Capitolo 32 - "Bianco"
Io e Sam decidiamo di cominciare da un piccolo hotel sulla costa. Chiediamo informazioni, ma capiamo che non sono lì. Ripartiamo: mentre io lo guido con Google Maps, lui svolta e risvolta.
A un certo punto, proprio dopo che gli ho detto di girare a destra, lui sospira. «Grazie di essere venuto, man. Non penso che... l'avrei sopportato da solo.»
Mi volto a guardarlo e mi rendo conto che una lacrima sta scendendo sulla sua guancia destra.
"Io non voglio che tu sia... come posso dire? Più "umano"... solo con me. Dobbiamo cercare di estenderlo alle altre persone."
Mi concedo un secondo di silenzio. Poi allungo una mano e tocco la sua spalla. «La troveremo», gli dico.
Lui mi guarda con riconoscenza. Annuisce, e torna a stringere con forza il volante, dopo essersi asciugato gli occhi.
Il terzo hotel che controlliamo, è abbastanza in centro. Ci arriviamo alle quattro di pomeriggio. Da fuori sembra molto grande: appena entriamo ci accoglie l'atrio, con le pareti rivestite di legno. È davvero un bel posto, con tanto di statua e fontana al centro della hall, ma ho altre preoccupazioni in testa e sicuramente altre priorità.
Ci fiondiamo al banco della reception. Una ragazza in tailleur blu ci accoglie con un sorriso, ma appena vede le nostre facce, torna seria, e si sporge un poco sul bancone «Salve, desiderate una stanza?»
Sam mostra il distintivo. E ripete più o meno quello che abbiamo ripetuto alle due donne in tailleur precedenti: «Salve, signora. No: mi chiamo Sam Thompson, polizia. Sto cercando una ragazza castana alta un metro e cinquanta circa e un ragazzo castano altezza uno e ottanta. Lei si chiama Håbe Powell, lui Dean Smith.»
«Sì, ho una prenotazione a nome "Smith" ed i ragazzi sono saliti qualche ora fa. Cosa succede?»
Respiro.
Mi prendo la testa fra le mani.
Li abbiamo trovati.
Sam le spiega: «La ragazza castana che ha visto è stata rapita da quel ragazzo.»
«In che stanza sono?», le chiedo.
Lei si alza di corsa dalla sedia, e ci fa segno di seguirla, comunicando attraverso un auricolare la notizia, per poi risponderci: «Stanza undici. Venite, subito.»
I minuti successivi sono molto concitati.
Faccio per andare, ma poi guardo Sam che resta immobile. «Sam, andiamo! Corri», lo sprono.
Lui mi ferma. La sua fronte è corrucciata e mette più in evidenza la cicatrice che gli segna la tempia sinistra. Si passa la lingua sulle labbra prima di dire: «Amico, non possiamo intervenire senza prima chiamare gli altri. Hai sentito il mio capo, lui...»
«Sam, quello è lì dentro che le fa del male!»
Lo vedo chiudere le mani a pugno e portarle sulle tempie. Dopo una serie di imprecazioni, sbatte un pugno sulla reception.
E allora scelgo.
Scelgo lei.
«Tu non puoi. Ma io si», decido.
Mi volto di scatto e faccio per correre sulle scale, seguendo la donna che intanto si è bloccata nel corridoio e sta dando spiegazioni anche ai clienti, facendoli sgombrare.
Ma Sam è più veloce di me. Mi trattiene per un polso. Con l'altra mano, prende la radiolina e preme il pulsante di trasmissione. «Sam Thompson, a tutte le unità, abbiamo trovato Håbe Powell e Dean Smith, richiedo soccorso immediato. Hotel Hampton Inn & Suites, camera undici. Mi avvicino alla camera, in caso di necessità interverrò senza esitazioni.»
Mi lascia e mi spinge su per le scale. Le facciamo a due a due.
Il cuore mi è arrivato in gola.
Sam tira fuori la pistola dalla cintura. Diciamo a tutte le persone che incontriamo di sgombrare il corridoio, mentre seguiamo la donna, che si è tolta i tacchi.
Il corridoio tappezzato di moquette rosa sembra infinito e i quadri alle pareti per un momento mi sembrano fissarmi.
Siamo ancora alla camera tre quando sentiamo l'urlo.
