Capitolo 4 - Problema
Apro la porta del mio appartamento e mi scanso per farla entrare. La osservo mentre, piano piano, varca la soglia anche lei.
«Permesso.»
«Ci siamo solo io e te qui.»
Annuisce, mettendosi a osservare. I suoi occhi letteralmente mangiano casa mia. Osserva bene il salone con lo spesso tappeto bianco al centro e il divano dello stesso colore, posto di fronte alla TV. Dietro al divano, l'arco che porta alla cucina piccola e quadrata. A sinistra, l'entrata del corridoio con la camera da letto e il bagno.
«Cavolo, mi dispiace però, sono davvero zuppa. Ti allagherò casa.»
«Non ti preoccupare.»
«E i tuoi genitori?»
Poso le chiavi sul muretto dell'entrata. «Non sono qui.»
«Questo lo vedo», ride.
La guardo di sfuggita, mentre mi tolgo la camicia completamente zuppa. Storco un po' la bocca: «Allora perché lo chiedi?», la prendo in giro.
Lei schiocca la lingua. «Fai lo strafottente con tutti?»
«È solo sincerità. Ma oggigiorno non viene più apprezzata» dico, e mi sfilo anche la maglietta fradicia. «Se vuoi cambiarti, penso di poterti prestare qualcosa.»
Tuttavia riconosco subito appena la guardo quella luce nei suoi occhi: riflettendoci, forse, farla salire non è stata una buona idea.
Visibilmente rossa in viso, annuisce e distoglie lo sguardo dal mio petto nudo. Si schiarisce la voce. «Una maglietta va benissimo. Te la riporterò. Ora, perdonami, ma... potrei usare il bagno?»
«Sì. Di qua.»
La conduco nel corridoio e, scansandomi, le indico il bagno, ma lei si infila nell'altra porta, andando a ficcanasare nella mia camera.
«Ehi!», protesto, seguendola subito.
«Ma sono tutte bianche le pareti, in questa casa? È triste, dovreste pitturare. Una casa colorata è molto più bella. Poi se lo fai in famiglia è carino, ti diverti un sacco. Oh-oh caro Sconosciuto, il letto non lo rifai la mattina? E questo?»
Afferro al volo la moleskine che ha preso. «E questa è mia. Fila in bagno.»
«Va bene papà, non lo faccio più. Sai che fai venire i brividi? Sei troppo serio.» Si volta verso di me e mi viene vicino. «Sai sorridere?» chiede, inclinando la testa e rimanendo così.
In quella posizione appare parecchio fuoriposto nella mia camera. Le mancherebbero solo due codine al posto dei capelli sciolti e sarebbe pronta per l'asilo.
Sul serio, che mi è preso? Ho fatto davvero salire in casa mia questa qui? Sto perdendo colpi.
Mi passo una mano sul volto, notando che lei non si smuove da là. Scuoto la testa. «Non eri quella che odiava stare con dei vestiti zuppi addosso?»
La scanso e prendo dei panni puliti dall'armadio. Ovviamente ficca il naso anche lì. «Quante camicie!» Glielo chiudo davanti.
«Tieni. Se vuoi asciugarti i capelli, c'è il phon in bagno.»
Prende quello che le passo e rimane ancora lì.
«Allora?», incalzo.
«Niente!»
«Bene.»
Silenzio. Assottiglio gli occhi e incrocio le braccia, guardandola.
«Sul serio, ora ti butto fuori.»
«Oh è proprio quello che aspetto, musone», ammicca.
Sul serio. Cosa vuole vedermi fare? Sorridere? Picchiarla? Buttarla sul letto? In qualunque dei casi, povera illusa. «Vai-in-bagno» scandisco per bene le parole.
«Non mi accontenterò sappilo.» Mi fa la linguaccia e va in bagno, chiudendo la porta.
"Finalmente".
* * *
«Non so davvero come ringraziarti», esordisce. Spunta fuori dal corridoio: la mia maglia le va grandissima, tanto da farle praticamente da vestito, ma è un bene, dato che indossa solo quella. Fa una giravolta. «Come mi sta?»
«Meh» commento, tornando poi a giocare col telefono.
