capitolo 43 - Chloe
Chloe
Il cameriere porta le nostre ordinazioni, fisso il mio piatto, ma ciò che riesco a provare è solo questo senso di angoscia che non mi abbandona da quando Andrea è uscito in quel modo da casa mia.
Mark cerca di intrattenermi con discorsi vari ai quali partecipo con mezzi sorrisi forzati e qualche risposta data a monosillabi, ma quando afferra la mia mano, posta sul tavolo, la voglia di ritrarmi è urgente, anche se non lo faccio.
«Ascolta Mark, ti ho voluto vedere questa sera per un motivo.»
Credo sia proprio giunto il momento di affrontare la realtà.
«Parlare di noi.»
Il mio sguardo si sposta dai suoi occhi scuri come la pece, alle nostre mani, e mi dispiace non riuscire a provare l'emozione che ho sempre desiderato, che ho sempre immaginato.
Questa è tutta colpa di Andrea che continua a tormentare i miei pensieri, si è impossessato dei miei sensi e non sono in grado di distinguere sogno e realtà quando si tratta di lui.
« Chloe, potremmo andare a parlarne a casa mia, dopo cena.»
Il ragazzo che ho davanti era perfetto ai miei occhi, eppure, ora che mi sta quasi esplicitamente dicendo con questo invito che mi desidera, io riesco solo ad immaginare ancora le labbra di un altro uomo sulle mie.
Abbasso lo sguardo non potendo più sostenere quello alquanto lussurioso di Mark, ritraggo la mano sentendomi a disagio e cerco di coprirmi nonostante non sia scollata, i pensieri dell'uomo che ho accanto sono inequivocabili e non mi piacciono queste attenzioni da lui.
È inutile, qualunque cosa faccia, dica o succeda, la mia mente contorta finisce sempre per riportarmi ad Andrea, è diventato un tormento.
Sospiro sconfitta da emozioni che ormai sono sotto pelle e non vanno via neanche se lui è lontano, mi basta ricordare le sue labbra sulle mie per riavere i brividi sulla pelle, mi basta immaginare i suoi occhi davanti i miei per sentire un nodo allo stomaco.
Cazzo, questo non va bene.
« Chloe, mi stai ascoltando?»
Mark mi richiama, mi ero persa in uno dei miei sogni ad occhi aperti, e il protagonista non è di certo il ragazzo moro che mi è seduto di fronte.
Ma come faccio a dirglielo?
«Scusa, pensavo al lavoro.»
È la prima cosa che mi è saltata in testa.
«Non lasciarti contagiare dal tuo mentore, per favore, lui poverino non ha nient'altro a cui pensare, e nessuno, ma tu hai me.»
Si lamenta con aria infastidita per poi finire la frase con un sorriso, ma le sue parole mi incuriosiscono e fanno paura in egual modo.
«Che vuoi dire?»
Chiedo guardinga.
Mark addenta un boccone di carne e poi risponde finalmente.
«Bhe, quel che resta della sua famiglia vive lontana, in Italia, il padre è meglio non nominarlo perché diventa un cane feroce, la madre è morta molti anni fa, non riesce a tenersi una donna, e se devo essere sincero non credo durerà con Caroline..."
«Cosa? La madre è morta?»
Lo interrompo bruscamente, ma la notizia sulla madre mi ha sconvolto.
« Sì, bhe, non è una cosa risaputa in effetti, lui non parla di sé facilmente, io l'ho scoperto per caso, ma stando nello stesso ufficio per tre anni, succede di scambiare alcune confidenze, o ascoltare telefonate.»
Spiega quasi sottovoce, quasi come se fosse un segreto da dover custodire.
Mi abbandono del tutto sulla sedia, fisso un punto indefinito e ripenso alle parole usate poche ore prima, non appena ho nominato la madre il suo viso è mutato, la mandibola serrata, e poi, quella ferocia improvvisa.
« Allora, vuoi anche il dolce? Io direi che potremmo mangiarlo da me.»
Mark accarezza il mio braccio, alzo gli occhi su di lui ed esprimono audacia, ma ne rimarrà deluso.
Mi alzo indossando la giacca bianca, afferro il cappotto e la borsa, mentre sto già praticamente andando via, mi scuso con lui salutandolo senza dargli troppe spiegazioni, solo dicendogli che devo scappare via.