Corriamo ancora più veloce verso il fondo del corridoio. «È questa!» dice la donna, e poi ci si fionda sopra, tentando di aprirla con le varie tessere che ha nel marsupio.
Un altro urlo. «Buon cielo! Quale diavolo è?»
«Signora, mi scusi per quello che sto per fare. Pagherò io, ma non abbiamo tempo.» Sam mi dice di scansarmi e comincia a prenderla a spallate, finché non crolla come burro.
È Sam è il primo a entrare.
Quando mi affaccio, quello che vedo mi lascia senza respiro e il tempo sembra rallentare.
La camera è indubbiamente una delle più piccole, ma il letto troneggia al centro della stanza, la spalliera poggiata sulla parete di destra.
Su di esso, la figura di un uomo nudo, accovacciato su un corpo che sembra mille volte più piccolo, che tiene per il collo.
Håbe.
In un lampo, Sam corre verso di lui e lo solleva, poi lo trascina giù dal letto, mollandogli una ginocchiata nei testicoli.
«Ora vediamo se riesci ad usarlo ancora il pene, figlio di una lurida puttana!»
Mi precipito dentro, e cerco di capire quello che ho appena visto.
Mi affretto ad avvicinarmi a Sam che intanto gli ha dato un altro pugno: sembra posseduto. Gli metto una mano sulla spalla, e lo costringo a guardarmi. «Sam non devi ammazzarlo, ok? Sam guardami negli occhi. Non farlo. Deve soffrire per bene, in carcere. E non vorrai sporcarti le mani di un sangue di merda come il suo!»
Sam mi guarda all'inizio colmo di rabbia ma poi annuisce. Lo volta e gli mette le manette.
Solo in quel momento riesco a vedere in faccia Dean.
Porta i capelli castani di media lunghezza, ha due spalle larghe, e sembra molto forte: ha dei gran muscoli sulle braccia... ma sicuramente mai quanto Sam. Mi guarda con due occhi piccoli colmi di odio e... follia.
Eppure non riesce a farmi paura. Quel viso sembra quasi fuoriposto, sembra quasi... beh, mi ricorda molto me stesso.
E quando mi rendo conto di ciò, rabbrividisco. Potrei davvero diventare così?
«Sam, chiama gli altri e... » snocciolo, ancora gli occhi fissi in quelli di Dean, mentre mi volto verso Håbe.«... Anche un'ambulanza.»
Mi catapulto sul letto: intorno ad Håbe c'è del sangue. Ha i vestiti strappati e trema come una foglia. Gli occhi sono chiusi: mi siedo accanto a lei, e le tocco la fronte madida di sudore, chiamandola più volte.
Lei rinsavisce con un sussulto. Apre gli occhi e li sbatte un paio di volte, mette a fuoco il mio viso.
«Sei qui» mi dice, solo. La voce è sottile come un foglio di carta, che tra l'altro ha lo stesso colore della sua pelle. Le labbra sono quasi viola e tutte piene di tagli.
Una stretta intorno alla stomaco, e sento il mondo intorno a me girare e girare e girare. Mi tengo aggrappato al letto, aggrappato a lei, e un moto di sollievo mi investe: almeno è viva.
«Håbe, menomale. Quel bastardo... Sono qui Håbe, non chiudere gli occhi ok? Resisti va bene? Sono qui. Continua a guardarmi» provo a dirle, mentre cerco di mettere in moto i neuroni e penso a cosa fare.
Sul comodino scorgo una siringa vuota.
E si, anche nella mia testa partono le mie bestemmie, insieme a quelle che sento dietro di me pronunciate da Sam, quando mi accorgo che Håbe ha dei buchi sul braccio.
Non posso dirle niente, evito di farglielo notare, o di chiederle qualsiasi cosa. Non è in grado di rispondermi.
Eppure quasi ci ripenso.
Forse Sam avrebbe potuto darglielo un altro pugno.
«Questo mi riesce bene» dice intanto la ragazza, e mi regala un sorriso tirato.
Le sorrido anche io, sfilo il lenzuolo sporco da sotto di lei e la ricopro con il copriletto, dopo averle tolto i vestiti a brandelli.
Infilo le mie mani sotto il suo corpo, con cautela.
«Avevi detto che non lo avresti fatto un'altra volta nella vita», sussurra lei.
