Capitolo 35 - "... Il tuo nome"


***

«Allora, come ti chiami, ragazza?» mi chiede la donna, passandomi una tisana calda. Mi accomodo sulla piccola poltroncina: la sua casa è accogliente come la libreria. Ha tendaggi di colori caldi, e una finestra in cucina con un piccolo balconcino pieno di fiori rossi. Si respira odore di borotalco.

Mi metto comoda. «Mi chiamo Håbe. E lei?»
Sorride. «Alma. È davvero un piacere.» Sorseggia dalla sua tazza.
«Senta, mi dica, perché mi ha portato qui?»
«Dammi del tu, tesoro. È semplice:» Posa la tazza, e unisce le mani sulle gambe. «sono stata l'insegnante di lettere del ragazzo di cui cerchi il nome.»

«Wow», mi scappa. Che diavolo di fortuna! «Cioè, mi scusi... Anzi, scusami, ma sono così felice!»
Lei sorride. «Oh, come sei dolce. Devi volergli molto bene. Cosa c'è tra voi? Lo so, posso sembrarti un'impicciona. Ma è stato uno dei miei più strani studenti ed ancora lo ricordo.»

Scuoto la testa. «Figurati, nessun problema. Io penso di...» Respiro, tremando. «Beh, penso di essermi innamorata di lui. Togliendo il "penso". Quindi, ecco, è da quasi un anno che provo a far nascere in lui qualcosa. Qualsiasi cosa. Pensavo di esserci riuscita. Sono arrivata anche a baciarlo, ma proprio quando è successo, qualcosa è andato storto. E adesso è più distante di prima, come se avesse paura di me. Quindi un suo grande amico mi ha consigliato di cercare il suo nome, e di svelarglielo, per scuoterlo definitivamente.»

Lei annuisce, e non parla durante la mia spiegazione. «Capisco. Sei stata fortunata, allora, sei dalla persona giusta.»
«Lei è disposta a dirmelo?», le chiedo. La tisana è buona, al sapore di vaniglia.

«Certo, ma non ti dirò la sua storia, va bene? Quella spetterà a lui raccontartela. Tuttavia voglio raccontarti come era quando l'ho conosciuto io perché ho una cosa per lui che non ho mai potuto ridargli. Quindi, a me va di raccontare, a te va di ascoltare?»
«Ma certo!» dico, emozionatissima, e lei ride.

«Va bene, allora. Beh, la sua è stata l'ultima classe che ho avuto fino a quando se ne sono andati: poi ho scelto di dedicarmi alla biblioteca. Lui arrivò nel 2006, ed aveva quattordici anni quando lo conobbi. Mi dissero fin da subito che era un "caso particolare", ed io ero molto curiosa di conoscerlo. Quando lo vidi per la prima volta, entrò in ritardo di dieci minuti. Mi guardò di sfuggita, chiedendomi scusa, e si andò a sedere.
Eppure, bastò quello sguardo per condannarmi: diciamo che in un certo senso me ne innamorai, come te, presi a cuore quel ragazzo e volli indagare un poco sulla sua situazione.
Quello che scoprii mi lasciò sconcertata, e mi trovai a chiedermi come avesse fatto ad andare avanti per tanto tempo senza nessuna certezza. In ogni caso, molti dei miei colleghi lo descrivevano come uno "studente mediocre", ed era quello che era: in effetti non andava mai oltre la mediocrità. Praticamente tutti i suoi insegnanti tranne me seguirono il consiglio della preside: di lasciarlo stare, perché appunto era un "caso particolare", e se la sarebbe cavata da solo.
Ma non io, non io. Insistevo molto con lui, lo spronavo. Una volta lo interrogai tre volte in un giorno, e ricordo che mi accorsi di una cosa: lui non studiava nulla. I suoi quaderni erano tutti vuoti e non aveva praticamente neanche i libri, ma diamine, se lo costringevi, sapeva la lezione di storia a memoria. Ascoltava in classe e memorizzava ogni dato.

«Poi mi accorsi di come scriveva. Oh, era bravissimo. I suoi temi erano corti al punto da costringermi a mettergli quella "mediocrità", ma erano di una qualità magistrale. Più andava avanti con gli anni, più però io mi accorgevo che diventavano sempre più corti.
Mi arrabbiavo così tanto. A un certo punto scoprii delle cose in più su di lui, proprio all'ultimo anno, che mi ricordarono diversi avvenimenti della mia vita. E allora decisi di provocarlo definitivamente, assegnando alla classe un tema scritto con una traccia... particolare. Lui non scrisse nulla, gli misi un brutto voto e mi irritai tanto, al punto che lui lasciò la classe, sbattendo la porta.
Io lo andai a cercare.

«Lo trovai su una panchina. Era tranquillo come al solito, non sembrava affatto turbato, solo stanco. Gli dissi di venire a casa mia. E indovina? Era seduto proprio dove sei tu adesso. Si guardava intorno: ormai lo conoscevo da quattro anni, era inutile mentirmi: non avrei ottenuto molto. Eppure ci provai lo stesso. Gli dissi che conoscevo quello che aveva passato. E anche che avevamo molte cose in comune.
Lui sembrò improvvisamente interessato e disgustato insieme. Mi chiese se avevo scelto apposta quella traccia, gli risposi di si, e lui si alzò dicendomi le seguenti parole, me le ricordo bene: "La mia situazione non la riguarda. Non si deve sentire legata ad uno come me, quelli come me se ne vanno sempre. Lasci perdere, è un avviso. Lei sembra una persona semplice, intelligente, eviti di perdere tempo con qualcuno come me. Davvero, lasci stare. Arrivederci."
Eppure io lo avvisai, mentre se ne andava: l'indomani, avrei riproposto in classe la stessa traccia, gli avrei dato una seconda possibilità di dimostrarmi quello che valeva.

