EXTRA 3 - One Second
* * *
- 15 anni dopo -
Apro la porta di vetro verso l'esterno, spingendo il maniglione rosso. Istantaneamente, l'aria gelida di una New York innevata mi penetra fin dentro le ossa. Chiudendo la porta alle spalle, mi stringo nel lungo cappotto nero e tento in qualche modo di coprire il collo.
Mi aveva detto di prendere la sciarpa almeno tre volte questa mattina.
Io ovviamente non l'avevo presa.
Quando le dirò che aveva ragione, gongolerà come al solito, facendomi la linguaccia. Mentre ci penso, sorrido.
Respiro, il mio stesso fiato si trasforma in nebbia davanti al mio viso; intorno a me la Grande Mela sembra dormire di un profondo sonno ristoratore, avvolta dal manto bianco come fosse una coperta di lana. Taxi e persone si affrettano a raggiungere il loro antro caldo, che sia un ufficio, una casa o una stanza d'albergo. Le vie sono ingombre di cumuli di ghiaccio e neve sporca, mentre a tratti piovono dal cielo fiocchi candidi. Ne sento uno pungermi l'occhio destro proprio mentre mi assicuro di aver chiuso la cartellina con il PC e le scartoffie del curriculum.
Respiro.
Espiro.
Ce l'ho fatta.
Sorrido, ancora; l'adrenalina che fino a qualche istante prima mi aveva concesso di tener duro per quelle due lunghissime ore mi abbandona di colpo, lasciando spazio a una profonda stanchezza. Ma una stanchezza felice. Prendo subito il cellulare dalla tasca mentre con una certa fretta mi incammino verso casa. Scorro l'elenco della rubrica con le mani che ancora un po' tremano dall'emozione — e che ora cominciano a tremare anche dal freddo. Appena trovo la voce "Amore", scorro il dito verso sinistra e faccio partire la chiamata.
Il cuore sta per esplodermi nel petto: ho così voglia di dirglielo. La riempirà sicuramente di gioia sapere che ci sono riuscito.
Uno squillo a vuoto. Due, tre, quattro. Segreteria telefonica.
"Strano", penso. Raramente la mia Bambina sta così tanto lontana dal telefono da non sentire una chiamata. Guardo un attimo l'orario: segna le otto di sera. Dovrebbe anche essere a casa dallo studio fotografico ormai.
Scuoto la testa e rimetto il telefono in tasca. In fondo non sono molto lontano dal nostro appartamento: una ventina di minuti a piedi. Sarà meglio controllare se è arrivata a casa prima di allarmarsi.
Rientro nella mia tana, scrollandomi di dosso il freddo agghiacciante e la neve, rabbrividendo istintivamente per la differenza di temperatura ma gioendone al tempo stesso: i termosifoni sono partiti come da programma nel pomeriggio e hanno riscaldato la piccola casa a dovere. Mi godo la vista familiare di fronte a me non appena mi tolgo il giubbotto: l'accogliente salotto all'ingresso con il divano arancione poggiato alla lunga parete piena di mie fotografie e lavori. La stessa parete nasconde il bagno del piccolo loft. Dall'entrata si vede anche la scala ad angolo in ferro battuto poggiata alla parete di destra della grande stanza con l'alto soffitto, la quale porta al soppalco della zona notte. Sotto la scala, le più grandi vetrate della casa illuminano la cucina, posta sulla parete in fondo, dalle tonalità varianti dal giallo al rosso.
Sospiro, afferro un lembo della sciarpa e la sfilo, poggiandola sul davanzale... dove trovo la sciarpa di Hurricane. "Idiota. Avrà sicuramente preso freddo. Io glielo avevo detto!"
Scuoto la testa, mi sfilo anche le scarpe per evitare di macchiare di neve tutto il parquet.
Scalza, corro in bagno, portando con me anche il cellulare. Il mio uomo oggi ha un importante colloquio per diventare giornalista e non posso assolutamente permettermi di perdermi le novità. Guardo di fretta l'orario mentre sfilo il maglione sporco: le sette e quarantacinque. Non dovrebbe aver finito?
Proprio mentre sono lì a guardar l'orario, il telefono inizia a vibrare nella mia mano. Rispondo.
«Pronto?»
«Ehi, guapa! Come ti senti? Va meglio?» chiede una Dana preoccupatissima dall'altro capo del cellulare.
«Oh, sì. Sto bene. Non preoccuparti» mento, ricordando l'episodio di ieri e quasi di riflesso la nausea costante degli ultimi giorni aumenta.
«Bene? Tesoro, hai vomitato il pollo. Il mio pollo al curry! Non era mai successo prima...»
Sbuffo, scostando i capelli dal volto e poggiandomi al lavabo con la schiena, la mano che non regge il telefono sulla fronte. «Dana... sto un po' male con lo stomaco. Tutto qui.»
«Tu non me la racconti giusta, pequeña. Devi assolutamente indagare secondo me.» La sua voce non è divertita come al solito, anzi, piuttosto seria.
«Dana. Senti, sai benissimo che dopo quello che mi è successo con Dean...»