Ha il volto bianchissimo, le labbra screpolate, e sta visibilmente male, eppure si ricorda quello che le dissi mesi e mesi fa. Mi scappa una piccola risata mentre la stringo un po' più forte.
Proprio in quel momento, Sam ci raggiunge e le accarezza la guancia.
Si sentono delle sirene: sono arrivati i rinforzi.
«Sam, consegna Dean alla polizia. Portiamo Håbe in ospedale.»
«Tu portala immediatamente all'ambulanza, vi raggiungo subito. Håbe, resisti piccola, ora siamo qui.»
Sam mi precede scendendo le scale, con Dean stretto fra le braccia. Lo lascia subito al suo capo.
Ho come l'impressione che non lo rivedremo presto.
Io intanto porto Håbe all'ambulanza. La guardo: non riesce più a tenere gli occhi aperti. «Ehi, Håbe», la chiamo. Ma lei non risponde.
Ci affrettiamo a salire insieme sull'ambulanza, poggio la ragazza sulla barella ma non mi muovo un centimetro da lì vicino. Sam chiama la madre di Håbe e le dice di andare subito all'ospedale di Staten Island.
Durante il viaggio assisto a quello che non avevo mai avuto occasione di vedere: ciò che i medici fanno all'interno di un'ambulanza. Håbe viene subito coperta, le misurano un sacco di cose, bloccano l'emorragia.
Mi sento male.
Malissimo.
Ma allo stesso tempo non sento niente, sono come intontito.
È tutto così veloce.
E sta scivolando via così in fretta, che temo di non poter sopportarlo.
Il viaggio per l'ospedale sembra durare secoli. Arriviamo, e la mamma di Håbe è già lì. Ci accoglie con foga, mentre corriamo verso il pronto soccorso. Appena entrati nella sala di attesa, un'inserviente ci ferma.
«Siete parenti della ragazza? Possono entrare solo i familiari.» dice, dopo aver dato un'occhiata veloce ad Håbe.
La mamma di Håbe si affretta a dire: «Io sono sua madre, lui», indica Sam,«è praticamente un membro della famiglia. E lui...», mi guarda.
Io so già come andrà a finire.
Ma Sam mi stupisce. «È mio fratello!», dice.
Lo guardo con riconoscenza, ma l'inserviente non ci casca. Sembriamo tutto tranne che fratelli, io e lui. La donna in tuta bianca ribatte: «Sentite signora, posso fare un'eccezione per una persona se mi dice che la conosce bene ma se non è così...»
Intervengo: «Starò qui. Aspetto qui» dico, con l'amaro in bocca.
Respiro, guardando Sam.
«Ti vengo a chiamare appena posso, promesso», mi rassicura lui.
«Grazie, Sam. Andate.»
Il tempo sembra bloccarsi.
Dopo ore durate attimi, i minuti passano con la lentezza di una tartaruga, e ogni volta che guardo l'orologio bianco sul muro bianco della sala d'aspetto bianca mi sembra quasi che le lancette tornino indietro.
Intanto, come se non bastasse, dentro di me tutto fa a botte con tutto.
Mi ritrovo a pensare, dopo ore ed ore di silenzio. Penso ad Håbe, a come è entrata nella mia vita ed a come mi ha sorriso appena ha aperto gli occhi poco prima. Penso a quanto è stato difficile la prima volta prenderla in braccio, quel giorno a casa mia, e come invece è sembrato normale poco fa.
Sento un ringhio arrivare da lontano. Lo sapevo: è nei momenti come questo che lei attacca. Nei momenti in cui ha visto troppo me, e troppo poco sé stessa.
La bestia si trascina, portando con sé quella strana sensazione. Mi sento impotente, mi sento uno spettatore, che guarda il mio corpo e non può fare nulla.
La parte di me che è davvero me, ha paura. Ma... No, non ho paura per me, non in questo momento. Ho paura di perdere Håbe. E la bestia vuole impedirmi di provare addirittura questo.
Porto le mani a reggere la mia testa, ormai diventata di piombo. Tutto quel bianco, in quella stanza, comincia a farmi sentire morto e cancellato, dimenticato, come se non la avessi mai incontrata, come se quella volta al concerto non fossi passato vicino a lei, e quella volta al parco non l'avessi riconosciuta. O anche come se non fosse arrivata quella sera sul grattacielo: non penso mi sarei mai buttato, ma lei mi ha dato la certezza che no, non l'avrei fatto.
