Capitolo 8 - "Soci"
Lei si mette a ridere.
Di gusto, anche.
Quando finisce, inclina un po' la testa. «Non mi importa con chi fai sesso e con chi no. Io ero venuta solo per ringraziarti e per dirti che se avevi voglia, potevamo ricominciare d'accapo. Abbiamo passato due settimane a scappare e rincorrerci. Adesso sono venuta qui per chiarire che non mi piace questa situazione, voglio capirci qualcosa. E sono qui per chiederti se vuoi fare parte della mia vita oppure no. Ma sappi che se dici di no, beh, non tornerò un'altra volta.»
Lo dice tutto d'un fiato, guardandomi fisso negli occhi.
Alzo un sopracciglio. Sospiro. «Oh, finalmente.» Mi scanso da lei, ed arretro.
«Finalmente cosa?»
«Un po' di carattere. Pensavo sapessi solo metterti in discussione e correre da una parte all'altra e svenire, invece vedi, sai anche importi quando ti va. Complimenti, applausi preregistrati.»
Ci mette un po' per capire, poi incrocia le braccia. «Mi stai sfottendo un'altra volta? È questa la tua risposta? Ma sai avere una conversazione normale con una persona?»
«Tu cosa vorresti che ti rispondessi... Håbe?» Faccio una pausa prima di pronunciare il suo nome. Lei s'irrigidisce. Passa la lingua sulle labbra, e si scansa un ciuffo di capelli ribelli dalla faccia. Porta un bracciale dorato al polso, che nel movimento riflette la luce. La vedo pensare alla mia domanda, e vagliare tutti i modi per non rispondermi.
«Tu cosa pensi che io voglia?» Si sistema meglio attaccando la schiena alla parete.
«Io penso che tu non sappia proprio quello che vuoi. Si vede da come vai e vieni, da come sei scostante.»
Spalanca gli occhi, punta nel vivo. Incrocia le braccia, incurva le spalle. Smette di guardarmi e fissa le sue scarpe per qualche secondo: i capelli le ricadono davanti il viso, comprendolo. «Non hai nessun diritto di farlo.»
«Fare cosa?», chiedo.
Si arrabbia, puntandomi di colpo gli occhi verdi e accusatori addosso. «Quello che fai alla gente, questo. Analizzare i comportamenti delle persone come se fossero oggetti. Non è bello. E non è piacevole. A te piacerebbe, che individuassi tutti i tuoi punti deboli? Ti piacerebbe, se ti dicessi che sei apatico e che solo guardando nei tuoi occhi la prima volta ho capito quanto spesso è il muro che hai costruito per separarti dal mondo?»
Abbasso lo sguardo. Mi appoggio al corrimano. Sbuffo, e sul mio viso si forma un mezzo sorriso di scherno. «Ci voleva tanto, per capirlo?», la sfido. «Ho il diritto di fare quello che voglio. Di studiare quello che voglio e di illudere chi voglio.»
«Ed è quello che stai facendo con me. Illudermi. No?»
Resto in silenzio. Questa qui comincia quasi a darmi sui nervi. Stringo i denti e incrocio le braccia.
«Almeno apprezzerei che me lo dicessi in faccia.»
«Cosa cambierebbe? Ti farei meno schifo?»
«No, quello no», ammette, calmandosi forse un secondo.
«E quindi?»
«Quindi tu non ti fai un po' schifo?»
Ci penso su, e cerco di analizzare cosa voglia dire non piacersi, non sentirsi bene con se stessi. Tutte cose che il mio cervello bolla automaticamente come "cazzate". «Non m'importa», dico.
E non m'importa davvero.
«Non t'importa, ah. E cosa t'importa, allora?»
È di nuovo agitata. Non riesce a stare ferma, gesticola e muove i piedi in continuazione. Le lunghe ciglia cercano di mettere a fuoco i miei occhi, invano, perché ho la tesa piegata verso il basso. Quella domanda mi incuriosisce molto più di quanto possa sembrare. «Non mi importa di niente. Lo hai detto tu. Apatia. È questo.»
«Ma se sei cosciente di essere apatico, perché non ne esci? Perché non provi?»
Mi viene quasi da ridere. Mi stacco dalla ringhiera.
«Adesso basta, ragazzina.»
