abbastanza fortunato da poter avere una delle stanze all'inizio del corridoio, quindi mi evito la penosa sfilata lungo il corridoio in un secondo.
Il vento fischia attraverso le finestre semichiuse.
Farà freddo, stasera.
Dovevo prendere qualcosa di più pesante.
Poco m'importa, in realtà.
Ho ben presente il bar in cui ci siamo dati appuntamento, penso di averlo visto gremito di persone le due volte che sono uscito a fare la spesa, rumoroso e luccicante.
Uno di quei locali per giovani studenti che vogliono svagarsi, immagino.
Pensavo che ci sarei stato con Tsukki, in un posto del genere, a bere una birra annacquata e forse troppo calda e a discutere pacificamente dei corsi che avevamo o avremmo fatto.
Mi immaginavo un futuro prevedibile, ed eppure così sicuro.
E invece, non ho niente di tutto questo.
Non ho niente e basta.
Nessuno sa che ci siamo lasciati.
Nemmeno io, in effetti, ci giurerei. Spero sempre che sia una pausa di riflessione, questa, ma andiamo, quale pausa ha mai significato qualcosa di diverso?
Ed eppure non mi sono confrontato con nessuno.
So che qui, a Tokyo, qualche mio amico c'è. Ci sono Kenma, e Kuroo e Bokuto e Akaashi, forse persino Hinata e Kageyama qualche settimana per gli allenamenti con le loro squadre universitarie, ma io non voglio vedere nessuno.
Non voglio iniziare una conversazione con "io e Tsukki ci siamo lasciati".
Ho troppo terrore di dirlo ad alta voce, per convincermi a farlo.
E quindi rimango nel mio limbo di muta e grigia solitudine, a sperare di svegliarmi una di queste mattine e rendermi conto che era tutto un enorme scherzo.
Non so, mi sembra più facile.
Che poi Tsukki immagino che non abbia detto niente a nessuno allo stesso modo. Se qualcuno fosse venuto a saperlo non mi sarei risparmiato tutti i messaggi di conforto o aiuto da parte dei miei amici.
Ma forse mi aspettavo che, come in tutte le cose che ho avuto esperienza di vivere, fosse proprio Tsukki a levarmi il pensiero comunicandolo al mondo.
Alla fine, la realtà è sempre una.
Io, da solo, non sono in grado di fare niente.
L'aria è effettivamente fredda come mi aspettavo.
Di quel freddo estivo che alla fine non è definitivamente gelido, ma sicuramente più frizzante del calore del giorno.
Ho i capelli bagnati, porca puttana.
Dovevo asciugarli.
Dovevo fare un sacco di cose.
Ma non le ho fatte.
E ora, è troppo tardi per rimediare.
Delle cose che Tsukki mi ha insegnato, alcune le ho perse quando mi ha detto, quel giorno, che avevamo bisogno di una pausa.
Primo: non si fuma.
Tsukishima diceva che mi faceva puzzare e che non era affatto attraente, che faceva male, che mi sarebbe venuto un tumore e la voce rauca.
Ma Tsukki non c'è più, ora.
E sono nervoso.
Per cui con tutto il senso di colpa del mondo, sapendo di fare qualcosa che lui odiava, scavo nell'unica grande tasca della felpa e tiro fuori il mio pacchetto di Marlboro malconcio.
Dovrei trattarle meglio, le sigarette. Che costano come l'oro.
Infilo il filtro fra le labbra, faccio scattare la rotellina dell'accendino, la fiamma che si riflette contro i miei occhi.
Il primo tiro è sempre il migliore.
So che in realtà è la dipendenza da nicotina che viene improvvisamente soddisfatta, a farmi stare bene, ma a prescindere da questo, meglio di niente, no?
Le volute di fumo tingono l'aria della notte, mentre cerco di capire quanta gente ci sia.
Lo vedo, il responsabile, lui e le sue spalle larghe, la sua risata rumorosa, che naviga fra i corpi delle matricole come se fosse nel suo elemento.
Mi era sembrato simpatico.
Tsukki avrebbe detto che era "troppo rumoroso". Non gli sono mai piaciute le persone che attirano l'attenzione.
Rimango a fumare ancora qualche minuto, ad osservare le persone nell'emozione trascendentale della nuova vita universitaria che stanno vivendo.
Vorrei potermela godere anch'io.
Ma senza Tsukishima, non penso di potere.
In ogni caso affondo nel mio rammarico finché ogni singolo grammo di tabacco si è espanso nell'aria e nei miei polmoni e i polpastrelli bruciano con il filtro.
Scusami, Greta Thunberg.
Ma butterò la sigaretta per terra.