A quel pensiero, rivedo l'immagine del suo volto preoccupato... per me. E ricordo quando poi mi raccontò di Dean e piangeva. E ricordo di quella volta che facemmo sesso, seppur a tratti. Ricordo di come la sua pelle non mi dia alcun fastidio, di come il solo pensiero di non sentirla più ridere per cose stupide ed infantili... mi rendo conto che fa male.
Bestemmio tra me e me, capendo che forse c'è riuscita. È entrata nella mia vita in modo ormai permanente e...
Basta. Devo muovermi di qua. Questo bianco non fa bene alla testa né ai pensieri. Tantomeno alla mia incolumità: più penso queste cose, più la bestia si fa vicina.
Voglio vedere Håbe. Devo vederla.
Altrimenti non ce la farò.
Sono passate due ore, da quando è entrata, e Sam non è ancora uscito.
Decido di cavarmela da me.
Una signora apre la porta dell'entrata all'ala dove hanno portato Håbe. Mi alzo per tenergliela aperta, sorridendo. Lei ringrazia e se ne va, io sguscio dentro, controllando che nessuno mi veda.
Ma la fortuna ed io siamo due rette parallele che non si incontreranno mai. La ragazza alla reception della zona d'attesa alza la testa proprio in quel momento.
«Ehi, tu! Non puoi entrare lì!»
Scappo dentro, corro nel corridoio e svolto a sinistra. Intravedo mentre corro Sam che mi guarda esterrefatto, seduto davanti una porticina alla mia destra. Allora mi infilo nella prima porta che trovo. Uno sgabuzzino.
«Insomma, si può sapere che modi sono? Guarda che chiamo...»
Quando la ragazza passa davanti a me, faccio uno sforzo enorme e la trascino dentro lo sgabuzzino. La blocco e la guardo negli occhi.
«Ti prego, non dire nulla, per favore.»
Lei rimane lì immobile, respirando affannata. «Non posso, mi uccidono se...»
«C'è una persona molto importante per me lì dentro. Ti prego, non dire niente. Non se ne accorgerà nessuno», insisto.
Lei ci pensa un attimo poi scuote la testa. «E va bene. Vai, forza, e non farti vedere, disgraziato!»
La ringrazio, esco dalla stanza, tirandomi su il cappuccio ed andando verso Sam che si è alzato in piedi e mi aspetta. Affianco a lui, seduta, la mamma di Håbe, che quando mi vede asciuga le lacrime e dice: «Oh, ti hanno fatto entrare!»
..."Circa".
Sam guarda con gli occhi sbarrati la ragazza passare dietro di me e tornare alla reception. Mi si avvicina all'orecchio e mi dice «Ma come diavolo...?!»
Ma chi se ne frega, ho altre cose da sapere: «Stavo impazzendo di la. Allora. Come sta?» chiedo.
È la madre a rispondermi: «Le stanno mettendo dei punti... e...» La voce viene rotta da un singhiozzo.
«Potrebbe non potere avere più figli» dice Sam, con voce cupa.
Una rabbia profonda sale dentro di me e sono così estraneo a queste cose che non riesco a controllarla.
«Maledetto bastardo!» Tiro un pugno contro il muro.
Sam mi prende per le spalle e tenta di calmarmi. Mi guarda fisso. «Ehi, siamo in un ospedale, stai tranquillo, ok? Non è detto ancora, non è sicuro e...»
Mi scanso dalla sua presa. «Sam, quello schifoso ha ficcato il suo... dentro... e le ha fatto male... le ha fatto male... io lo uccido.»
Non capisco più niente: è tutto rosso.
«Eri tu che trattenevi me poco fa! Ma che ti prende? Non sei mai stato così impulsivo. Cosa ti succede?»
Raggelo. Quelle parole hanno l'effetto di svuotarmi completamente.
Mi impongo contegno e calma. Per la prima volta nella mia vita. Ma l'immagine di lui che abusa di lei e che le fa tutto quel male...
Ho paura di quello che sto provando in questo momento. È più di rabbia, di schifo... è disgusto. È che nessuno può farle del male. Nessuno.
Arretro e mi metto a sedere.
