Capitolo 30 - "Paura"


Håbe quella sera chiama sua madre, per dirle che sarebbe rimasta a dormire fuori. La sento discutere per un poco in salotto; a un certo punto pronuncia il nome "Dana".

Quando torna dalla telefonata, le chiedo se non abbia appena mentito spudoratamente. Lei si attorciglia una ciocca, dicendo: «Beh, si. Le ho detto che sarei andata da Dana.»

Incrocio le braccia «Potrei offendermi.»
«Oh, no, dai!» Mi si avvicina, e si siede vicino a me sul letto.
«Scherzavo. Allora, che facciamo?»
«Prove tecniche di trasmissione», mi risponde lei. Mi guarda negli occhi. Abbiamo cenato insieme, ho preparato una pasta fantastica. Sono già le dieci.
«Cioè?», le chiedo.

Lei mi dice di sdraiarmi. Ubbidisco. Quando anche lei si stende, mi confida: «Io non voglio che tu sia... come posso dire? Più "umano"... solo con me. Dobbiamo cercare di estenderlo alle altre persone.»

Annuisco, attento. Abbiamo la testa poggiata sullo stesso cuscino. La debole luce della lampada da comodino è l'unica fonte che colora la stanza. Il resto è immerso nel buio: e col resto intendo tutto tranne il volto di Håbe.

«E come intenderesti fare?», le chiedo. Sono interessanti i suoi piani su di me.
Lei si morde il labbro «Non so. Forse è ancora un po' presto. Non sono sicura che tu abbia capito che il primo lavoro devi farlo su te stesso. Insomma, ti senti... diverso?»

Bella domanda. Ci rifletto qualche secondo.
«Non lo so. Quella diversa mi sembri tu, ma penso sia perché ti guardo in modo diverso. Quindi sono io a essere cambiato?» Lascio quella domanda così, in sospeso, perché da solo non so trovarvi risposta. Che lei sappia darmela?

I suoi occhi verdi si fanno se possibile ancora più grandi. Mi dice: «Solo tu puoi capirlo, man.»

Mi sento diverso?

Anche se provo a chiedermelo, c'è solo silenzio. Che la mia bestia non fosse solo una copertura per nascondere il fatto che non ho nulla? Che non sono niente? Sono un bianco vuoto opprimente?

Questa sensazione, che prima mi sembrava di pace, adesso fa quasi... paura?

Perché la bestia la sento lontana ma pur sempre lì in agguato. Come la quiete prima della tempesta.
Sento che a un passo falso potrebbe corrispondere un cambiamento. E temo non in meglio.

Ma non lo dico a Håbe. Non so che risponderle, perché a malapena riesco a rispondermi. Anzi, non mi faccio domande, quindi è impossibile un qualunque dialogo con me stesso.

Che la bestia fossi io?
Ora, ora chi sono?

«Man, forse ho un'idea», mi dice lei.
«Spara.»

Ma resta in silenzio. La guardo e in qualche modo capisco. Sta fissando il soffitto, cercando di non dare in escandescenze ma è nervosa. Tamburella sul letto con le dita.

L'aria tra noi è quasi magnetica.

Mi rendo effettivamente conto di quanto sia vicina a me solo quando sfiora la mia mano con la sua. Non la ritraggo, non ne ho voglia. Il suo tocco è una cosa piacevole?
È riuscita a scavare qualcosa di profondo, con una lentezza quasi maniacale, ma c'è riuscita. Mi accorgo di volere che lei mi stringa e che quei pochi centimetri tra i nostri corpi cominciano a pesare.

E adesso?

Che ne so io di come si faccia, anche solo ad avvicinarla? Non sono certo di come muovermi né di cosa dire, così mi congelo, nel tentativo vano di scavare nel mio cervello, evocare qualche scena di film che ho visto. Niente fa al caso nostro.

Prima che possa effettivamente dimostrare di essere un uomo, lei mi precede e girandosi su un fianco mi costringe a guardarla, puntandomi praticamente gli occhi addosso.
Quando incrocio quello sguardo improvvisamente non conta più nulla.

«Senti man, io non vorrei turbarti o cosa, però...»
«Vieni qua», le dico. Sono davvero io a dirlo? Penso di sì. Le faccio segno con la mano, di poggiare la sua testa su di me.

Mi guarda intensamente, pressando per entrare in quello che io vedo del mondo, anche se avrebbe visto solo il suo volto, in quel momento.
Poggia la testa nell'incavo del mio collo e qualcosa di strano comincia a stritolarmi lo stomaco, divertendosi a contorcerlo a suo piacimento, come un bimbo che gioca con una corda.