«Lui non si girò nemmeno. Si fermò solo un istante, e poi continuò a camminare.

«Il mattino seguente, arrivata in classe, lui c'era. E già quella per me era una vittoria. Molto spesso quando litigavamo in quel modo non veniva alle mie lezioni per giorni. Comunque, dissi alla classe che avevano fatto tutti pena — il che era parecchio vero, non dubitare — e che avrei fatto ripetere il test, dando loro più documenti.
Appena arrivai a passare il testo a lui, mi guardò negli occhi forse per la prima vera volta e mi disse "Grazie, non solo del foglio".

«Io mi misi a sedere. Non lo vidi mai staccare la penna dal foglio, per tre ore. Solo quando annunciai che mancavano dieci minuti, alzò la testa e nei suoi occhi c'era una gran confusione. Guardò il foglio in modo molto buffo, come se avesse scritto tutto di getto, e non se ne fosse reso conto.
Beh, insomma, me lo consegnò a fine ora. Col suo nome scritto sopra. Il suo vero nome.
Sette pagine di tema.»

La donna a questo punto si alza, si avvicina ad una libreria piena zeppa di cartelline e libri. Apre un cassetto e riesco ad intravedere un sacco di cose all'interno. Poi, tira fuori una scatola. La poggia sul tavolino, cerca un poco. «Eccolo.»

Mi passa un insieme di fogli, ordinati e piegati a metà, con le righe. Sono scritti interamente, completamente pieni. A guardare quelle pagine fitte di inchiostro, riconosco la sua scrittura, la scrittura di man.
Sono incredula. «È questo il tema?», le chiedo.

Lei annuisce. «Sì, ma non leggerlo. Aspetta. Oh, ecco la busta. Mettilo qui dentro, per favore.»
Lo metto nella busta che mi passa e la richiudo. Ha i bordi leggermente gialli. Dietro la busta, in una grafia delicata, c'è scritto qualcosa.

«Beh, insomma, poi lo ho corretto, e caspita: una meraviglia. In ogni caso: ci tengo che tu glielo faccia riavere, è importate. Io ne ho fatto delle fotocopie. Ma mi raccomando: fallo nel momento adatto, dopo che ti avrà raccontato di lui da sé. Me lo prometti?»
Annuisco. «Ma certo. Io... le sono davvero grata signora.»
«Ancora non hai letto?»
«Cosa?»
«Il suo nome.»
Congelo. «Dove?»
Sorride. «Lo hai proprio lì, sotto agli occhi.»

Allora guardo la busta. La grafia delicata traccia un nome... anzi, due. Appena li leggo, ho un brivido.

***

«Grazie, arrivederci!»
«Ciao, cara, buona fortuna!»

Scendo le scale di corsa, e salgo a bordo giusto in tempo. Alma mi ha lasciato il suo numero di telefono, e mi ha accompagnato all'entrata della metropolitana.

E adesso? Sono ancora le quattro e dieci: se tutto va bene, il mio piano si concluderà presto.
Sono davvero pronta per farlo?

Col fiatone, poggio la testa al finestrino. No, non sono per niente pronta, per niente. E se lui non reagisse? O peggio, se reagisse male? Eppure... era stato proprio lui a dirmi che il suo nome non me lo avrebbe mai detto, e che avrei dovuto scoprirlo a sola.

Ecco, fatto.
Ora lo so.
Ancora non riesco a crederci.

Arrivo alla fermata giusta, e scendo proprio vicino casa di man. Arrivata davanti il portone, vedo Taito di fronte. Gli corro incontro.

Lui mi riconosce subito, e sorride, levandosi gli occhiali da sole. «Håbe!»
«Ciao, Tai.»
«Allora?» Si gira e rigira il braccialetto sul polso, guardandomi speranzoso.
«Lo so.»

Lui sgrana gli occhi. Annuisce, su di giri, e cominciamo a saltellare come due stupidi, ridendo. «Cos'hai lì?» mi chiede, vedendo la busta che stringo avida.

«Oh. Una cosa speciale. Te lo racconterò, non appena avrò parlato con man.»
«Stavo per chiamarti, riguardo a questo. Non è qui» mi dice.
«Cosa?» alzo la voce, e mi prendo la testa fra le mani. Sul serio? Dopo tutto questo sforzo? Sto già per sedermi sull'asfalto a piangere quando Taito sorride. Mi da un buffetto sui capelli.
«Ehi, su col morale. Mi ha detto di trovarsi al suo posto preferito...» Poi si corregge, indicando col dito in alto, la cima del palazzo. «No, non quello. Diciamo il suo secondo posto preferito, ok? Sono sicuro che tu sappia qual è. Ma temo che stia per andarsene da là. Dobbiamo incontrarci qui alle cinque e mezza. Quindi, devi muoverti.»

Rifletto un secondo. La notte sotto le stelle. Uno dei posti era il cinquantesimo piano del suo palazzo, giusto. E il secondo posto...
Guardo l'orologio del telefono. Dovrei farcela, dovrei farcela, se prendo un taxi.
«Ok, ok! Grazie Tai!»
«Corri, Håbe!»

Dio benedica le scarpe da ginnastica.

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