Con tutta la nonchalance del mondo lo faccio, tento di radunare tutto il coraggio che possiedo, e entro nel locale.
Puzza di birra.
La gente urla.
Fa caldo.
Voglio andarmene.
Mi faccio strada tra la gente verso il bancone.
Saluterò il responsabile, rimarrò qui dieci minuti, e poi me ne andrò.
Non posso tollerare questo casino.
Prendo un grande respiro e mando giù qualsiasi pensiero io abbia.
Ormai ci sono, tanto vale fare in fretta.
Non riesco a sorridere in modo ampio e genuino quando le sue sopracciglia si alzano e il suo volto si apre mentre mi riconosce, ma mi impegno per mettere su un'espressione quantomeno cortese.
− Yamaguchi? Sei tu? - chiede, e mi fissa in un modo che non comprendo finché non sono a pochi passi da lui.
Mi invita con lo sguardo a sedermi.
− Alla fine sono venuto, ha visto? - mi concedo di scherzare.
Scuote la testa.
− No, no, dammi pure del tu. Non c'è bisogno di essere formali! - esclama poi, e un'altra volta, sorride a trentadue denti.
Cosa c'è da essere così felici?
Non che la mia presenza possa rallegrarlo a questo modo.
− Allora, come sta andando? Ti stai divertendo? - mi incalza, un gomito che scherzosamente si sporge contro di me.
− Sono arrivato adesso. -
Che musone.
Che infelice rottura di coglioni, che sono.
Eppure non perde la verve.
Non perde quel modo di fare ridicolmente... felice.
Anzi.
Si allunga verso di me.
− Vuoi qualcosa da bere? - si offre.
Non metabolizzo.
Non ci penso, perché immagino di non meritarmelo e di non essermi mai dato una possibilità, da solo.
Non faccio caso al fatto che mi stia offrendo qualcosa.
Annuisco, mi limito ad un sorriso poco convinto.
− Birra? Vino? -
− Due shot di tequila. -
Spalanca gli occhi castani, poi alza le mani ridacchiando.
− Vogliamo andarci giù pesanti? Perfetto, non dico mai di no ad una sfida. -
Potrei aver fatto una cazzata.
Le regole di Tsukki, quelle che dicevo di aver dimenticato qualche minuto fa.
Secondo: non bere con chi non conosci, è pericoloso.
Ed eppure, mentre vedo il liquido ambrato scendere nei bicchierini, faccio finta di non averla mai sentita, questa regola.
Anzi, prendo il vetro fra le mani, lo sbatto contro il bordo del suo, e mando giù.
Brucia, sulla gola.
Brucia come fuoco.
Non bevo da un sacco.
− Pronto per il secondo? O hai bisogno di un attimo di pausa? - mi chiede il responsabile, che mi pare si chiami Eisuke, o Eisaku, non ricordo.
Scuoto la testa.
Non ho bisogno di un attimo di pausa.
Ho bisogno di una fottuta sbronza.
Prendo il secondo bicchierino, lo fisso dritto negli occhi.
− Alla tua. - dichiaro.
Imita il mio gesto.
− Alla tua. -
E mando giù.
Quanto ci metto ad ubriacarmi? Quattro shot e un bicchiere di birra.
Nemmeno mezz'ora dopo sono completamente sfasciato contro il bancone del bar, Eisuke - perché si chiama Eisuke −, nuovo migliore amico del momento, con il mento appoggiato sulle braccia e i grandi occhi castani che mi seguono.
− Quindi, fammi capire, Tsukki ti ha lasciato perché dice che sei una palla al piede e tu non sai come andare avanti? - riassume, riprendendo gli ultimi venti minuti del mio blaterare sconsiderato.
Annuisco convintissimo.
− Ah-ah. Sto una merda. Non so che cazzo fare. Voglio morire. -
− Non dirlo nemmeno per scherzo! -
Mi spavento per un istante quando mi urla addosso, ma tutta la mia paura sfuma in una risata idiota quando vedo la sua espressione.
È buffa.
− No, no. Non mi ammazzo. Aspetto che mi rivoglia. - concludo.
C'è una vena incerta nella mia voce, triste.
Ma sincera.
È vero.
Aspetto che le cose riprendano la piega accogliente che avevano quando mi riposavo fra le sue braccia e tutto questo sarà uno stupido ricordo.
− E se lo chiamassi? - mi chiedo poi.
Eisuke mi blocca il bracco con la mano.
− Te ne pentiresti domani mattina. Sei davvero sicuro di volerlo chiamare da ubriaco? -
No, giusto, giusto.
Se gli faccio schifo da sobrio, immagina così.
Alzo le spalle.