Non ho mai provato una cosa così.
E poi succede.
Håbe alza la testa e si sdraia su di me. Mi guarda fisso e sono quasi tentato di distogliere le pupille da quel volto. Ma è impossibile. Nessuno ci sarebbe mai riuscito.

Neanche io.

Improvvisa come un temporale estivo, una sensazione di odio mi sale su dalla bocca dello stomaco: improvvisamente mi viene da scuotere questa ragazza e dirle che non sono ciò che fa per lei. Neanche lontanamente.

Ma le parole si incastrano in gola perché, come dicevo, ci sono solo i suoi occhi.
«Håbe io sono strano», comincio. Perlomeno, tento di cominciare, ma mi blocco, perché lei ribatte: «Me ne ero accorta.»

Sorride di sbieco, ed è dannatamente bella. Si fa un po' più vicina al mio volto.
«E sono anche stronzo», continuo.
«Uhm.» Non arretra neanche di un centimetro. Percepisco una sua mano vicino la guancia, poggiata affianco alla mia testa sul cuscino.
Tento di fermarla, con le poche forze che ho, e insisto: «Chi te lo fa fare, insomma?!»
Ma lei è sempre più vicina, ed io sempre meno lucido.
«Non mi importa» dice solo, mentre ride. «Voglio te.»

E poi mi bacia.

All'inizio sento solo la stretta annodarsi ancora più forte e poi rilasciarsi quando chiudo gli occhi anche io. Ricambio il bacio sempre più avido, ed eccolo: era tutto dentro di me, e pian piano si snoda. Sento così tante emozioni diverse che mi ritrovo ubriaco in poco, senza nemmeno cercare di distinguerle, me le godo come se fossero un bicchiere di vodka dopo l'altro.

Mi rendo conto di tremare quando Håbe si stacca da me e mi chiede se va tutto bene.

Le rispondo baciandola di nuovo, con foga.

Tuttavia poco dopo boccheggiando la scanso, tirandomi su a sedere per il contraccolpo del pugno che mi ha appena stordito, dritto in pancia. Non riesco a respirare e nonostante tenti di calmarmi, la mia testa non collabora.
Mi lancia addosso immagini di tutti i tipi, mescolate come fotografie mischiate in scatole da buttare in soffitta: momenti di tre giorni fa alternati ad un me bambino che scappa dall'ennesima famiglia adottiva. Uno schiaffo dato da qualcuno che mio padre non era, le serrande abbassate dell'ospedale psichiatrico che non facevano nemmeno entrare il sole e da fuori sembrava una prigione.

Mi piego sempre di più sulle ginocchia, con Håbe che dice qualcosa alle mie spalle, ma io non la sento.
Sto affogando. Biglie blu e arancioni sparse per le scale... Le foto del funerale di papà che trovai in soffitta... Il baule dei miei giochi, con cui mai ho avuto a che fare per più di un anno... Le nuvole sopra la dannata casa... La sensazione di non essere bambino, di essere già morto.

Torna tutto a galla... Tutto.
Håbe comincia a preoccuparsi. Si mette di fronte a me e mi guarda.
«Man, ti prego, stai qui, con me. Io sono qui.»

"Io sono qui."
Quella frase acquieta le immagini.
Mi metto le mani sul viso, tremando, rannicchiato sulle ginocchia, mentre lei mi abbraccia forte.
«Sono qui.»


È in quel momento che crollo.
Per la prima volta dopo vent'anni.
È fra le braccia di Håbe, che scoppio a piangere.

***

Gli faccio segno di sdraiarsi di nuovo affianco a me quando si calma. Lui mi ascolta. Senza dire niente, ci sdraiamo. Mi guarda per un po', ma è come se non mi guardasse. Fissa un punto indistinto che non mette a fuoco, non so neanche se esiste davvero. Man è da qualche parte lontano da me, in questo momento. Molto, molto lontano.

Quando a un certo punto prendo sonno, lui ancora non chiude quei begl'occhi.

In sogno, sento una mano sulla spalla. È proprio man: mi dice di seguirlo. Lo seguo, e mi porta sulle rive di un lago: gli alberi si dissipano per fare spazio a una piccola ma bella distesa d'acqua verde.
Si leva la maglia, e i pantaloni, e mi dice di tuffarmi. Lui lo fa: si getta come un pesce.

La me del sogno lo imita. Quando riemerge dal tuffo, comincia a chiamarlo.
E chiamarlo.
Ancora, e ancora.

Ma lui non c'è.

Più.


Appena Håbe si addormenta, smetto di fingere.

Mi alzo. Vado in cucina. Mi prendo la testa fra le mani.

Lei è sveglia.