«Che significa "Meh"? È un linguaggio segreto di voi musoni? Siete una setta, vero? Lo sospettavo.»
Non posso far a meno di scuotere il capo. Sospira e mi raggiunge. Si siede davanti a me, sul grande tappeto morbido del salone, incrociando le gambe chiare. «Io però voglio sapere il tuo nome.»
Scrollo le spalle, poso il telefono, non la guardo. «Non lo saprai.»
«E perché? È così brutto? Ti chiami Pancrazio?»
«I nomi sono una cosa stupida», giustifico.
Un attimo di silenzio: sta immagazzinando l'informazione. Schiude un po' le labbra, guardandomi con tanto d'occhi. «Ah.» Ancora silenzio. Poi chiede: «Quindi il mio non lo vuoi sapere?», posando le mani sulle ginocchia.
«No.» La guardo ma lei evita i miei occhi. Si è messa ad arrotolare una ciocca sulla spalla sinistra con fare nervoso. Noto dei piccolissimi segni sul viso, ora che la osservo più da vicino e meglio grazie alla luce che passa dalla finestra. Sembrano quasi tracce di un'acne ormai passata. Riesco a intravedere un lieve rossore sulle guance.
Cala di nuovo il silenzio e ci copre per un po'.
«Sei proprio un tipo particolare tu, insomma» se ne esce a un certo punto, inclinando la testa verso destra e toccandosi il collo. Cerco di ignorare il suo linguaggio del corpo, ma è palese che non ci sia molto da intuire.
Ancora solo il rumore delle macchine sulla strada bagnata.
«Fuori è spuntato di nuovo il sole», faccio notare.
«Sì», sussurra. Si tocca ancora il collo.
«Non riesci a star ferma.»
«Mai, soprattutto in situazioni così.»
«Non era una domanda, era un'affermazione.»
Mi guarda. Ricambio. Gioco un po' a sostenere quei suoi occhi color del mare, poi mi alzo. «Devi andare da qualche parte vero?», mi chiede.
«Già.»
«È un modo poco gentile per dirmi "vattene"?»
«Forse. Interpretala come credi.»
«Sei strano.»
«Sì. E mi stanco facilmente.»
Un clacson. Il rumore delle ultime gocce tardive sulla finestra. Non sento neanche il suo respiro.
«Ti sei stancato di me senza nemmeno conoscere il mio nome?»
«Possibile.»
Passano minuti interi. Di altro silenzio.
E poi... «Ok.» Si alza. «Ciao. Grazie. E prego.» Prende le sue cose, fa per uscire.
«Prego per cosa?», chiedo.
«Prego per averci provato.»
E se ne va, chiudendo la porta.
Mi infilo dentro casa, lasciando il resto del mondo dietro di me e sospirando alla vista familiare dell'ingresso. Nonostante la pioggia sia cessata, è piacevole tornare in casa mia. L'atrio è piccolo, praticamente un corridoio, con una scala di legno appena di fronte alla porta, poggiata alla parete sulla sinistra. L'entrata della cucina invece è a destra: un largo arco in mattoncini fa intravedere fin dalla porta di ingresso il bancone in legno e, più in fondo, il piccolo salotto.
Mi tolgo le scarpe e faccio per sparire correndo subito su per le scale, ma mia madre mi vede, affacciandosi dalla cucina.
«Ehi, Håbe, bentornata. Ma... non ho mai visto quella maglia. È di Sam?»
Tentenno. «Ciao mamma. Sì, è di Sam. Sono andata da lui ma ha cominciato a diluviare, così mi sono cambiata.»
Sorride. «Quanto stareste bene insieme voi due! Probabilmente io sono di parte, ovvio. Ma siete proprio belli. Quindi... avete fatto pace, no?»
Deglutisco, butto lì un "sì sì", di quelli che dici non tanto come risposta quanto per convincere te stessa di essere una brava bugiarda, cosa assolutamente non vera, perché mia madre perde subito il sorriso.
Prima che possa chiedermi altro, le dico che devo andare subito a studiare e corro su, chiudendomi la porta di camera mia alle spalle. Scivolo con la schiena su di essa, fino a sedermi per terra. Chiudo gli occhi.