− Già, hai ragione. Che vita di merda. -
Allungo la mano verso il bicchiere di birra praticamente vuoto, lo scolo.
Terzo: se bevi devi salire di gradazione, non scendere. Ti verrà mal di testa e la sbronza ti farà male, se mischi.
Pare che niente serva.
− Non vorrei sembrare maleducato, Yamaguchi, ma non ti è mai passato per la mente che ora sei più... libero? - mi sento chiedere poi.
Libero?
Che parola divertente.
− Essere "libero", come dici tu, è uno schifo. Sai che merda dover sempre prendere le decisioni per me stesso. - ribatto.
Prende aria, schiocca la lingua.
− Il tuo problema è più grande del previsto. -
Il mio problema?
Il mio problema è Yamaguchi Tadashi.
− Smetti di dire stronzate e prendimi qualcos'altro da bere. -
Ridacchia, chiama il barista, qualche istante dopo altri due bicchierini di tequila sono di fronte al mio naso.
'Fanculo, mi serviva.
Ne tiro giù uno senza pensarci due volte.
− Lo sai almeno perché ti sto offrendo da bere, no? Non che pretenda niente, capiamoci, ma nemmeno a far finta di nulla. - mormora qualche istante dopo.
Ah, ma cazzo.
E io mica ci avevo pensato.
− Perché sei gentile? Che altro motivo dovrebbe esserci? -
− Dio, Yamaguchi, ma quanto poco credi in te stesso? -
Scoppio a ridere, il calore dell'alcol che mi si spande dal petto fino al viso, scalda profondamente la gola, le guance.
Piango da quanto rido forte.
− Io? -
− Tu. -
Lui è serio.
Serio, non incazzato, ma serio.
− Ti sei visto, Yamaguchi? -
Alzo una spalla.
− Sì. E mi sono visto davvero triste e davvero solo. -
Che spasso, devo essere.
Mi prende un polso con la mano. Stringe, non da farmi male, ma come se volesse attirare l'attenzione del mio volto oltre la nebbia che non distinguo dell'alcol.
− Sei bello, Yamaguchi. E single. - dice qualche istante dopo.
Oh...?
Ehm, che?
− Non sono single! 'Fanculo, vuoi dire che Tsukki mi ha lasciato? - ribatto di colpo.
Spalanca gli occhi.
− Me l'hai detto tu che ti ha lasciato. E poi non era quello che intendevo. -
Scuoto la testa.
Mi ha lasciato?
Naah, Tsukki non lo farebbe mai.
Ridacchio ancora una volta.
− Ho detto una cazzata, non è vero. Non ci siamo lasciati. Non ci lasceremmo mai. -
− Che? -
Non so bene cosa stia succedendo.
So che sono ubriaco, che i miei riflessi sono lenti, che nel mio cervello si sta lentamente mescolando tutto.
Sta diventando una melassa indistinguibile, che quello che credevo non esserci ora c'è, che la realtà mi sembra diversa.
Prendo il cellulare dalla tasca.
− Ora ti faccio vedere. Guarda, questo messaggio me l'ha scritto giusto un'ora fa... − inizio scorrendo fra le app con il sorriso del mio ragazzo ancora nello sfondo, perché Tsukki è il mio ragazzo.
Apro la chat.
[Tsukki <3] >> tre minuti e arrivo << consegnato: 26/08
Cazzo.
Alzo la testa.
− Che giorno è oggi? -
Eisuke ha qualcosa di rassegnato, nello sguardo.
Come se stesse parlando con un bambino scemo che non capisce.
− Il nove settembre. -
Doccia fredda.
La realtà è una doccia fredda.
La realtà fa schifo.
Non la voglio.
− Vattene. - sbotto.
− Cosa? -
− Vattene. Non voglio sentire queste cose. Mai più. -
Non so perché sia stato cattivo.
Ma lui mi dice la verità.
E io, la verità, non la voglio proprio.
E invece il responsabile, che non ha capito niente, confuso, preso alla sprovvista, non fa altro che barcollarmi di fronte.
− Yamaguchi? -
− Ti ho detto di andartene, cazzo! -
Spaventato.
Da me.
Sempre quello sguardo, ha la gente, con me.
Quello della persona soffocata.
Quello di chi vuole scappare.
− Io non... non pensavo che sarebbe finita così. Sai, volevo offrirti da bere perché pensavo fossi carino, ma tu hai qualcosa che non va. - si ritrova a dirmi alla fine, il tono che non è nemmeno offeso, solo... ferito, credo.
− Certo che ho qualcosa che non va! Tsukki mi ha lasciato, ecco cosa c'è che non va, figlio di puttana. - sibilo fra i denti.