Solo che non la riconosco più. Striscia, informe, dentro di me. Mi viene quasi da vomitare. La testa mi gira e in un secondo non sono più neanche dentro il mio corpo.

Lo osservo da fuori.

E...

Ho paura.
Una paura fottuta.
Di cosa?

Di me.
Del vero me.

Lui c'è. È quello che ho sempre cercato di nascondere. Håbe lo ha appena provato: baciandomi, mi ha fatto capire.

Io non sono la bestia. Io sono un'altra cosa. Tutt'altra cosa.

Ma il problema è che per essere me, dovrei uccidere lei.
E come si ammazza un figlio che tu stesso hai creato?
Con quale coraggio?

Mi accascio lungo il mobile del lavandino. Intanto nella testa, sento la voce di Niente, che mi dà il benvenuto a casa. Diventa un miscuglio indivisibile: io e Niente.

Di nuovo.

Lo sapevo.
Avevo ragione.

Il Niente non si cura neanche con l'amore.
Perché c'è qualcosa di peggio di non provare niente.
Ed è esserlo.

***

Metto lo sciroppo sulle frittelle, e le servo sul piatto. Guardo di sfuggita l'orologio. Sono le nove di mattina. Da un momento all'altro si sveglierà.

E io ho a malapena fatto i conti con me stesso.

Prendo il burro, il latte e li metto sul tavolo, insieme a due piatti. Intanto non mi accorgo che Håbe è poggiata allo stipite dell'arco della cucina, che mi guarda. Quando la vedo, ho un sussulto.

La bestia mi suggerisce di voltarmi: l'ascolto. «Buongiorno», le dico, tornando a fissare lo scarico del lavandino.

«'Giorno. Che profumo! Finirai per viziarmi, così!» La sento spostare la sedia: deve essersi seduta. Respiro, mi volto. Mi siedo anche io, evitando il suo sguardo.

Non sono in grado, di continuare questa cosa.
Osservo le frittelle come se fosse tutta colpa loro.

«Man, ci sei?» Non mi accorgo minimamente che Håbe mi sta parlando. «Mi ricevi? Ti stavo dicendo, che domani potremmo andare al cinema, c'è un film spettacolare che...»
Non riesco a concentrarmi su quello che dice, come se ci fosse un'interferenza. «Scusa, Håbe... Puoi ripetere?»
«Man! Stai bene?» Trovo il suo viso sotto il mio. Si è sporta sul tavolo, per guardarmi.

Sto bene?

«No», rispondo.
Lei si ritrae.
La guardo per la prima volta dopo quella notte. Ed è così bella. Ma allo stesso tempo terribile. Due immagini di lei si sommano e si sovrappongono: quella che mi fa vedere la bestia, e quella che vedo io. Un mostro che mi porterebbe alla rovina, contro... non lo so, penso "solo Håbe". Quella "solo Håbe" che mi basterebbe eccome. Quella che mi aiuterebbe a tornare me, a uccidere la bestia.

Ma come lo faccio un colpo di Stato se ho il nemico in casa?

Finiamo la colazione in silenzio.
Poi mi alzo, lei si alza, e mentre mi aiuta a sparecchiare, a un certo punto mi tocca la mano.

Il mio primo impulso è quello di scappare via. Mi ritraggo, ma allo stesso tempo non voglio farlo, così guardandola, dico: «Scusa. Håbe, io penso... Di aver bisogno di un po' di tempo per... capirci qualcosa.»

Lei fa un grande respiro. L'acqua continua a scorrere nel lavabo, ma noi ci stiamo guardando negli occhi. Annuisce. «Come temevo. Beh, non preoccuparti, ne hai tutto il diritto. Me ne vado, allora.»

«Ti chiamo io. Appena capisco... cosa voglio.» Getto lo strofinaccio sul piano della cucina; chiudo l'acqua.

La accompagno alla porta, sentendomi abbastanza uno schifo.
«Allora, ciao, man», mi dice. E mi sorride.

Quando è arrivata quel giorno, a riportarmi la maglietta. Quando mi ha trovato con Doreen. Quando mi ha salutato scattandomi una fotografia a tradimento. Tutte le volte in cui l'ho vista lì, davanti la mia porta mi vengono in mente, e per un momento, solo per un momento il me stesso sembra prevalere sulla bestia strisciante, e ho un grande impulso di dirle di rimanere. Magari per adesso, poi forse per sempre.

Però la mia fedele compagna mi ricorda che io non so neanche che significhi "per sempre".

E mi dice di chiudere la porta.
E io — non proprio io — l'ascolto.



|spazio autrice:

vi prego,
non odiatemi in questo capitolo
perché vuol dire che al prossimo mi brucerete viva

grazie vi amo ricordatelo sempre|

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