Non mi sono mai sentita così. Non so perché ma c'è una tale delusione dentro me che a stento riesco a respirare. Forse pensavo davvero di poter instaurare qualcosa con quel ragazzo e non per forza qualcosa di sentimentale o robe del genere, anche perché temo che lui non ne sia proprio capace, di amare. È così sfuggente e freddo che non riesco proprio a immaginarlo in una relazione.
Eppure una vocina dentro me si fa sentire. "C'è di più", dice. E questa è la ragione per cui la sua figura mi ha incuriosito così tanto. Ci deve essere di più, per forza, ci deve essere un motivo per cui è così sulle sue, schivo, lontano. La domanda è: sono disposta a farmi trattare ancora in questo modo e a mettere da parte tutto l'orgoglio che ho, per scoprirlo?
"No", mi ritrovo a rispondere. Perché dovrei annullare me stessa e la mia personalità per conoscere... chi? Un tipo qualunque?
Ma so benissimo di starmi mentendo, spudoratamente. Non è un tipo qualunque, è uno di quelli che si incontrano raramente e io ho sempre provato una forte attrazione per le persone strane, insolite, atipiche, ma per le quali anche questi aggettivi non vanno bene. Quelle persone semplicemente non catalogabili, non riconducibili a nessuna classe o nessun aggettivo, perché troppo volubili e troppo distanti per capirle. Non ha mai sorriso, mai. In due giorni. Mai.
La mia mente comincia a vagare in terre scottanti. Mi ricordo una mano sulla mia spalla. Due figure sul letto della camera in fondo al corridoio di casa mia si dicevano "ciao", un "ciao" che avrebbe sancito un nuovo incontro... ma diverso. Non lo sapevano, non sapevano quanto amaro quel momento sarebbe diventato. A stento percepivano quanto quel "ciao" suonava più come un "addio".
"Oh, Dean".
Mi prendo la testa fra le mani, con la mera speranza di fermare quei ricordi.
Che il mio interesse per quello sconosciuto non sia solo tale? Che ci sia altro a legarmi a lui?
Vendetta?
Non oso andare oltre, mi alzo, mi spoglio, esco dalla camera e apro la lavatrice.
Gliela avrei lavata, gliela avrei riportata e tutto sarebbe finito.
No?
La annuso, sento lo stesso profumo che imbrattava il suo tappeto, la camera, l'intera casa. Stringo i denti, la getto dentro, chiudo lo sportello.
Sì.
Quando chiude quella porta davanti a me, sento la casa cadere nel silenzio più totale. Le pareti bianche sembrano tornare a respirare insieme a me e tutto torna in pace.
Me ne sto un po' fermo lì a pensare.
Va meglio così? Sto davvero meglio da solo?
Sì, è quello che ho sempre pensato, stare da solo perché non ho nessuno di simile a me.
"Non c'è nessuno che può capirmi".
Lei avrebbe mai potuto capirmi? Ripenso alle sue parole, mentre cammino verso il bagno, alla sua voce carica di voglia di sapere. Ma non sono il gioco di nessuno, io, semmai sono il burattinaio. Se davvero pensava di potermi usare per un po', provare e poi lasciare perdere una volta capita la difficoltà, allora si sbagliava.
Sono sempre stato io a usare gli altri. Non gli altri a usare me. Eppure...
Nessuna se ne è mai andata così.
Scuoto la testa, rinsavendo: questo scherzo è durato anche troppo, è il momento di andare avanti e non pensarci più. Non avrei mai dovuto assecondarla, me ne pento.
Ma la noia è tanta in casa apatia.
Cosa faccio, ora, quindi? Nessuno aveva mai avuto una reazione del genere. Insomma, tutte le ragazze non se ne andavano così da me e soprattutto non ero io a doverle rincorrere, tornavano sempre loro.
Forse...
Dovrei davvero inseguirla io, per dirle che è diversa?
Lo sa già?
Ovvio che no.
Ne sarò capace?
No.
Ma ci proverò. Aprirò uno spiraglio per la bestia, rischierò, magari finirà male. Finirà con me che non so spiegare, parlare, perché davvero non lo so fare.
E se ci riesco?
È quello il problema.
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