− E inizio a capire il perché. - è l'ultima cosa che dice.
Fa male.
Sentirlo.
Fa un male della Madonna.
Eisuke scompare fra la gente, lasciandomi solo come gli avevo chiesto.
Idiota, Yamaguchi.
Dovevi stare qui solo per dieci minuti, non fare niente, salutare e andartene. E invece sei riuscito a farti odiare dall'unica persona gentile che avessi incontrato e ora sei ubriaco e solo in un bar pieno di sconosciuti.
Che poi il dormitorio è a due passi, ma cazzo.
Che situazione di merda.
Dovrei smettere di fare cose che so andranno a finire male.
Scavo nelle tasche dei pantaloni.
Ah, ci sono dei soldi.
Quanti?
Bastano.
Agito la mano verso il barista.
− Altri due. - chiedo.
Idea geniale.
Bere per coprire la sbronza.
Dovrebbero eleggerti capo di una centrale aerospaziale, visto il tuo genio, Tadashi.
Mi gira la testa.
Quando li mando giù uno dopo l'altro mi gira da matti la testa.
Mi sembra di essere in una giostra e non capisco davvero più un cazzo.
− Tsukki, dove sei? - mugugno ad una certa, non sapendo nemmeno bene perché.
− Non ci sono. Non ci sono più. Mi hai fatto scappare. - risponde.
È un'allucinazione?
Mi sembra di sentire per davvero la sua voce.
Forse è la mia testa.
Quanto cazzo ho bevuto?
− Perché? Non dovevi rimanere per sempre? Non dovevamo essere per sempre, noi? -
− Dovevamo. Ma poi hai rovinato tutto. -
Cazzo.
Cazzo, cazzo, cazzo.
Mi fa male il petto.
− Non mi vorrai mai più? -
− Mai più. -
Non so quando ho iniziato a piangere.
Non lo capisco bene.
Il tempo scorre, e a me sembra che invece non passi mai.
Qualcuno ha messo della musica.
La gente balla.
Forse era una discoteca.
Appoggio al fronte sulle braccia incrociate, il barista fa finta di non vedermi e mi lascia sedere.
Ho le braccia bagnate, voglio tornare a casa.
Sono stanco.
Ho mal di testa.
− Vienimi a prendere, Tsukki. - sussurro, poi.
Non risponde.
Ha smesso.
Non risponde più.
− Vienimi a prendere, cazzo! -
E, di botto, una voce mi risponde.
− Che? Tutto bene, tu? -
Mi deve aver sentito qualcuno.
Vorrei dire che va tutto bene, che stavo solo scherzando, ma un'altra ondata di ubriachezza mi avvolge e mi ritrovo nel giro di un secondo a singhiozzare.
− Vie... vienimi... vieni a prendere... − ripeto, come un mantra senza senso.
La persona che mi aveva sentito mi sa che è il ragazzo seduto al bar di spalle, davanti a me.
Si gira.
Si gira e penso di sapere chi è.
So solo che alza le sopracciglia.
− Ma tu... sì! So chi sei! Del Karasuno! - grida.
Karasuno.
Il liceo.
Bello, il liceo.
Entrare mano nella mano con Tsukki, le sue dita lunghe fra le mie.
Le sue labbra che sfregano su di me mentre mi saluta.
Piango più forte.
− Ehi, piccoletto, tutto bene? - chiede ancora la voce.
Johzenji. Ricordo la sua faccia in una divisa gialla, quando facevo il liceo.
Ma non è quello con il piercing alla lingua che ci provava con Shimizu, no.
È un altro.
Di nuovo, invece di rispondere, ricomincio a piangere.
Sempre, sempre più forte.
Il mio petto minuto scosso dal respiro affannato e gli occhi opachi per la quantità disumana di lacrime che stanno versando.
Il ragazzo si gira.
− Bob? Bobata? Bob? Dove cazzo sei quando servi... Bob! - grida, verso qualcun altro.
Bobata me lo ricordo.
Capelli castani, carnagione abbronzata, penso di averlo visto a qualche festa di quelle che i nostri compagni di squadra ci costringevano a sopportare.
Anche se non lo saprei dire con precisione.
− Futa, cazzo, e smetti di urlare, che ho mal di testa. - dice, raggiungendo il suo amico, barcollando.
Devono essere piuttosto ubriachi anche loro.
Il ragazzo di fronte a me si gira su se stesso, mi indica con lo sguardo, poi cerca di attirare la mia attenzione.
− Piccoletto, non mi ricordo come ti chiami. Ma io sono Futamata del Johzenji, e lui è Bob. Bobata, ma lo chiamano tutti Bob. Sai chi siamo? - prova a chiedere, con un tono ben più dolce e comprensivo di quello che mi aspettavo.