«Quello che ti è successo con Dean non esclude nulla. I medici hanno detto quella volta che non c'erano complicazioni gravi, Hubby, quindi... Può essere.»
Il mio respiro accelera in un tempo brevissimo. Istintivamente, porto una mano sulla pancia. «Dana, ti prego, non mettermi strane idee in testa.»
«Io invece dico solo che devi controllare. Un controllo. Che ti costa?»
Deglutisco a fatica. Nella mia testa, la vocina che era stata lì per giorni, a ricordarmi del ritardo, comincia a urlare stavolta più forte. "E se avesse ragione? E se...?"
«Va bene. Mi hai convinta. Ci sentiamo appena so il risultato, ok?»
«Ricevuto capo. Ehi... mi raccomando.» Il suo tono è emozionato, ma attento.
Chiudo la chiamata. Nulla è detto. Ma nulla è escluso. Prendo un grande respiro, passo una mano tra i capelli. Poggio il telefono sul mobile e quando guardo l'orario sono le sette e cinquanta: devo sbrigarmi, farlo prima che lui torni. Mi infilo nuovamente il maglione in fretta, poi torno in salotto e mi ri-metto anche le scarpe e il giubbotto.
Nulla è escluso.
"E se...?"
«Ehi, Håbe, sono tornato! Devo dirti le novità. Non hai risposto al telefono!» Mi chiudo la porta alle spalle e mi sfilo le scarpe. Appendo con gesti meccanici il cappotto all'appendiabiti sulla sinistra e mi guardo intorno.
Nessuna traccia di lei.
Solo successivamente noto i suoi stivali abbandonati in fretta sopra il tappeto d'entrata, sfilati senza neanche slacciarli. Il giaccone gettato sul divano...
Le luci sono accese. Ma di lei nulla. "Forse è in bagno", penso. In effetti, ora che i rumori della metropoli abbandonano le mie orecchie e queste ultime si adattano al silenzio, mi accorgo che si sente rumore d'acqua.
«Håbe?»la chiamo ancora. «Sei caduta nel water? O sei affogata nella vasca?» scherzo.
Ma nessuna risposta.
A questo punto comincio a preoccuparmi e accelero il passo.
Quando arrivo al bagno spalanco la porta. Håbe è lì, ancora vestita esattamente come era uscita la mattina, con tanto di maglione; i capelli castani, che ormai le arrivano ai fianchi, sono completamente spettinati e sembra una matta. Si fissa allo specchio sopra al lavandino: ha qualcosa in mano. Il rubinetto è aperto e l'acqua scorre senza nessuno che la usi.
«Amore?» chiedo, allarmato.
Lei si volta. I suoi occhi verde acqua già di solito grandi sono spalancati e lucidi. Due grosse lacrime scendono proprio in quell'istante giù dalle guance.
Inclino la testa, senza capire. Le arrivo vicino con due grandi falcate, prendendole il viso fra le mani e intrappolando le sue lacrime tra le mie dita. «Che succede? Che ha combinato Sam?»
Lei scuote un po' la testa. «Io...» mugugna, poi mi fa vedere la cosa che teneva in mano. «Io sono...»
Aggrotto la fronte.
Ed è questione di un secondo.
La vita, ecco, la vita intera è questione di secondi. Possiamo vivere in media una novantina d'anni, eppure... a volte un singolo istante non può competere con vent'anni di esistenza. Quegli istanti che cambiano ogni cosa, la rivoluzionano e alterano, modificando te stesso e poi il tuo mondo.
Perché quando guardo ciò che tiene in mano Habe, beh, quello è il mio secondo che vale vent'anni. Il mio istante che vale una vita. Un punto di svolta, un momento in cui tutto intorno a noi non esiste niente se non il mio esistere e il suo, che insieme realizzano che tutto adesso è già nuovo.
Che l'istante è già passato.
Che siamo già oltre.
E dentro di me esplodono un insieme di fuochi d'artificio. «Håbe. Stai scherzando?»
Lei scuote nuovamente il capo con vigore, altre lacrime le scorrono sulle guance e un gran sorriso le illumina il volto.
«È quello che credo sia?» le provo a chiedere, ma non ho parole e le poche che riesco a dire mi si appiccicano al palato come caramelle gommose.
«Sì!» annuisce.
L'impeto di gioia che poi mi invade non è neanche paragonabile a uno zoonami: è una vera era glaciale di gioia, che si abbatte sulla mia esistenza e la stende per KO tecnico. Mi slancio verso la mia donna e la stringo forte, sollevandola da terra. Scoppiamo a ridere e piangere assieme, uno sulla spalla dell'altro. Il mio cuore batte forte contro il suo, sento tremare anche le punte dei capelli e dei brividi percorrermi tutta la spina dorsale.
È successo veramente.
Il nostro istante è appena passato. E inizia qualcosa di nuovo.
Diventerò papà.
| spazio autrice:
Che volete? Non è colpa mia.
Questa parte se la sono scritti Hubby e Jake da soli.
Io ho prestato solo le mani per digitare sulla tastiera...
Ooooooops ;) |
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