Vado vicino al suo viso, in modo da poterla guardare per bene. «Hai la minima idea di quanta gente me lo abbia detto? Hai la minima idea di quante volte ci abbia provato? Hai la minima idea di chi io sia? Ti rispondo io: no, no, e no. E sai perché? Perché non mi conosci. E sai perché non mi conosci? Perché io per primo non voglio essere conosciuto. E perché? Beh.. questa è facile. Perché non m'importa. Come non m'importa del resto, di tutto il resto. Di te, della ragazza che se ne è appena andata, del mondo, di me. Non mi importa.»
Queste cose erano sempre state nel mio cervello. È la prima volta, in tutta la mia vita, che le dico ad alta voce e sentirle pronunciare dalle mie labbra suona strano.
Come quando ripeti una parola troppe volte, allora inizi a impicciarti con la lingua e la parola ti sembra... diversa.
Detti a voce, i pensieri che da tempo avevo in testa, sembrano solo parole al vento, solo quello.
Non tormenti e non persecuzioni, solo parole. E fanno quasi pena.
Io, faccio quasi pena.
E l'ho sempre saputo. Ma non m'importa.
A ogni parola che dice, corrisponde un mio sussulto. Mi riversa addosso tutte quelle cose che probabilmente gli marciscono dentro da un bel pezzo.
Resto un po' in silenzio, devo lasciare che quelle parole si sedimentino nel mio cervello. Lui è a pochi centimetri da me, ha appena smesso di parlare e io sono rimasta immobile, gli occhi nei suoi. Il muro che c'è nelle sue iridi mi impedisce di leggervi qualsiasi cosa.
Che cosa posso dirgli, adesso? Che cosa potrei mai fare, io, per aiutarlo?
E lui, lui vuole essere aiutato?
Decido di chiederglielo.
«Senti. Io ti vorrei nella mia vita...» Faccio fatica a pronunciare quelle parole, dopo come mi ha trattata, e mi affretto a precisare: «Ma solo se mi lascerai anche tu entrare nella tua.»
A questo punto, lui si allontana e scuote la testa. Ma io proseguo: «Quello che ti sto chiedendo, è: tu mi ci vuoi? E sai benissimo che io cercherò di aiutarti, che ce la metterò tutta, se mi farai entrare. Io...»
M'interrompe. «Håbe.»
Dice solo il mio nome, eppure mi sale un brivido sulla schiena. Il modo in cui lo dice, lontano da me, senza guardarmi, aggrappato alla spalliera come se stesse precipitando, il volto inespressivo e freddo. Forse il mio cervello comincia ad esagerare le cose ma posso sentire quello che pensa. Posso sentire l'impotenza. E la sento perché una volta ci sono passata anch'io. Chissà se mi permetterà mai di raccontarglielo.
Che sciocca. Io che ancora ci credo.
È chiaro che non mi voglia, è chiaro che non abbia bisogno di una come me. Avrà sicuramente tante altre persone ad aiutarlo, molto meglio di una stupida ragazzina che cerca di piombare nella vita degli altri per sistemare le cose.
Ho preso così a cuore questo ragazzo. Forse troppo.
Alza la testa e ci guardiamo per un minuto buono. E mi rendo conto che non è solo vendetta quello che mi ha spinto qui. Non è solo voglia di riscatto, non è mettermi alla prova e non è suicidio o masochismo.
È che gli voglio bene. Stupido, no? Voler bene a un tipo che conosci da due settimane, che hai visto in totale tre volte e mezza, con oggi quattro e mezza.
Forse mi ricorda terribilmente lui. Ma mi ricorda anche terribilmente me.
«Nessuno ci è mai riuscito», dice. I suoi occhi si assottigliano e si fanno scuri, come se una grossa nuvola temporalesca passasse nel cielo notturno delle sue iridi.
«Io non ti prometto di riuscirci, ma ti prometto di provarci.»
«E nessuno me lo aveva mai chiesto così esplicitamente», ammette, inumidendosi le labbra.
Scrollo le spalle. «Questo perché io sono unica ed inimitabile», mi vanto, e schiocco la lingua.
Lui non ride, non sorride.
Rimane con la solita espressione, che non è un sorriso e non è un broncio. È una riga perfetta. «Sei libera di fare quello che credi. Se ti piacciono così tanto le imprese impossibili, provaci, non sarò certo io a impedirtelo.»
«Ma non mi renderai le cose più semplici, vero?»
«Ovvio che no. Altrimenti la mia parte di divertimento dove starebbe, scusa?»
Mi metto a ridere, e lui mi guarda.
«Quindi, affare fatto?», chiedo. Allungo la mano, per siglare il patto... mano che resta vuota.
«Buona fortuna.»