Annuisco, ma non rispondo.
Piango e basta.
− Cazzo, ma perché piange? Gli hai fatto qualcosa, Futa? - sento chiedere da Bobata a pochi centimetri da me.
− No, certo che no. Era già così quanto l'ho visto. -
− Miseria. Chissà cosa gli è successo. Che facciamo? -
− E che ne so io? Ti sembro un'infermiera? Già è tanto se non sono morto in questi vent'anni di vita, idiota. -
Sono buffi.
Riderei, se non fossi in queste condizioni penose.
Ma non ce la faccio.
− Bob, vai a chiamare Teru. Lui sa sempre cosa fare. - dice ad un certo punto Futamata, con un tono solenne nella voce.
Teru immagino sia Terushima.
Bobata scompare fra la gente.
Terushima me lo ricordo a tratti.
Sempre saputo che era il tipo attraente e malfidato che ti fa l'occhiolino dall'altra parte della rete solo per distrarti.
Tsukki diceva che odiava i tipi come lui.
Quelli che cambiano letto come cambiano le magliette e sembra sempre stiano flirtando con tutti.
Quarto: se ti dico che una persona è inaffidabile, lo faccio per te. Fidati del mio giudizio.
Ed eppure, non faccio nulla.
Non rifiuto la presenza di Futamata, con il suo viso gentile, a fianco a me, che mi guarda.
E quando sento la voce di Terushima, più impressa nella mia memoria di quello che mi aspettassi, non rifiuto neanche quella.
− Futa! Che è successo? - grida, dall'altra parte del locale.
Non lo vedo.
All'inizio, non lo vedo.
So solo che il ragazzo di fronte a me tira un sospiro di sollievo.
− Teru, salvatore della patria. - sospira, prima ancora che possa sentirlo.
Poi mi prende per una spalla, spinge e mi fa girare con la seduta dello sgabello su me stesso, finché la mia faccia piena di lacrime non è puntata all'ammasso di gente nel locale.
Più adulto.
Terushima sembra più adulto.
Non ricordavo avesse dei tatuaggi.
Non così tanti.
Ha le braccia piene.
I capelli sono gli stessi del liceo, l'undercut scuro e il ciuffo di un luminoso biondo chiaro, gli occhi grandi e di un'allegria che ti sembra contagiosa.
Mi osserva.
E io osservo, fra le lacrime, lui.
− Serve un po' di Yūji qui, eh? - dice dopo un istante, e sorride.
Mi ricordavo il suo sorriso più cattivo, più infido.
E invece è stranamente onesto.
Ma non so se posso fidarmi delle mie memorie. Se sono giuste, corrette, aderenti alla realtà, o se sono semplicemente il calco delle sensazioni che Tsukki assegnava alla gente.
− Piange da quando l'ho visto. Non sappiamo che cazzo fare. - spiega Bobata al suo fianco, colpendolo alla spalla.
Per coronare la frase un singhiozzo esce spontaneo dalla mia gola.
E poi succede qualcosa di cui non sapevo di avere bisogno.
Poi un paio di braccia solide, tatuate, si stringono attorno alle mie spalle, mi ritrovo il naso infilato in mezzo ad un paio di pettorali coperti solo da una di quelle canottiere accollate davanti ma tremendamente scollate sui fianchi, e una mano fra i capelli.
− Nessun problema. Conosco la cura a tutti i mali. - ridacchia, e mi stringe più forte.
Non so se a mancarmi fosse il contatto fisico.
Forse il calore delle persone.
Forse la sensazione di non essere da solo.
Ricomincio a piangere più forte.
− Su, su, piangi. Butta fuori tutto. - mi incoraggia, correndo con l'altra mano sulla mia schiena, strofinando affettuosamente in su e in giù.
Non c'è niente di malizioso nel modo in cui mi tocca.
− Devi essere stanco, bambino. Che serata, che hai avuto. - continua.
La sua voce è bassa, quasi rilassante.
Tiro su con il naso.
− Hai bevuto parecchio? -
− Mmh, sì. - mi costringo a rispondere.
− Quanto? -
Scuoto la testa contro il suo petto.
− Non lo sai? Wow, selvaggio. -
Mi viene quasi da ridere.
È ridicolo.
Non mi ritiro dalla stretta.
− Voglio andare a casa. - borbotto poi.
Quinto: non dire a nessuno sconosciuto dove abiti.
'Fanculo.
Sono stanco.
− Certo, certo. Ora aspettiamo che ti rimetti in piedi e poi io, Futa e Bob ti riportiamo a casa. Non ti preoccupare, va tutto bene. - riprende.
