3.1 Io, lui e... Thanos!
"Arianna! Devi muoverti!"
Sbuffo alle parole del mio capo, ma mi affretto ad allacciare il candido e corto grembiule al resto della divisa che mi spetta.
Sempre che di divisa si possa parlare, visto che si tratta solo di un misero top dorato e una minigonna nera.
"Abbiamo un sacco di clienti e tu ti diverti a nasconderti nel retro? Devi smetterla di farmi perdere tempo così!"
L'uomo che ha appena aperto la porta, senza preoccuparsi del fatto che io avessi potuto essere ancora in mutande, è calvo, basso e tarchiato. Non ha un minimo di tatto nei confronti delle sue innumerevoli dipendenti e un senso degli affari pari solo a quello di un bradipo per la corsa.
"Pietro, il mio turno inizia tra mezz'ora. Perché non mi ringrazi per essere arrivata in anticipo al posto di sgridarmi per qualcosa che non mi compete?"
Sbuffa, dandomi le spalle e uscendo dalla porta, che divideva il silenzio di questa stanza con la musica fin troppo alta del locale, aperta.
<<Un altro modo per urlarmi addosso di muovermi.>> Penso, mentre sogno il momento in cui potrò licenziarmi da questo posto per fare quel che mi piace davvero.
Esco dalla stanza in cui ero rinchiusa e i miei tacchi iniziano a traballare sotto il peso delle percussioni che la musica, che supera fin troppo i decibel consentiti per il benessere dell'udito, non cessa di emettere.
Con il vassoio alla mano e un block notes nell'altra, comincio a volteggiare tra i clienti per trovare quelli che non hanno niente tra le mani da bere.
Situazione che porterà molte persone a essere troppo ubriache per capire quello che fanno e uomini che allungano le mani più del necessario.
Le richieste sono molte, ma l'abitudine non mi fa pesare i troppi cocktails sul vassoio circolare che risplende dei colori del mio top e delle luci del locale.
Cammino, senza guardare dove poggio i piedi, guantati da un paio di stivaletti dal tacco di dodici centimetri, fino ad arrivare alle mie varie mete per poi proseguire nei miei giri infiniti.
Cammino, ogni notte, senza prestare al dolore che le gambe provano nel dover percorrere così tante volte questo grande locale che, a volte, mi lascia con un senso di claustrofobia quando riesco a prendere una boccata d'aria, a fine turno.
Sono già le tre del mattino e la stanchezza inizia a farsi sentire in maniera prepotente sul mio corpo, ma i clienti non si sono ancora del tutto volatilizzati e non posso prendermi neanche cinque minuti di pausa per le loro continue voglie di super alcolici.
Inutili sono i miei persistenti consigli di smetterla per la loro salute, così come lo sono i miei insistenti tentativi di fargli poggiare le mani solo sui loro bicchieri e non sul mio corpo.
"Ragazzi, vi prego. I vostri ordini sono qui, sul tavolino, non sui miei fianchi!"
È già la quinta volta che porto dei liquidi colorati a questi tre ragazzi, sicuramente più giovani di me, che vestono capi firmati. E, altrettante, sono le volte che ho tolto le loro mani sudate dalle parti di pelle che la mia divisa lascia scoperte.
"Non avete sentito la signorina? Vi ha chiesto di toglierle le mani di dosso."
La voce, dietro di me, è cavernosa, roca e ha un non so che di autoritario, nonostante non abbia ancora visto il volto dell'uomo.
Quelli ridono, indicando la persona alle mie spalle, balbettando qualcosa sul colore viola e, quando mi giro, lo vedo.
L'uomo più alto che io abbia mai incontrato in vita mia.
Del tutto privo di capelli, i piccoli occhi marroni sembrano spenti e privi di vita, ma ugualmente decisi e autoritari. Le labbra, sottili, sono tirate un un'unica linea dura che rende ancora più crudeli i suoi lineamenti, mentre il suo mento è ampio e sporgente, con una moltitudine di linee verticali a incresparlo.
La cosa che mi fa spalancare la bocca, però, non è tutto questo, bensì il colore della sua pelle.
Le luci sono ancora potenti e ogni cosa, sotto di loro, mostra i suoi colori e le sue mille sfaccettature e quelle dell'uomo, se ancora posso definirlo così, sono viola.
La tentazione di compiere un passo indietro è tanta, ma lui non sta guardando me, bensì i ragazzi che sono ancora intenti a ridere e ad allungare le mani.
Una grande mano, avvolta in un guanto dorato, si protende nella mia direzione e, senza che io possa farci niente, vengo facilmente spostata dietro la sua ampia schiena.
"Cosa non vi è chiaro della frase toglietele le mani di dosso?"
I tre sghignazzano ancora, senza curarsi del fatto che l'uomo ha appena alzato la mano e delle pietre colorate brillano e l'uomo pare venire avvolto da una strana luce viola.
Ancora più viola del colore naturale della sua pelle.
Un urlo esce dalla mia bocca quando l'aura viola lo ingloba completamente e l'uomo mormora diverse parole che le mie orecchie non riescono più a percepire.
Sento le forze venire meno, ma i miei occhi riescono ancora a catturare le ultime immagini di quei ragazzi su questo mondo: il pugno dell'essere si scontra contro ognuno di loro e le loro teste fanno un movimento del tutto innaturale. Accasciandosi, successivamente, al suolo.
Ed è solo allora, che l'aura scompare alla stessa velocità di com'era apparsa e gli occhi marroni di colui che mi ha difesa e ucciso per me, si piantano nei miei.
Quando i nostri occhi si incontrano il mondo pare fermarsi e allungo un braccio verso di lui, così lui protende il suo verso di me.
Sotto le dita sento una superficie liscia e fredda, alla quale tento di aggrapparmi con le ultime forze rimaste.
E, in quel momento, la vera storia iniziò.
Perché quel guanto creato per una distruzione di massa per la sopravvivenza di quelli rimasti in vita, fu sfilato da quella mano più grande della faccia della ragazza che fu salvata e, cadendo, si ruppe in due parti.
E le quattro gemme presenti recuperate dal titano, scosso e preoccupato.
Tra le mani aveva più della metà del suo lavoro svolto e una ragazza che gli ricordava la figlia che aveva appena sacrificato.
Una ragazza che avrebbe cambiato tutto.
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