Sono già fuori dal locale, l'aria pungente di New York mi investe, indosso subito il cappotto blu accesso e la sciarpa bianca e mi dirigo verso la metro più vicina nonostante un po' mi senta in colpa per aver lasciato Mark lì, così.
Lungo tutto il tragitto ho pensato a cosa dire ad Andrea, a come scusarmi, in realtà non so nemmeno se lo troverò a casa.
Finalmente vedo il suo palazzo, questi tacchi mi costringono a camminare piano purtroppo, sono stata fortunata ad arrivare fin qui così velocemente, nonostante l'ora tarda sono riuscita a prendere subito la metro prima che scattasse l'ora notturna e dovessi attendere oltre.
Arrivo davanti il citofono e col dito a mezz'aria, pronta a schiacciare questo pulsante, mi blocco con delle domande che mi tormentano all'improvviso.
E se non fosse solo? Cosa dovrei dirgli? So di tua madre? E se mi mandasse via?
«Suono io per te, visto che non hai il coraggio?»
Una voce maschile arriva alle mie spalle facendomi lanciare un gridolino di paura e voltare di scatto.
Due occhi verdi e marroni mi osservano a pochi metri e un sorrisetto da schiaffi mi fanno comunque tirare un respiro di sollievo.
« Andrea,mi hai fatto paura.»
Porto la mano istintivamente al petto chiudendo per un attimo gli occhi.
« Che ci fai qui?»
Gli chiedo confusa.
« In realtà, dovrei essere io a chiederlo a te, in fondo questo è il mio quartiere e quello è il mio palazzo.»
Indica il portone dietro di me, ed in effetti la mia sembrava una domanda sciocca.
« Piuttosto, che ci fai tu in giro a quest'ora, da sola per giunta, può essere pericoloso per una ragazza.»
Ora che mi soffermo un attimo a pensarci su, sono stata incosciente a prendere la metro da sola di sera, cavolo siamo a New York.
« Volevo parlare un attimo con te.»
Senza dire nulla prende le chiavi dalla tasca dei suoi jeans scuri e apre il portone, entriamo e ci dirigiamo all'ascensore, questi cinque piani li facciamo in un perfetto silenzio, io persa nei miei pensieri,con lo sguardo fisso sul pavimento, lui a fissarmi.
Una volta arrivati davanti la porta di casa sua mi sento agitata ed è con questo stato d'animo che varco la soglia, ma non faccio in tempo a voltarmi verso di lui che le sue parole mi sorprendono.
«Scusami per la reazione che ho avuto a casa tua.»
I nostri occhi si incontrano e ciò che leggo per la prima volta nei suoi mi spinge ad abbracciarlo istintivamente, ed è ciò che faccio, senza pensare ad altro.
Anche se è un contatto breve, sento che entrambi ne avevamo bisogno, e me lo confermano le sue braccia che si stringono intorno ai miei fianchi.
Mi allontano da lui contro voglia.
«Anche io devo chiederti scusa, ho esagerato.»
Entrambi ci fissiamo seri, scrutando ognuno gli occhi dell'altro, ma è come se cercassimo di vedere oltre.
Fragilità, è ciò che ho visto in quegli occhi meravigliosi che continuano a fissarmi come se temessero che scompaia da un momento all'altro, ma non vado da nessuna parte.
«Wow, è un giorno da ricordare, entrambi che ci scusiamo con l'altro.»
Ha trovato il modo per alleggerire la tensione.
Tolgo il cappotto e mi siedo sul grande divano ad angolo, di fronte a me questa enorme vetrata che da sull'oceano, fuori è buio, ma qualcosa mi dice che lo è anche dentro Andrea, che è impalato lì davanti a fissare quell'immensa oscurità.
«Ho dato di matto quando hai nominato mia madre, non per l'appuntamento, perché per quello, al massimo ti avrei accompagnata nonostante non volessi, facendoti impazzire.»
Fa una pausa, e queste sue parole mi danno una conferma che già avevo.
«Lei è morta diversi anni fa, e da quel momento è cambiato il mio mondo, io lo sono, e sinceramente non so perché te lo sto raccontando, non ne ho mai parlato con nessuno.»
Mi dà ancora le spalle e posso percepire fin da qui la schiena rigida, e la fatica che sta facendo.
Ecco cosa urlavano i suoi occhi, bisogno di amore, di calore umano, un appiglio dal baratro del dolore e, almeno per questa sera, sarò io questo appiglio forte e sicuro che non lo farà cadere nelle tenebre.
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