Quante persone ubriache deve aver soccorso per sapere esattamente cosa dire e come?
Non ne ho idea.
Ma al momento sono solo grato di poter allentare la corda.
Posso?
Devo.
− Un minuto... ancora un minuto. - mugugno.
− Tutto il tempo che vuoi. -
Futa e Bob, come si chiamano a vicenda, si guardano per un istante, poi il primo si lascia andare sullo sgabello dov'era seduto qualche minuto fa, al mio fianco.
− Sono stanco anch'io, tanto. Morto. -
− Io sono solo ubriaco. Penso di aver bevuto anche la benzina, stasera. - dice l'altro.
Teru ridacchia e lo sento contro di me.
− Voi due siete due folli. Un anno che siete via di casa e se non fosse per me sareste due barboni del cazzo pieni di vino. -
Bob gli punta il dito addosso.
− Ha parlato. Sei un sacco pulcioso di malattie veneree. -
Arriccio le sopracciglia.
Terushima mi stringe come per rassicurarmi.
− No, no, tranquillo. Uso sempre il preservativo. -
Ho già detto che è ridicolo? No, perché lo è. Un coglione, intendo.
− Come se fottesse a qualcuno. E a proposito, dove sei andato a ripescarlo, Bob? Dov'eri? -
Bobata alza le spalle.
− Boh, che ne so. Parlava con una. -
Terushima alza le spalle.
− Una delle ballerine. Le ho chiesto se potevo bere il mio drink dai suoi capezzoli. -
Eh?
− E lei? - chiede Futa.
− Lei mi ha detto "perché dovrei fartelo bere dai miei? Ora voglio berlo io dai tuoi". -
− E tu? -
− Beh, mi sono detto, perché no, Yūji, perché no? Perché non abbattere i pregiudizi della mascolinità tossica e ammettere che i capezzoli maschili hanno lo stesso valore di quelli femminili? Perché non combattere anche oggi il patriarcato? Le ho detto di sì. -
− E poi? -
− E poi mi ha detto che scherzava e che preferisce le donne in questo periodo. -
Bob scoppia a ridere.
− Ovviamente le ho detto che rispettavo e capivo la sua scelta, che era bellissima e qualsiasi donna sarebbe stata fortunatissima ad uscire con lei, mi sono scusato se l'ho messa a disagio ma che stavo ovviamente scherzando, lei mi ha risposto che non c'era nessun problema, e poi Bob mi è venuto a ripescare. -
Non so quando ho smesso di piangere.
So solo che rido.
Di punto in bianco, rido.
Non ha senso.
Non ha il minimo senso.
Perché uno dovrebbe essere così... insomma... così sfrontato per poi... rispettare le scelte altrui? Essere rispettoso?
Cioè, insomma.
I cattivi ragazzi non parlano di "patriarcato".
I belloni tatuati e sciupafemmine se ne battono altamente delle preferenze sessuali altrui.
Terushima è... solo così contraddittorio.
Smetto di ridere con quello che sembra un singhiozzo strozzato, e ritrovo Terushima che mi fissa dall'alto, sorridendo appena, cercando nel mio viso qualcosa.
− Stai meglio, bambino? -
Annuisco.
− Yamaguchi Tadashi. -
Mi lascia andare.
Non avrei voluto, perché mi sento tremendamente solo, ma mi lascia andare.
Si stacca.
− Mi spiace se ti ho abbracciato di colpo, spero non sia stato brutto, per te. Ma per esperienza le sbronze tristi vanno trattate con un po' d'affetto. - si giustifica, alzando le mani come per scusarsi.
− No, no, davvero. Non è un problema. Sto meglio. Ho solo sonno. - rispondo, rendendomi conto in un attimo che sì, sono ancora appannato, ma forse il pianto liberatorio ha lasciato uscire qualcuna delle mie stupide preoccupazioni e che mi sento quantomeno... più leggero.
La testa mi sembra così pesante, però.
− Perfetto. Sei pronto per andare a casa? -
Mi tasto la faccia con le mani.
Dev'essere un casino, tutta gonfia e rossa. Chissà quanto faccio schifo, conciato così.
− Sì. -
L'uscita non è distante.
Futa e Bob mi si chiudono ai fianchi come se volessero proteggermi dalle persone che ballano, Terushima dietro che mi spinge delicatamente dalle spalle per aiutarmi a camminare.
Mi reggo in piedi, ma un po' traballo.
Quando l'aria si fa improvvisamente da pesante e soffocante a fresca e libera, mi sento rinato.
Respiro a pieni polmoni appena esco.
− Si sta meglio fuori, vero? - commenta Futa, quando mi vede fermarmi.