A quel punto lascio ricadere il braccio lungo il fianco, e chiedo: «Adesso mi fai entrare?»
«No.»
Ci rimango di merda. «E perché, scusa? Abbiamo appena stretto un affare io e te, siamo soci adesso.»
«Soci?» Aggrotta la fronte. È davvero buffissimo così.
«Sì, soci, il che significa che ora devo stare sempre con te.»
Alza le spalle. «Questa cosa durerà molto poco, sai. Ti stancherai di me in un attimo.» si volta per rientrare in casa, salendo le scale.
"Oh... io non credo proprio, mister Sconosciuto. Il gioco non è nemmeno cominciato."
***
«Allora, quindi, se ho capito bene, non posso chiederti il tuo nome.»
Lui non parla. Mi dà le spalle, mentre stappa due bottiglie di birra.
«Cominciamo dalle cose semplici. Quanti anni hai?»
Si volta, me ne passa una, poi si siede sulla sedia di fronte a me e poggia i piedi sul tavolo. Mi rendo conto adesso che la camicia che porta non solo è macchiata di rossetto, ma la ha anche abbottonata male.
«1992.»
«Venti, quindi», calcolo. Mi ha detto la sua data di nascita, e volutamente non ha risposto davvero alla domanda. Maledetto.
Ma non demordo. «Prossima domanda. Chi era quella ragazza che hai fatto scappare via in lacrime l'altro giorno?»
«Una ragazza», dice dopo un po', una specie di ghigno a metà dipinto sul volto.
«Ma davvero? E io che pensavo fosse un uomo. Racconta, socio, dai.»
I suoi occhi si assottigliano. Sta decidendo se fidarsi o no, se raccontare o no. Beve un sorso di birra, con la lentezza di chi ha tutto il tempo del mondo.
Si passa la lingua sulle labbra, e si mette più comodo. «È l'addetta al dietro le quinte dei nostri concerti. E le piaccio. Ma io non sono interessato. Fine.»
"Caspita. È un tipo che si libera subito dei pesi, ah?" «Ottimo. E quindi l'hai fatta scappare via dicendole di stare con me. Bel piano», mi fermo un attimo, incredula. «Sei davvero uno stronzo.»
Lui alza le spalle. Prima che possa dirlo lui, lo anticipo io: «"Non mi importa".»
Annuisce. «Hai capito.»
«E adesso quella poveraccia sarà a piangere sul letto da giorni, aspettando un tuo messaggio. E nel frattempo tu sei a letto con un'altra. Poi arrivo io, e ti trovo con lei, con la camicia sporca di rossetto ed abbottonata male. Complimenti davvero. Sei un pessimo esemplare di uomo.»
«Grazie. Apprezzo il riconoscimento delle mie doti.» Fa per brindare con la birra, sollevandola in aria e prende un altro sorso. «Ha altre domande o prima deve prendere appunti, signora investigatrice?»
Rido, sorpresa: quindi sa scherzare. Eppure la sua espressione non muta mai. «Oh, ne ho molte, signore. Mi lasci continuare. Vive qui da solo?»
«Le hanno mai detto che come investigatrice fa pena?»
Mi verso un po' di birra nel bicchiere, mentre rido ancora. «Nossignore, ancora non me lo avevano mai detto.» Faccio un sorso, ed è buona, così tento di imprimermi in testa la marca.
«Dai, basta, ora ho io una domanda.»
Resto paralizzata. Vuole sapere qualcosa di me?
«Sam. Porca puttana. Che pastiglie usa per i muscoli? Insomma, ne ha tanti», dice l'ultima parola spalancando gli occhi.
Mi piego dalle risate, mentre lui resta a guardarmi. Quando smetto di ridere, gli spiego. «Ha fatto un sacco di sport e va sempre in palestra. È grosso di costituzione, è sempre stato enorme, fin da bambino. Ma è una persona meravigliosa.»
Uhm. "Meravigliosa". «Vi conoscete da tanto?»
Lei risponde subito. Si attorciglia una ciocca di capelli. Sono di un rosso un po' più spento, stavolta, come se non andasse a rifare il colore da un po'. Mi piace di più, così. Indossa una maglietta larga sopra l'ombelico e un paio di jeans corti che lasciano parecchie parti della sua pelle chiara scoperte.
«Ci conosciamo da una vita. È sempre stato il mio vicino di casa e siamo praticamente cresciuti insieme. Inizialmente non eravamo molto legati. Da un anno, invece, siamo più vicini che mai. E ci sosteniamo l'un l'altra.»