Percepisco la voce di Sam ma è sommersa dai miei pensieri. E dalla paura.
Che sale su e mi attanaglia lo stomaco.
Paura, da quanto non eri dentro di me. Facile: non ci sei mai stata, dentro di me. Non sei mai stata così forte, perlomeno. Benvenuta. Ti conosco per fama, ma non di persona. Cosa vuoi, da me? Vuoi riportarmi nel baratro. Vuoi nutrire la bestia, che ringhia forte nel profondo della mia anima. Vuoi che io sprofondi di nuovo, vuoi che ascolti quell'ululato e torni ad essere un guscio vuoto ed informe.
La bestia sussurra ai miei punti deboli che al vuoto non c'è rimedio. Perché se c'è qualcosa di peggio di provare paura, è non provare niente. E questo niente lo sento incombere.
La mia bestia. La mia bestia, si chiama Niente. Ed è mia figlia, la mia casa, il mio tutto, tutto quello che ho, anzi, che mi rimane. Sono stato io a nutrirla, io a non far qualcosa per distruggerla, conscio del niente a cui avrebbe portato. Io che mi sono rifugiato fra le sue grinfie ed ora? Pensavo di esserne uscito fuori ma... Ora, da solo, qui, su questa sedia, il bianco intorno, come ne esco?
Håbe c'eri quasi riuscita.
Ma adesso mi sta chiamando a se così forte... e tu sei così lontana... non posso sentirti vicino a me... ho bisogno di te, per restare in me, per tornare in me...
Håbe...
Passa un tempo che non saprò mai definire. Un tempo distorto dal bianco e dal vuoto. Il mio stomaco si contorce insieme all'anima e tutti e due si mischiano ma non si uniscono, si repellono, perché non si appartengono. Sento il bianco scivolarmi nelle vene e smacchiare il mio sangue, e il mio cuore si ritrova a dover pompare gelido latte, e così affannato, non riesce più a battere. Proprio ora, proprio ora che aveva ripreso, sta per rimanere di nuovo congelato, intrappolato... nel Niente...
«Potete entrare.»
Le mie gambe si muovono da sole e le cose intorno a me sembrano sdoppiarsi, la porta diventa due porte e rischio di sbagliare maniglia, ma apro veloce e la vedo: è lì, è lì, è bianca come il lenzuolo da cui è coperta e respira; vedo il suo petto muoversi e vedo... vedo... i suoi occhi si aprono ed io...
«Håbe!» Sam corre ad abbracciarla.
Ma io non riesco a muovermi-
Mi ha preso, Niente, Håbe...
Håbe mi dispiace ma è troppo tardi.
Sto tornando giù con lei.
Håbe fai qualcosa...
Non so combatterla da solo...
Ma devo.
Devo perché sei qui davanti a me sei qui tu-
E allora faccio un passo...
E poi un altro e ti guardo e mi guardi.
E sorridi.
Nel Niente, ci sei tu che sorridi. E quel Niente si colora di Tutto.
«Ciao, occhi blu, mi siete mancati!»
«Håbe.»
Prendo la sua mano e la stringo fortissimo, conducendolo verso di me. Ho voglia di stringerlo. Lo guardo negli occhi, e sono meravigliosi e... per la prima volta, riesco a vederci qualcosa dentro, a vedere quello che prova. E quello che prova è dolore. E allora non resisto più, mi aggrappo al suo collo, lo porto giù con me, sul letto dell'ospedale e lui mi segue e non si oppone e lo stringo forte. Sento il suo corpo rigido sciogliersi come neve al sole, i muscoli si distendono e la sua guancia tocca la mia. Sento il profumo dei suoi capelli e non resisto a non mettervi una mano in mezzo, sono lisci e sanno di shampoo.
E poi, poi lo sento stringermi a sua volta. Mette le mani sotto la mia schiena e si piega su di me, stringendomi e...
Brividi. Le lacrime salgono dal mio cuore e scivolano giù dalle guance, lacrime di gioia.
Si può amare così tanto qualcuno?
E capisco, che questo non è solo un abbraccio. È una piccola vittoria, e una promessa.
Ci siamo appena promessi di provarci.
Ti stringo forte, stavolta, non c'è più paura, se ti stringo a me.
«Grazie, di avermi salvata», dice.
"No, Håbe, no... tu... tu hai salvato me".
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