Sorride.
Anche Bob sorride, mentre mi aiuta prendendomi per un braccio a fare qualche altro passo per togliermi dall'entrata e mi appoggia la schiena contro il muro.
Teru si gratta il retro del collo.
− Fa un freddo cane. -
− Sei tu che ti vesti come se facessi lo spogliarellista. Copriti, la prossima volta. -
Ridacchio alla battuta.
Infilo le mani dentro la felpa.
Una, me n'è rimasta una.
Sfilo la sigaretta dal pacchetto, la metto fra le labbra.
Ho perso l'accendino.
Cazzo, dev'essermi caduto dentro.
− Ti serve da accendere? - chiede poi Terushima, la rispettiva sigaretta fra le dita.
Sorrido, annuisco.
L'accende e inspiro con calma.
Meglio.
Mi sento meglio.
Bob e Futa ci seguono. Sembra che il Johzenhi sia un ritrovo di tabagisti, insomma.
− Allora, bambino, ci vuoi dire perché stavi piangendo? - chiede poi, alla fine, Terushima.
− Se ti va. - aggiunge un amico.
− Ovviamente. - completa l'altro.
Posso dirlo ad alta voce?
L'alcol mi annebbia, ma so cosa sta succedendo, ora.
Me ne rendo conto.
− Tsukishima mi ha mollato. Da un giorno all'altro. - dico, alla fine.
Cazzo, se fa male.
Malissimo.
Mi pugnala.
− Il tipo alto con gli occhiali. -
− Lui. -
Silenzio.
Fumo con le dita che tremano.
Potrei ricominciare a piangere.
− Se ti ha lasciato c'era qualcosa che non andava. Non demonizzarti per qualcosa che non è andato per il verso giusto. - sento, alla fine.
Terushima ha la voce calma.
Sincera.
− È stata colpa mia. Ma non capisco perché. -
Scuote la testa.
− Bambino, basta. Non risolverai la questione stasera, e sicuramente non se continui a farne una malattia. Lascia andare per un po' e le risposte verranno da sole. -
− Ma... −
− Ti ha portato da qualche parte, fare così? Darti la colpa e sguazzarci dentro? -
Bob alza le spalle.
− Secondo me no. - commenta.
− Ecco, nemmeno secondo me. Perdonati e cerca di calmarti. Alla fine capirai che cos'è successo, ma non se continui a pensarci in modo ossessivo. -
Perdonarmi?
Perdonarmi.
L'ho mai fatto?
In tutta la mia vita, l'ho mai fatto?
Mi sono mai perdonato, per quello che ero?
Ho mai guardato il mio riflesso allo specchio dicendogli che poteva lasciar andare?
Mi sono mai detto che le cose succedono?
"Va tutto bene, Tadashi, tutto bene" mi diceva Tsukki, sempre.
Ma io, io me lo sono mai detto?
Non lo so, non me lo ricordo.
− Voglio andare a casa. - trancio.
Terushima annuisce.
− Certo. Finiamo di fumare e ci incamminiamo. Vivi al dormitorio? -
Annuisco.
− Anche voi? -
− No, no. Siamo coinquilini da quando abbiamo iniziato. - risponde.
− Che cosa studiate? -
Sembrano un agglomerato di idioti.
Per quello la risposta mi sorprende.
Bob si indica con il pollice.
− Medicina. -
Futa si accoda.
− Economia. -
L'ultimo è Terushima.
Inaspettato.
− Storia dell'arte. -
Storia... storia dell'arte?
Mi viene quasi naturale, avere un'espressione confusa.
− Non guardarmi così, è che un'opera d'arte ne riconosce un'altra quando la vede, ok? -
Cretino.
Ridacchio.
− Sei davvero scemo, Terushima. -
− Oh, ma credi che non lo sappia? È il mio fascino. -
Divertente.
Il petto continua ad essere una voragine che mangia il resto di me, ma fa meno male.
Mi sembra di... lasciar andare. Almeno un po'.
Butto il mozzicone per terra una seconda volta.
Terushima si china per raccoglierlo, mi sgrida, butta il mio e il suo nel cestino.
− Non si inquina l'ambiente. Nemmeno se sei ubriaco. -
− Scusa, mamma. -
Alza le spalle.
− Prendimi per il culo, su. Ma quando non ci saranno più risorse naturali disponibili per l'approvvigionamento non dirmi che non te l'avevo detto, pericolo pubblico. -
Ridacchio.
Futa e Bob si guardano fra di loro, si lanciano uno sguardo che non decifro.
− Io e Bob dobbiamo fare... una cosa. - dice Futamata dopo un istante.
Bobata si accoda.