Da un anno... quindi un anno fa è successo qualcosa che li ha fatti avvicinare.
«Insomma non state insieme», deduco. Una parte del mio cervello, diciamo il venticinque percento, è contenta, perché quella ragazza si merita di meglio di un Armadio che non capisce che urlare al telefono è da coglioni. Il restante settantacinque percento sta pensando alla partita di stasera.
Rimango a osservarla quando alza lo sguardo di colpo e svelta dice: «No, no, per piacere. Gli voglio bene e tutto. Ma non stiamo insieme.»
«Lui ha una cotta per te», le rivelo. Voglio vedere che faccia fa.
E infatti, spalanca gli occhi verdi, che il mascara fa sembrare ancora più grandi. Arrossisce. «Lo so. Ma...»
«Non ti importa?»
Rimane sorpresa, e scuote la testa. «Non è quello. Io ho un cuore, a differenza tua. Mi importa di lui. È che lo vedo solo come un amico. Non mi piacciono certi suoi atteggiamenti e per questo so che non sopporterei di averlo come ragazzo. Ehi, ma qui sono io l'investigatrice, non tu.»
La guardo fisso, e decido di piantarla. «Mi sono rotto di questa cosa. Non mi piace.» Mi alzo e butto la bottiglia di birra vuota.
Ho sempre odiato le domande, e ancora di più, quelle su di me. Non mi piace parlare di me. Mi dà fastidio che gli altri sappiano delle mie cose. E poi, sono sempre così insicuro quando parlo di me stesso, quando provo a parlare di me al mondo. Non so chi sono, non so chi ho intenzione di essere e non voglio saperlo; figurarsi se voglio aiuti per scoprirlo.
«Di già? Almeno dimmi come si chiama la ragazza di prima.»
«Chi, la mia collega?»
«Sì, lei.»
«Doreen.»
«È bella», dice. «Molto.» La vedo che studia la mia espressione, vuol vedere come reagisco. Vuole vedere cosa penso. Patetica.
«Sì, lo è. Ma finisce lì.»
Mi studia ancora, incrocia le gambe sulla sedia, mentre io mi appoggio alla cucina dai banconi chiari. Solo ora mi ricordo di quello che ha detto prima sulla camicia, allora controllo: in effetti è tutta abbottonata male, per colpa della fretta a rivestirmi quando è suonato il campanello.
La sbottono, mentre lei chiede: «Perché finisce lì?», e dalla sua bocca fuoriesce un quantitativo di curiosità che basta per nausearmi.
«Non ha cervello. E non ha polso. Non sa prendere decisioni definitive. Si fa trascinare da quello che vuole, senza pensare mai alle conseguenze.»
«Forse dovresti farlo un po' anche tu, farti trascinare. È bello, sai. Lasciarsi andare.»
«È da stupidi. Si finisce imbottigliati in brutte situazioni, sottomessi ai propri sentimenti.»
La vedo alzare le sopracciglia. «Sentimenti, quindi anche l'amore, intendi? Innamorarsi non è altro che una "brutta situazione" per te?»
«Ce ne sono tante altre. Odio ed amore sono le due agli estremi e poi ci sono quelle in mezzo. Imbarazzo, paura, angoscia, tristezza.»
«Non hai risposto alla mia domanda.»
«I sentimenti non mi piacciono. Adesso basta.»
Questa cosa sta davvero cominciando ad infastidirmi.
Lei mi infastidisce.
Non ho mai detto niente di quello che ho dentro a nessuno. E tanto meno dirò altro a questa qui, le ho parlato anche troppo. È piombata nella mia vita, nella mia casa, "soci", e adesso, che vuole? Non otterrà niente così, otterrà solo di farmi sparire. Perché quando le cose mi stanno strette io non ci metto tanto: o le faccio sparire, o sparisco.
Lei si alza dal tavolo, per nulla soddisfatta, ma sorride. «Va bene, sono d'accordo, per oggi può bastare.»
«Per oggi?»
«Sì. C'è ancora domani, dopodomani, dopodopodomani...»
Scuoto la testa e cammino verso la porta. «Vattene», dico, mentre la tengo aperta.
Lei trotterella al mio fianco, poi si mette in punta di piedi e mi da un bacio sulla guancia così veloce che non ho neanche il tempo di scansarmi, e il mio corpo sussulta e rabbrividisce per il contatto inaspettato.
Ma lei già grida: «Ciao! Ci vediamo domani!», mentre scende le scale.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top