− Una cosa importantissima. -
− Una mega cosa. -
− Una super cosa. -
Eh?
Ma che gli prende?
Terushima sembra pensarla come me.
− In che senso? -
− Portalo a casa tu, Teru. Noi dobbiamo fare... la cosa. - risponde poi Bob.
− Ma... −
− È troppo importante, la cosa. -
Si prendono per mano a vicenda, come se uno volesse trascinare l'altro ma si fossero trovati a fare la stessa cosa contemporaneamente.
Futa china la testa verso di me.
− Rivediamoci, Yamaguchi. -
− Già, dopo la cosa. - completa l'altro.
Scompaiono.
Non ho capito.
Niente, ho capito.
Ma tanto vale.
− Sono due cretini, quei due. - borbotta Terushima, guardandoli allontanarsi.
− Tu hai capito dove stanno andando? -
− Mi stanno facendo un favore. -
Piego le labbra.
− Un favore? -
− Naah, non è niente. Non ti preoccupare. Andiamo a casa, piuttosto. Prima che ti addormenti per strada. -
Indico con la testa dall'altra parte della strada.
− Sto là. Non c'è bisogno che mi porti. -
− Scherzi? Sono un galantuomo, io. -
Il mio sterno trema con l'ennesima risata sfiatata.
Non pensavo di essere nemmeno più in grado di ridere.
Terushima non mi tocca, non mi lega un braccio alle spalle per portarmi.
Rimane ad una distanza educata, lasciandomi i miei spazi, aspetta che cammini.
Aspetta che gli chieda aiuto, se mi serve. Non vuole invadere la mia area personale.
− Devo chiedere scusa al mio responsabile. - mi esce dopo qualche passo, quando mi ricordo di un paio di espressioni confuse sulla sua faccia di colpo.
L'aria fresca mi rende più lucido.
− Chi è? -
− Eisuke, si chiama. Non so il cognome. -
Terushima storce il naso.
− Quel tipo mi sta antipatico. È il tipico bravo ragazzo super viscido che pensa di meritarsi le cose solo perché fa il minimo indispensabile. -
− In che senso? -
La strada è davvero breve, ma Terushima non si ferma quando sono di fronte al dormitorio.
Entra con me.
− Sai, è di quelli che si vantano di lasciare uscire la loro ragazza quando vuole o di rispettare le persone. Non sono cose di cui vantarsi. Sono la base dell'educazione. -
Oh, capisco.
Mi arresto di fronte alle scale di sicurezza.
No, niente scalini.
Ascensore.
Terushima lo chiama per me.
− Non salirò, non voglio seguirti fino alla tua porta, non voglio sembrare pressante. - mi dice, aspettando.
− Non è un problema. - ripeto.
Lui, invece, è fin troppo rispettoso.
Correttissimo, per essere uno che sembra cambiare partner ogni secondo.
− Sicuro? Non lo stai dicendo perché sei ubriaco? -
− No, no. Fidati. È solo il numero della mia stanza, dopotutto. -
Rimaniamo in silenzio confortevole, nell'ascensore.
La porta, come ho detto prima, è una di quelle proprio all'inizio del corridoio.
− Siamo arrivati? - chiede.
− Ah-ah. -
Cerco le chiavi.
Ma non ho gli occhiali e sono sbronzo.
− Apri per me. -
Obbedisce.
Apre la porta e mi rimette il mazzo in mano.
Devo dire qualcosa.
So di dover dire qualcosa.
Ma mi precede.
− Posso... insomma... non voglio sembrare invadente, ma mi daresti il tuo numero? Io, Bob e Futa usciamo spesso, e mi sembra di aver capito che non conosci molta gente qui. Se ti andasse, ovviamente. - dice di colpo, un tono insicuro nella voce che trovo persino tenero.
Sesto: non dare il tuo numero in giro.
Annuisco.
− Certo. Sempre meglio che ubriacarmi da solo. -
Tira fuori il telefono dalla tasca dei jeans.
Strizzo gli occhi per inserire i numeri, poi salgo sulla barra del contatto.
Come voglio essere chiamato?
Chi voglio essere?
Chi posso essere?
Chi sono?
Digito un "Tadashi".
Sono Tadashi.
Non il ragazzo di Tsukki, non più.
Non il pinch server del Karasuno.
Non il lentigginoso timidino che prende voti nella media e non si fa notare.
Io, sono Tadashi.
Sorrido, prima di lasciarmi avvolgere dalla mia stanza.
− Buonanotte, Terushima. -
Lo sento sospirare e giuro di vedere il suo sguardo scintillare prima che la porta si chiuda.
− Buonanotte, Tadashi. −
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